Le forme, la storia e l’anima

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Osservando questa foto scattata a Napoli, nella mia Napoli, nel 1938 in occasione della visita di Hitler, ho pensato per un istante di trovarmi dinanzi a un fotomontaggio realizzato ad uso e consumo di un’ucronia, ovvero di un racconto fantastico che partendo da un’ambientazione storica reale in seguito devia dal percorso conosciuto a causa di una serie di “se” e conseguenti scenari alternativi ipotizzati (come sarebbe l’Europa oggi se Hitler avesse vinto la guerra; cosa sarebbe accaduto se Ponzio Pilato avesse liberato Gesù e crocifisso Barabba, andando contro la volontà popolare; ecc.).

E invece, come accennavo, questa foto presa in prestito da un post del sito NapoliToday (che a sua volta riprende un articolo di Corrado Ocone pubblicato sul Corriere della Sera), si riferisce a un fatto reale, storicamente documentato, un evento accaduto pubblicamente e quindi confermato da numerosi testimoni. Eppure osservando questa Piazza del Plebiscito inconsueta, lontana dal nostro presente, per certi versi quasi “irreale”, è inevitabile che mi lasci trasportare verso alcune considerazioni non da storico ma da semplice uomo della strada che riflette sul tempo (non quello atmosferico!), sul suo trascorrere, sul cambiamento solo apparente che la storia ci propone attraverso le forme.

Il punto iniziale di questa mia riflessione è rappresentato proprio dalle piazze: quelle storiche e importanti, almeno da un punto di vista architettonico e salvo radicali modifiche determinate da volontà dittatoriali o megalomanie regali autocelebrative travestite da progresso, da cataclismi o da altre insormontabili esigenze urbanistiche, restano invariate e riconoscibili anche dopo secoli; la parte variabile di una piazza, come di una città e di un intero paese, è costituita dalle forme aggiunte, dalle scenografie supplementari del momento più o meno rimovibili: vedere quella Piazza del Plebiscito agghindata con i vessilli fascisti e nazisti, le svastiche e i fasci littori che sormontano l’emiciclo dorico disegnato da Leopoldo Laperuta su “mandato” di Gioacchino Murat, suscita una certa impressione in chi, come il sottoscritto, ha percorso quegli spazi godendo di una libertà ereditata alla nascita. Impressionato non perché scopro, grazie a questa foto storica, che sono esistiti (e purtroppo, anche se in misura minore, esistono ancora) il fascismo e il nazismo, ma con “occhio postumo” metto a confronto “le varie foto” di quello stesso spazio adoperato nel corso della storia in differenti momenti, diametralmente opposti, umanamente incompatibili: dalla visita di Hitler nel 1938 al concerto di Pino Daniele nel 1981! Tanto per fare un esagerato esempio di coesistenza degli eventi (o meglio, dei loro echi) in un luogo, come tanti altri nel mondo, che svolge la funzione di muto testimone di una metamorfosi delle forme voluta dall’uomo. Le piazze cambiano, le forme si alternano: ieri Hitler o Mussolini, oggi altri personaggi più comici, sicuramente meno tragici, ma altrettanto pericolosi e dotati di una carica ideologica che crea altre forme, moderne, adattabili ai tempi, meno eclatanti da un punto di vista scenografico o addirittura subliminali, forse più volgari ma non meno attraenti.

Il mio vuole essere un invito a non perdere di vista le forme attuali, a studiarle per disattivarle grazie a un confronto storico onesto e aperto, ma mai ingenuo e legato a una presunta unicità del tempo presente (che è sempre riducibile a un’unicità delle forme). Sappiamo compiere quest’opera di studio delle forme e dei loro effetti su di noi? In pochi, temo. Ovvero, una volta isolate le parti immutabili della storia, l’uomo e il suo contenuto primordiale costante, sappiamo osservare in maniera oggettiva le forme che agghindano il nostro tragitto temporaneo su questo pianeta? Per riuscire in questa impresa occorrerebbe stare al mondo con distacco, quasi un necessario ossimoro: partecipare alle forme dell’epoca ma senza perdere di vista l’anima laicamente intesa, la zona immutabile dell’umanità (il solo e autentico “monumento” costante nel tempo, più eterno delle piazze), la sua atavica e inossidabile imperfezione (e che, paradossalmente, rappresenta un confortante punto di riferimento per le generazioni che sanno riconoscerla durante i passaggi epocali), il contenuto che resiste ai secoli, alle ideologie e alle mode.

