La Guerra dei Mondi
“La guerra dei mondi”
di Orson Welles
Per alcuni rappresenta un episodio “classico” nella storia dei media; per gli “scienziati dell’anima” è stato uno degli esperimenti più riusciti, su larga scala e mai eseguito prima, sulle nevrosi collettive; per gli amanti del teatro, una performance dal realismo sconvolgente. Ed infine, per il mondo dell’informazione, un chiaro esempio di possibile manipolazione della notizia.
Fatto sta che quando la trasmissione andò in onda, descrivendo un immaginario sbarco dei marziani nel New Jersey, si verificò un fenomeno straordinario di schizofrenia collettiva a livello nazionale e quella che doveva essere un’interpretazione teatrale trasmessa via radio divenne il notiziario più equivocato della storia!
“La guerra dei mondi” di Orson Welles (libero adattamento radiofonico dal racconto War of the Worlds di H. G. Wells) non è un libro, se con questo termine intendiamo andare al di là del foglio stampato, ma uno strumento cartaceo con cui avvicinarsi ulteriormente al “fenomeno Welles”.
La pubblicazione, infatti, accompagnata dalla prefazione di Fernanda Pivano e da un’interessante e scientificamente coerente postfazione di Mauro Wolf, non è nient’altro che la fedele trascrizione (con doppio testo inglese-italiano) del radiodramma trasmesso dai microfoni della CBS di New York la sera del 30 Ottobre 1938 e che rese celebre il già apprezzato enfant prodige del cinema americano. E non per volontà sua!
Orson Welles, insieme al suo gruppo teatrale – The Mercury Theatre on the Air -, desiderava “semplicemente” aumentare il realismo dell’azione, come era già successo con altri radiodrammi regolarmente trasmessi, e donare più autenticità all’opera letteraria (che nel 1898 non era ancora etichettata come fantascienza) del celebre Wells: il papà, per intenderci, della “macchina del tempo”.
E ci riuscì! Milioni di americani in preda al panico, si riversarono in strada diretti verso località sufficientemente lontane dall’epicentro dell’attacco marziano. Suicidi; isterismi; riti religiosi di massa; gesti inconsulti; migliaia di telefonate ai centralini della polizia… Il caos!
Nel 1940, dopo “l’incidente” causato da Welles, uno studioso di tali fenomeni, Hadley Cantril, realizzò una ricerca pubblicata per la Princeton University Press con il titolo “The Invasion from Mars. A study in the Psychology of Panic” grazie alla quale si mise, finalmente, un po’ di ordine nella vicenda e furono chiariti i cosiddetti “fattori predisponenti” a causa dei quali il radiodramma di Orson Welles ebbe il riverbero psicologico che noi tutti conosciamo.
La tanto edulcorata società americana degli anni ’30, che una certa Hollywood vorrebbe farci credere essere popolata da “tipi dritti” e “supereroi” (infatti Superman, quando si dice “i casi della vita”, fa la sua comparsa il 10 Giugno 1938 su “Action Comics“, una nuova rivista della National Comics. E a crearlo furono due giovani autori, lo scrittore Jerry Siegel e il disegnatore Joe Shuster), possedeva già il suo bravo bagaglio di tipiche psicosi postindustriali: dalla paura di eventi bellici allo spauracchio di Hitler che ancora non si era “espresso” pienamente (molti pensarono, infatti, che le macchine volanti dei sedicenti marziani altro non fossero che aerei tedeschi camuffati); la crisi economica del ‘29 ancora “calda” e la disoccupazione che ne seguì; il pensiero di un futuro inquieto ed incerto; città congestionate e schiacciate dal peso dell’aberrante “miracolo americano”. Anche l’Italia aveva il suo “supereroe”: un dittatore pelato che avrebbe inneggiato ad improbabili “spezzamenti di reni” e che catalizzava, in altro modo, le insicurezze della penisola italica. Ritornando agli States…
Tale contesto sociale condusse a situazioni personali di ansia latente, insicurezza e disorientamento.
