Desidera la donna d’altri!

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Agli amori impossibili

e a quegli amanti che li rendono tali

Recita il nono comandamento del Decalogo, meglio conosciuto come I dieci comandamenti: “Non desiderare la donna d’altri”; essendo il termine donna piuttosto generico, in quanto comprendente anche una persona nubile di età adulta o una giovane ragazza che pur avendo raggiunto la maturità sessuale non è ancora in età da matrimonio, gli esegeti in difficoltà fanno ricorso alla versione del Decalogo tratta dal libro dell’Esodo in cui si specifica severamente, rivolgendosi ai tipi vaghi: “Non desiderare la moglie del tuo prossimo”, restringendo decisamente il campo e allontanando il fedele da qualsivoglia rischio interpretativo. Indipendentemente dall’utilizzo del termine donna o moglie, il principale bug contenuto in questo comandamento è il carattere di possesso, esercitato dall’uomo nei confronti della donna, che traspare dalle parole: comandamento che, per chi crede, sarà stato pure dettato da Dio, infallibile per definizione, ma la lingua in cui è stato tradotto, ad uso e consumo dell’umanità bisognosa di norme, anzi scolpito sulle leggendarie tavoletradisce esigenze terrene palesemente maschiliste che di divino hanno veramente poco! È quel d’altri, usato indifferentemente tra “roba” (del decimo “non desiderare la roba d’altri”) e “donna”, a rappresentare uno dei punti meno nobili del nono comandamento. Ma andiamo per gradi: ritorneremo sulla questione del possesso in un secondo momento.

“Non desiderare…” Che significa? Come si può ordinare alla propria mente e al proprio corpo di non desiderare? Ovvero di volere fortemente? Posso decidere di non muovere per un giorno intero il braccio destro (che è un “oggetto” materiale visibile e tangibile) ed è un esercizio quasi impossibile da realizzare perché l’istinto, in un momento di distrazione, ci imporrebbe prima o poi di muovere il suddetto braccio nel caso in cui dovesse servire per bloccare una minaccia o per evitare una caduta rovinosa… Eccolo lì, il vero pericolo della virtù: l’istinto. Più sfuggevole e incontrollabile del libero arbitrio che presuppone un libero ragionamento a cui seguirà un’azione volontaria, meditata. Il desiderio non è come un arto fatto di muscoli e ossa: è un concetto intangibile che però può avere effetti concreti nella realtà. Il desiderio non è il frutto di un ragionamento; il desiderio sorge all’improvviso dalla mente, dal cuore e spesso, prima ancora, dalla carne. Esiste, però, anche un desiderio casto: desiderare di ascoltare le parole di una persona che tocca le nostre corde interiori; questo non precede necessariamente un toccare corde fisiche, ma prevenire è meglio che curare – avranno pensato gli antichi custodi della nostra integrità morale – e quindi ci viene intimato nel vangelo di Matteo: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (in un altro libro che nominerò più avanti* si legge una versione simile sempre in riferimento al vangelo di Matteo: “Chiunque mette gli occhi su una donna sposata per concupirla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” […] l’adulterio consumato all’interno dell’uomo equivale per gravità a quello consumato nella carne [pag. 216]). In entrambe le versioni c’è una costante: con lei, ovvero la donna è adultera a sua insaputa solo perché un uomo l’ha desiderata nell’immaginazione. Una sorta di “parità tra i sessi” ante litteram in chiave immaginifica? O di condivisione neurologica delle responsabilità? La posizione dei peccatori peggiora se anche lei asseconda e ricambia lo sguardo desideroso di lui. In quel caso l’inferno è assicurato per entrambi: anzi la donna vi entrerà per prima in quanto è un essere a cui non è permesso desiderare esternamente, in quanto “roba”, cosa, oggetto del possesso privo di potere decisionale e vincolata da un “familismo amorale” di stampo sentimentale. Infatti il Decalogo esclude a priori l’equivalente femminile del nono comandamento: “Non desiderare l’uomo di altre”. Tanto a cosa servirebbe specificarlo? Le ragioni di questa esclusione non sono solo di natura sessuale (nel senso di sesso di appartenenza), o dovuta a una superiorità di genere decisa dall’alto, ma soprattutto trattasi di motivazioni socio-economiche e culturali “giustificate” dall’epoca storica in cui sono state concepite.