Così come vi è un’architettura secolare, solida, che “registra” i movimenti bizzarri dell’umanità, allo stesso modo esiste un’interiorità granitica che assiste muta all’influenza delle forme sul nostro agire: con l’unica differenza che mentre il monumento nasce inanimato e non “esprime giudizi”, la nostra interiorità apparentemente immobile può essere rianimata – non senza un certo lavoro! – per svolgere la delicata funzione di “guardiano delle forme”. Le religioni, soprattutto quelle operanti in occidente, in un contesto economico fagocitante e di progresso tecnologico ossessionante, hanno da tempo fallito nel loro compito maieutico e di autentica liberazione dell’uomo, assolvendo magistralmente invece a quello di “complice” del potere sistemico. Una speranza deriverebbe attualmente dal progressivo avvicinamento tra spiritualità e scienza, ma questo rappresenta un capitolo a parte…

Accettare questa sorta di “pessimismo storico” non significa disimpegnarsi nel presente (della serie: “l’uomo è sempre uguale e non cambierà mai niente, quindi perché sudare? Tanto vale attendere la morte godendo dei piaceri dell’esistere!”); si tratta invece di un’accettazione consapevole in grado di prepararci alle cicliche cadute causate dalla “debolezza congenita” della specie a cui apparteniamo. Uno sforzo indispensabile se si vuole imparare ad essere originali in maniera profonda (l’originalità non risiede nel generale ma va ricercata nel particolare, senza perdersi in esso), riconoscendo con serenità di essere in fin dei conti solo delle “copie” di persone già vissute e che ripetono le battute di un canovaccio già scritto e ormai sgualcito perché utilizzato da miliardi di esseri umani nel corso dei millenni; uno sforzo per imparare a sorridere di noi stessi e dell’umanità passata e futura, della ripetitività storica in cui siamo immersi fin dalla nascita, e non restare prigionieri delle forme.

versione pdf: Le forme, la storia e l’anima

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5 Risposte a “Le forme, la storia e l’anima”

  1. L’ha ribloggato su Pomeriggi perdutie ha commentato:

    “… una volta isolate le parti immutabili della storia, l’uomo e il suo contenuto primordiale costante, sappiamo osservare in maniera oggettiva le forme che agghindano il nostro tragitto temporaneo su questo pianeta?…”

