versione pdf: 1978 – 2018, comunicato n.7
a mio padre

1978 – 2018: comunicato n.7
Non desidero altri padri
che non siano i miei ricordi
“È passato più di un mese dalla cattura di Aldo Moro, un mese nel quale Aldo Moro è stato processato così come è sotto processo tutta la DC e i suoi complici; Aldo Moro è stato condannato così come è stata condannata la classe politica che ha governato per trent’anni il nostro Paese, con le infamie, con il servilismo alle centrali imperialiste, con la ferocia antiproletaria. La condanna di Aldo Moro verrà eseguita così come il Movimento Rivoluzionario s’incaricherà di eseguire quella storica e definitiva contro questo immondo partito e la borghesia che rappresenta…”
20 aprile 1978. Mentre le Brigate Rosse consegnavano in una busta arancione, nei pressi de “Il Messaggero” di Roma, il comunicato n.7, il più drammatico e surreale, mio padre moriva in una clinica di Villejuif, in Francia. A ucciderlo non erano state le Brigate Rosse ma un cancro allo stomaco. La condanna non fu emessa da un tribunale del popolo ma da un’equipe medica francese che in un altro tipo di comunicato, meno ideologico e più scientifico, sentenziò: “… carcinome gastrique avec métastases ganglionnaires…”.
Mio padre faceva di mestiere il poliziotto ma non morì durante un agguato terroristico delle BR, come quello di via Fani del 16 marzo o di qualche altra strada sconosciuta d’Italia, resa famigerata in seguito a uno dei numerosi attentati che durante quel periodo nero della storia repubblicana insanguinavano quasi quotidianamente la penisola; a portarselo via in maniera altrettanto cruenta, ma senza gli onori della cronaca e nel rispettoso silenzio di un nosocomio, furono le complicazioni post-operatorie dell’ennesimo tentativo di asportare chirurgicamente – con ferocia antitumorale – la parte intaccata dell’organo colpito dal carcinoma. A quell’epoca, parliamo – come avrete capito – degli anni ’70, dopo aver giocato la carta della “medicina locale”, molti tentavano i cosiddetti “viaggi della speranza”: si preparava una valigia e si andava a morire all’estero – spinti, forse, anche da una certa dose di esterofilia tipica di noi italiani – dove tutto funziona meglio, si diceva, dove sono più bravi; lì dove, in base a una tradizione orale trasmessa dagli stessi addetti alla sanità del nostro paese, operavano medici e chirurghi più aggiornati ed esperti di quelli nostrani. Oggi non è più così: anche in Italia abbiamo strutture all’avanguardia e operano luminari che non hanno nulla da invidiare a quelli di altre nazioni. E si può morire tranquillamente in patria.
Anche in questa storia privata compare il cognome Ricci, quello di mia madre: Domenico Ricci, infatti, era uno dei due carabinieri caduti in via Fani.
“… Detto questo occorre fare chiarezza su alcuni punti.
1 – In questo mese abbiamo avuto modo di vedere una volta di più la DC e il suo vero volto. È quello cinico e orrendo dell’ottusa violenza controrivoluzionaria. Ma abbiamo visto anche fino a che punto arriva la sua viltà. Ancora una volta la DC, come ha fatto per trent’anni, ha cercato di scaricare le proprie responsabilità, di confondere con l’aiuto dei suoi complici la realtà di uno Stato Imperialista che si appresta ad annientare il movimento rivoluzionario, che si appresta al genocidio politico e fisico delle avanguardie comuniste. In Italia, come d’altronde nel resto dell’Europa “democratica” esistono dei condannati a morte: sono i militanti combattenti comunisti. Le leggi speciali, i tribunali speciali, i campi di concentramento sono la mostruosa macchina che dovrebbe stritolare nei suoi meccanismi chi combatte per il comunismo. Gli specialisti della tortura, dell’annientamento politico, psicologico e fisico, ci hanno spiegato sulle pagine dei giornali nei minimi dettagli (l’hanno detto, mentendo con la consueta spudoratezza, a proposito del “trattamento” subito da Aldo Moro, che invece è stato trattato scrupolosamente come un prigioniero politico e con i diritti che tale qualifica gli conferisce; niente di più ma anche niente di meno), quali effetti devastanti e inumani producano lo snaturare l’identità politica dell’individuo, l’isolamento prolungato, le raffinate ed incruente sevizie psicologiche, i sadici pestaggi ai quali sono sottoposti i prigionieri comunisti. E dovrebbe esserlo per secoli, tanti quanti ne distribuiscono con abbondanza i tribunali speciali. E quando questo non basta c’è sempre un medico compiacente, un sadico carceriere che si possono incaricare di saldare la partita.