Leggo ancora dal già citato testo*, il Nuovo dizionario di Teologia Morale a cura di Francesco Compagnoni, Giannino Piana, Salvatore Privitera; Edizioni Paoline (1990): “… proibizione di desiderare ciò che appartiene al prossimo nelle proibizioni di desiderare la moglie (nono comandamento) e le cose del prossimo (decimo comandamento). È la classificazione ancora oggi in vigore nella chiesa latina e luterana.” Mogli e cose erano poste sullo stesso livello; erano e non sono, per fortuna (anche se in alcune zone critiche del nostro pianeta – vedi le nazioni in cui vige la sharia e dove si assiste al totale annullamento della donna in funzione di un equilibrio sociale dettato da un presunto Dio – c’è ancora tantissimo lavoro da fare!). Infatti leggo in seguito: “… le esigenze morali dell’elenco decalogico non possono non sottostare al criterio interpretativo ed evolutivo della storicità. Esse si evolvono evolvendosi l’uomo stesso. Si vuole dire che la cultura antropologica di quei remoti tempi che ne hanno visto le prime formulazioni vi ha influito in maniera considerevole, e non poteva essere diversamente. Così, per es., l’adulterio vi è valutato eticamente come attentato al diritto di proprietà del marito sulla moglie.

Quindi in un volume di teologia morale pubblicato da una casa editrice notoriamente di cultura cattolica si ammette testualmente che in fin dei conti il Decalogo dettato da Dio ha subito qualche “piccola” influenza interpretativa da parte degli uomini dell’epoca e che quindi non si tratta propriamente di una rivelazione divina bensì di un ordinamento spacciato per divino e adattato alle esigenze della struttura sociale di quei tempi, ovvero di una società in cui la donna era una proprietà da proteggere al pari di pecore, capre, tappeti e abitazioni; protezione ottenuta tirando in ballo un presunto peccato (e relativa punizione proveniente dai piani alti).

E infatti, in maniera intellettualmente più onesta, si legge in seguito: “Il credente di oggi nelle società occidentali altamente sviluppate e opulente, ma anche piene di contraddizioni, è chiamato a interpretare queste norme secondo la sua situazione e cultura che sta alla base della sua presenza nella società. […] Si tratta, certo, non di svuotare i precetti del Decalogo delle loro valenze profonde, ma di assumere i valori propriamente umani da persone di oggi. Inoltre, al presente, il problema del bene e del male, visto nelle scelte concrete e quotidiane, appare in termini molto più complessi che non ieri o avant’ieri. Le esigenze etiche del Decalogo, per es. Non commettere adulterio, richiedono un complesso lavorio di applicazione a situazioni diverse e cangianti.” Non più blocchi dogmatici di granito ma norme esistenziali da adattare caso per caso, essere umano per essere umano.

Ancora una volta il “rivoluzionario” chiamato Gesù ha visto lungo, attraverso i secoli, fino ad arrivare ai giorni nostri, a quei giorni complessi a cui si accennava prima: difendendo l’adultera dalla furia giudicatrice della collettività ha determinato una svolta culturale epocale, ha tracciato definitivamente una linea di demarcazione tra le vecchie norme applicate pedissequamente e un nuovo modo di vedere, di giudicare, di vivere; ha diffuso la “buona notizia” che le vicende possono e devono essere sempre giudicate di volta in volta, in base ai tempi, non in maniera primitiva e tribale. Non intima alla donna di tornare a casa e di non cercare più l’amore che non ha trovato nel suo matrimonio ma di cercare meglio, di aggiustare il tiro, di cercare un amore che le doni dignità e non solo soddisfazione fisica. Il vero umanesimo passa attraverso la valorizzazione (e valutazione) dell’individuo e non nella sua selvaggia omologazione. La religione, nella sua componente prettamente spirituale, non sarebbe dannosa in sé: è la reinterpretazione in chiave dogmatica dell’esperienza religiosa, ad opera di certe comunità fondamentaliste e di certe chiese, ad allontanare la spiritualità dalla vita quotidiana e dalla vicenda umana.

Sappiamo che “il senso del possesso… fu pre-alessandrino” ovvero arcaico, ancestrale, di origini antiche, animalesco non nel senso negativo del termine: è bello, anzi sublime, appartenere all’amata o all’amato. Non solo essere posseduti dal punto di vista sessuale. Appartenere in libertà, spinti dal sentimento e non da un contratto sociale. Dire “io sono tuo… sono tua!” come in una dichiarazione di fiducia, di volontà di diluirsi nell’altro-a, e aggiungerei di “volontaria volontà”. I corpi si compenetrano l’uno con l’altro e infatti, sempre nel vangelo di Matteo, si legge: “… l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola. Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi.” Sottintendendo che Dio, per chi crede, partecipa fortemente a questa unione se è un’unione, però, suggerita dall’amore, dal desiderio reale, da una serie di sentimenti che giustificano questa fusione. Non da una mera coerenza. Coerenza verso chi? Spesso cerchiamo di soddisfare le persone che abbiamo accanto, dimenticando di rendere felici noi stessi.