Orson Welles non credeva nei supereroi, ma nella fragilità della gente comune. Definito da alcuni “la bestia nera del conformismo statunitense”, Welles riuscì, più di molti altri ossequiosi cineasti tutti “patria e bandiera” (gli stessi che avrebbero creduto fermamente nella patriottica figura di John Wayne), a frustare l’american way of life.
E il fatto che l’evento psicotico abbia avuto origine sfruttando uno scenario fantascientifico già noto ai lettori, rinforza ulteriormente la democratica convinzione che non esiste ancora, e mai esisterà, una nazione abbastanza forte dal punto di vista tecnologico in grado di tener testa all’ignoto, ai disseppelliti incubi del nostro cervello, alle sfide della psiche e delle più profonde paure appartenenti alla natura umana.
Inevitabile, credo, sia il confronto con i nostri giorni… Nel 1938 non era stata ancora raggiunta la “saturazione da immagini” che caratterizza, invece, le nostre “vite moderne”: dvd, immagini scaricate da internet, pubblicità onnipresente, fotografie sui e dai cellulari, telecamere persino negli intestini quando abbiamo problemi di salute, radio e televisioni che trasmettono incessantemente e con fede maniacale il “tutto” ed il “contrario di tutto”!
La facilità d’informazione, che rappresenta il leit motiv delle nostre esistenze, è innegabile: notizie fresche che ci raggiungono sui cellulari anche in fondo agli oceani; quotidiani distribuiti gratuitamente nei metrò. Gli stessi “marziani”, credo, non potrebbero più fare tanto affidamento sull’effetto sorpresa perché i telescopi, orbitanti e non, della Nasa vomitano sulla Rete, ventiquattro ore su ventiquattro, immagini provenienti dallo spazio… Forse nessuno ci “cascherebbe” più nell’involontaria burla di Welles, se la si volesse riproporre in un audiovisivamente congestionato terzo millennio.
Ma non siamo, per questo, immuni da pericoli: la soglia di credibilità della realtà si è innalzata vertiginosamente. L’artigianato tecnologico al servizio dell’alterazione della realtà è divenuto scienza (accettata e ricercata da tutti); il problema della manipolazione sollevato dalla vicenda accaduta nel 1938, si è inesorabilmente invertito. Se in passato era facile far credere alla gente che un racconto fantastico fosse realtà, oggi è estremamente difficile compiere l’azione contraria: far credere che la realtà non sia fasulla.
Scrisse Guy Debord ne “La Société du Spectacle”: “tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”.
E sicuramente lo “scherzetto” di Orson Welles rappresenta una degna e (lasciatemelo dire) nostalgica premessa di tale accumulazione.
Ricordo ancora con una certa ilarità mista a sconforto, l’esperienza raccontatami anni fa e che avrebbe visto protagonista un giovane napoletano il quale, durante l’attacco aereo alle Torri Gemelle di New York, l’11 Settembre 2001, entrando in un negozio di scarpe di Corso Umberto a Napoli e notando che commesse e clienti guardavano incantati lo schermo di un televisore sintonizzato sulle immagini di un aereo che “s’infilava” in un grattacielo, avrebbe domandato seriamente e ad alta voce, sfruttando pienamente le proprie facoltà di intendere e di volere: “scusate! … ma per caso è l’ultimo film di Bruce Willis?”
30 ottobre 2019 a 09:05
L’ha ripubblicato su Pomeriggi perdutie ha commentato:
Accadde il 30 ottobre 1938…
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27 marzo 2017 a 16:46
[…] the Worlds di H. G. Wells, ebbe nel lontano 1938?”. Ho già analizzato anni fa, in un altro post, questa vicenda cult della storia radiofonica e il libro ad essa collegata, ma emergono, ogni […]
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