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  2. Guardiamo all’immobilità della Piazza, senza quasi fare caso agli “abiti” che indossa nel corso del tempo. Anche le Piazze hanno una loro “moda”. Dal periodo in cui erano simbolo di aggregazione, poi si è passati al periodo in cui ci si riuniva per contestare. Rivoluzioni, marce pacifiche le hanno attraversate nel corse dei secoli.. Si può arrivare ad averne paura come afflitti da agorafobia, preoccupati di essere risucchiati da essa e così ci manteniamo ai margini, disinteressati.
    Nel frattempo continuiamo a credere che sia fermo tutto lì, che le Piazze e la loro immobilità granitica appunto, siano il segno di uno “status quo”.. mentre invece è tutto in movimento, in costante evoluzione con corsi e ricorsi storici che non possono non far riflettere.
    La Piazza “contiene”, ma non è il “contenuto” e il cambiamento, se voglio vederlo, devo cercarlo guardando al contenuto che essa ha accolto in sé. L’uomo nel corso del tempo non ha perso nessuna delle sue caratteristiche, nonostante abbia indossato un habitus da civilizzato, la sua natura rimane la stessa, atavicamente succube di alcuni richiami, di alcune debolezze, di alcuni desideri che, nessuna storia che ci parla delle sue disfatte, delle sue miserie e rovine, unite a tragedie immani è riuscita a fermare, o ad evitare. Ma questo non basta, non dovrebbe bastarci, come dici anche tu, per farci gettare la spugna in attesa della fine.
    Il “contenuto” di una statica Piazza deve insegnarmi, deve cambiarmi, spronarmi e spingermi a cercare di essere migliore. Che il tutto non sia solo ricordo, ma immagini da decifrare, riguardare.. “scatti” sui quali riflettere e riflettermi chiedendomi poi cosa vedo, cosa penso. Perché è quello il momento forse in cui anche io divento “contenuto” della Piazza.. capace di fare la storia. Se mi sento parte di un qualcosa che è forse più grande di me, posso sperare di divenire come una piccola goccia nel mare. Sono i tanti che possono far virare verso il bene le situazioni e non il contrario.. Perché il tempo ci ha insegnato che i pochi sono sempre stati capaci di prevalere in breve tempo, portando in maniera convinta il male e dilagandolo a macchia d’olio.
    Nei segnali che come “scatti” fermano un postumo movimento, devo cercare la chiave per leggere un qualcosa da poter evitare, o fermare.
    Grazie per lo spunto di riflessione!

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    • Il mio è un post sospeso tra il politico e il sociologico, ma è anche una riflessione sull’individualismo e le sue virtù. Dici bene che insieme si possono fare tante cose positive ma la storia c’insegna che anche le masse e il senso di appartenenza a un progetto più grande hanno annebbiato la visione del singolo. In questi casi ci si deve isolare per non restare prigionieri. Altrimenti si entra a far parte della foto senza sapere perché… E’ l’ululato del branco che fa presa sulla parte primordiale in noi e ci rende massa, massa inanimata come i marmi delle piazze… Capisco il tuo riferimento gramsciano contro l’indifferenza e lo stare ai margini della piazza ma a volte bisogna guardarla da lontano per salvarsi e per rifarsi alla parte interiore di ognuno di noi non ancora intaccata… Grazie per aver letto! 🙂

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      • Concordo sull’ululato del branco.. e ho capito benissimo cosa vuoi dire.
        La storia fin troppe volte ci ha resi partecipi del fallimento del branco e il mio non era un invito a fare massa, credendo che sia l’unico modo per smuovere le acque. Ma semplicemente guardare, capire le masse e, nonostante tutto, nonostante il carattere umano sempre uguale a sé stesso, non arrendersi ed andare verso il “bene” e, anche se pochi seguiranno quella strada, non mi stancherò mai di perseguirla e di fare del mio agire un esempio ri-volto a quel bene comune che non è mai quello personale piccolo e misero. Volevo intendere questo con le mie parole.
        Riguardo al senso di appartenenza, a ciò che la storia ci ha insegnato volevo aggiungere che il mio è un pensiero “utopistico” e lo so benissimo, ma cercherò di spiegarlo.
        È vero che nella storia i grandi gruppi hanno fatto i noti danni, ma è anche vero che quelle che sembravano delle masse così enormi, in confronto a tutto il resto delle popolazioni, rimanevano sempre delle minoranze. Non so come spiegarmi.. Io sono per il resto delle popolazioni che nella mia utopia potrebbero sempre, guardando al bene comune, avere la meglio.
        Se in certi momenti storici quella parte enorme di popolazione avesse fatto “il giusto”, ognuno nel suo piccolo.. le masse di cui parli tu, avrebbero avuto vita breve.. Utopia pura.. lo so bene figurati, ma era solo per spiegarti a quale parte di popolazione mi riferissi io nel parlare di quel mare fatto di piccole gocce. E anche in questo caso la storia si ritorce contro il mio pensiero, me ne rendo conto. Ma delle volte si ha bisogno di sperare in qualcosa di migliore..

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      • capito cara! 🙂

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