Questo è il genocidio politico che da tempo e per i prossimi anni la DC e i suoi complici si apprestano a perpetrare. Noi sapremo lottare e combattere perché tutto ciò finisca, e non rivolgiamo nessun appello che non sia quello del Movimento Rivoluzionario di combattere per la distruzione di questo Stato, per la distruzione dei campi di concentramento, per la libertà di tutti i comunisti imprigionati.
L’appello “umanitario” lo lancia invece la DC. E qui siamo nella più grottesca spudoratezza. A quale “umanità” si possono mai appellare i vari Andreotti, Fanfani, Leone, Cossiga, Piccoli, Rumor e compari?…”
Per mio padre, rivoluzionario fu arruolarsi in Polizia per sfuggire, come per altri colleghi provenienti dalle regioni meridionali, a un destino rurale inesorabile o alle orme paterne già fin troppo conosciute.
“Addio amata Lucania!” disse con piglio elfico-manzoniano, forse; non lo saprò mai “Ti lascio la boscosa eredità di mio padre, commerciante di legnami, e me ne vado in città per indossare la divisa da poliziotto che significa ordine, pane sicuro, miglioramento sociale e figliole da conquistare… Sarò un ragazzo della via Gluck con il tonfa!”.
Scegliere una strada inedita e rispettabile oppure lasciarsi annientare da un’esistenza anonima e semplice in una terra da sempre luogo di confino, prima politico e in seguito – nonostante il boom – sociale ed economico? Non sentirsi avanguardia, non militante ma servitore, non prigioniero ma uomo libero, non condannato ma graziato dalle opportunità; non campi di concentramento ma campi di grano puntellati di papaveri rossi; non torturato o annientato ma nutrito dal ricordo della sua terra semplice; non identità snaturata ma uomo completo; non isolato ma in comunione con la natura, non seviziato ma coccolato dalla penombra dei boschi, non disumano ma giusto…
Scegliere lo Stato Imperialista, diventare uno dei suoi devoti difensori, “Sub Lege Libertas”: spiega il motto del Corpo che vi è libertà solo nel rispetto della legge, mentre tutto intorno è disordine, illegalità, prigionia dietro le sbarre di false ideologie farneticanti; scegliere San Michele Arcangelo, le scuole di polizia di Alessandria e Nettuno, le foto in bianco e nero con i sorridenti compagni di corso durante la pausa mensa, e i ritorni a casa, giù, in Basilicata, con il vestito buono, in borghese e con gli occhiali da sole Persol appena comprati, per far vedere in paese di avercela fatta, di aver fatto la differenza, di aver svoltato, di venire dalla città, di essere solo un ospite di passaggio, ora, anche se la voglia di scendere in Lucania c’era sempre ed era matta. Mettere da parte la divisa per qualche giorno e ritornare a sentire l’odore delle tavole di legno appena tagliate, messe a stagionare al vento e al sole nel deposito all’aperto, dietro la casa paterna in via Appia, era un’esigenza periodica a cui non si poteva sfuggire (“… andare e venire / tra il vuoto e la città / come in un pendolo esistenziale / oscillare…”); deposito di legname che per noi, figli arrivati in seguito, sarebbe diventato “il giardino”: luogo, nascosto e dimenticato, di battaglie con pietre tra cugini, micro-guerre di soldatini nella terra, e di ruvidi scivoli legnosi su cui strusciare i nostri giovani culetti e distruggere, finalmente, i panni dismessi da madri pazienti e sacrificati per l’occasione sull’altare di un’ennesima estate spensierata.
E con semplicità, forse anche per necessità, mio padre scelse.
“… Ma ora è arrivato il tempo in cui la DC non può più scaricare le proprie responsabilità politiche, può scegliersi i complici che vuole, ma sotto processo prima di tutto c’è questo immondo partito, questa lurida organizzazione del potere dello Stato. Per quanto riguarda Aldo Moro ripetiamo – la DC può far finta di non capire ma non riuscirà a cambiare le cose – che è un prigioniero politico condannato a morte perché responsabile in massimo grado di trent’anni di potere democristiano di gestione dello Stato e di tutto quello che ha significato per i proletari. Il problema al quale la DC deve rispondere è politico e non di umanità; umanità che non possiede e che non può costituire la facciata dietro la quale nascondersi, e che, reclamata dai suoi boss, suona come un insulto.
Nei campi di concentramento dello Stato imperialista ci sono centinaia di prigionieri comunisti, condannati alla “morte lenta” di secoli di prigionia. Noi lottiamo per la libertà del proletariato, e parte essenziale del nostro programma politico è la libertà per tutti i prigionieri comunisti.
Il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione della LIBERAZIONE DI PRIGIONIERI COMUNISTI.
La DC dia una risposta chiara e definitiva se intende percorrere questa strada; deve essere chiaro che non ce ne sono altre possibili.