Ma quando, umanamente, questo amore sfuma? Quando rimane solo il contratto, per non dire il “baratto matrimoniale” basato su un do ut des di facciata per soddisfare parenti e amici, quando rimane solo il lato “commerciale” del rapporto? Quando a prevalere è solo il principio di possesso dell’uno sull’altra spacciandolo per onestà tra i componenti di una coppia morta da tempo o addirittura mai nata, o per un presunto senso di responsabilità nei confronti di terzi (i figli, da sempre i migliori alibi a disposizione dei genitori)? Si affida tutta la propria esistenza a un contratto stipulato in presenza della divinità e che non si può rescindere? E il libero arbitrio? E le affinità elettive? E il rispetto per se stessi, per la qualità dell’esistere e per il tempo a disposizione in questa vita? E il rispetto per la probabile mutazione dei propri sentimenti umani? Non conta tutto questo?

Tutto deve rimanere congelato proprio in un’epoca come quella attuale in cui, leggevamo prima, persino le norme di origine “divina” possono e devono essere reinterpretate in chiave storica e vi è la possibilità di adattarle alle esigenze di una società che muta e non può rimanere legata a inutili e anacronistiche catene morali? Se siamo noi stessi a disattivare il sistema d’allarme della nostra abitazione, perché dovremmo asserire di esseri stati derubati? Se il sistema d’allarme del sentimento è spento, è ancora lecito parlare di furto d’amore? Se il coniuge disamorato apre a una nuova possibilità di vita, è colpevole di adulterio? Se confondiamo il matrimonio con un comodo parcheggio, in cui vegetare fino alla fine dei nostri giorni senza coltivarci e coltivare il compagno o la compagna, perché ci sorprendiamo se l’altro-a comincia a guardare in un’altra direzione in seguito a un comprensivo disamoramento? Perché dovremmo sentirci in colpa nei confronti di chi ha condotto in maniera sciatta la propria relazione sentimentale trascurando il proprio partner? Se la donna vi apre la porta, perché non dovreste desiderare di entrare? Se ha deciso di aprirvi, tranne nei casi di una palese ninfomania o di uno stupido avventurismo sessuale che niente hanno a che fare con la possibilità di un legittimo ri-innamoramento, vuole dire che esistevano fattori predisponenti precedenti alla vostra entrata in scena; vuol dire che c’era una mancanza a cui sopperire.

A molti di voi questo post potrà sembrare inutile dal momento che la libertà individuale e relazionale è un dato di fatto, sconfinando in alcuni casi addirittura in un deleterio libertinismo che è prigionia al contrario, e che gli strumenti della separazione e del divorzio sono stati già ampiamente adottati dopo battaglie civili difficili e complesse, e oggi quasi tutti possono più o meno determinare il proprio destino. L’autodeterminazione, almeno dal punto di vista teorico e culturale, è reale. Eppure vi sono molte altre barriere da abbattere, che sono a prova di leggi libertarie e di emancipazione: si tratta di barriere psicologiche, esistenziali. E non c’è cosa più dolorosa e assurda di un prigioniero che resta seduto e immobile in una cella aperta!

Dunque, amici miei, desiderate la donna d’altri! E voi donne, desiderate l’uomo di altre! Perché non è peccato. Peccato sarebbe non vivere certi amori. Viveteli non all’ombra di una presunta infedeltà, non con la paura di essere giudicati dalla folla pronta a lapidarvi – coltivando sterili sensi di colpa dettati dalla cultura sociale o dall’imprinting familiare, incoraggiando schiere di moralisti pronti a colpire nel momento del pentimento – perché l’unica infedeltà è quella che commettiamo verso noi stessi, verso la nostra natura, i nostri sentimenti, la nostra storia personale che è fatta naturalmente di mutamenti, di contrordini, di deviazioni da precedenti stati d’animo.

Siate fedeli a voi stessi!

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Una Risposta a “Desidera la donna d’altri!”

  1. L’ha ripubblicato su Pomeriggi perdutie ha commentato:

    … l’unica infedeltà è quella che commettiamo verso noi stessi, verso la nostra natura, i nostri sentimenti, la nostra storia personale che è fatta naturalmente di mutamenti, di contrordini, di deviazioni da precedenti stati d’animo.

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