La DC e il suo governo hanno 48 ore di tempo per farlo a partire dalle ore 15 del 20 aprile; trascorso questo tempo ed in caso di un’ennesima viltà della DC noi risponderemo solo al proletariato ed al Movimento Rivoluzionario, assumendoci la responsabilità dell’esecuzione della sentenza emessa dal Tribunale del Popolo…”
Che cosa significa proletariato? Leggo: “Termine (dal latino proletarius) riferito, in base alla riforma di Servio Tullio (6° sec. a.C.) che divideva la popolazione di Roma in classi, a quella inferiore. I proletari erano i cittadini in condizioni di povertà tali da non possedere altro che i propri figli (proles). Nullatenenti e privi di capacità…”. In passato i figli, quasi sempre numerosi, rappresentavano una vera e propria ricchezza, si vendevano “a chili”, in alcuni casi si barattavano o si prestavano a chi ne aveva avuti di meno o nessuno: erano un investimento sul futuro, un capitale di carne da tenere a disposizione per i tempi difficili della vecchiaia o in caso di morti premature che ne dimezzavano la portata; erano, con un termine oggi adoperato per indicare un’altra categoria di persone non appartenenti alla nostra comunità nazionale ma che potrebbero rivelarsi utili e preziose nella felice eventualità di una riuscita integrazione, delle risorse umane.
Nel giro di un paio di generazioni, non solo si è dimezzato il numero dei figli, ma oggi una coppia può ritenersi fortunata dal punto di vista riproduttivo se ne riesce a concepire almeno uno. E non per mancanza di desiderio sessuale o genitoriale, ma per questioni economiche, sociali e, perché no, anche culturali. I figli non sono più una forma sicura di investimento perché il sistema familiare un tempo aperto, provvisto di numerosi effluenti che tuttavia continuavano a orbitare intorno al bacino genitoriale principale e creavano bene o male un movimento economico autogestito basato proprio sulla forza del numero, si è andato man mano chiudendo, diventando “fiume sotterraneo” incastonato tra le rocce di un sistema socio-economico che non lascia molte possibilità di manovra. Se prima, la quantità elevata di figli permetteva ai genitori addirittura il lusso di poterne “investire” alcuni nella carriera ecclesiastica o militare, e lasciare i restanti, forse perché più predisposti, ai lavori tipici del nucleo familiare e all’assistenza dei genitori una volta raggiunta l’età avanzata, oggi si assiste all’aumentante presenza – quando riescono a formarsi – di famiglie di tipo monadico, indivisibili, autonome e anche un po’ asfittiche. Il sistema economico, all’apparenza aperto, su cui è fondata la famiglia moderna – costituita quasi sempre da genitori lavoratori dipendenti o liberi professionisti e da una prole (si spera!) di futuri lavoratori dipendenti o liberi professionisti, traslando di fatto l’asse genitori-figli dalla quantità alla qualità dell’investimento – non riconosce più al numero la forza autorevole di un tempo. Anzi, aggiungere altro “capitale umano” significa molte volte mandare in default il già fragile micro-sistema economico familiare. Questa famiglia monadica è costantemente connessa tramite i social con altre famiglie monadiche, ma la rete non assicura una vicinanza umana reale e sufficiente, e quindi siamo costretti a “importare” badanti dall’estero (così come s’importano energia elettrica dalla Francia e pezzi di ricambio dalla Cina) per fornire ai nostri genitori diventati vecchi quella presenza operativa che in passato era assicurata dalla famiglia stessa.
La Democrazia Cristiana (più che una cristiana democrazia), l’immondo partito secondo le BR, contrapponeva il proprio modello di “famiglia cristiana” di stampo presepiale, borghese, imperialista (e prima ancora, forse, anche un po’ monarchica: il referendum del ’46 non era poi tanto lontano nel tempo! E sappiamo quanta conveniente intimità ci sia stata, tra monarchia e Chiesa, nel corso della storia), rispettosa del simbolismo pseudo-religioso della croce cristiana e del senso del sacrificio a essa legato (al sacrificio degli altri, però, delle altre classi sociali, stando alle accuse delle BR, come riportato nel comunicato n.7 qui riproposto a stralci corsivi, interrotti da frammenti di storia personale), al modello familiare di tipo proletario molto meno “fortunato”, non investito dal boom economico dei decenni precedenti, escluso – sempre secondo l’analisi del Movimento Rivoluzionario di cui i brigatisti rappresentavano il braccio armato – dai giochi economici di un potere democristiano di gestione dello Stato durato trent’anni. I comunisti, i perseguitati eredi italiani di quel marxismo-leninismo, istigatore della meravigliosa Rivoluzione d’Ottobre del 1917 in Russia, che avevano contribuito con il proprio sangue alla liberazione della penisola italica dall’orribile esperienza nazi-fascista, erano stati di fatto esclusi, nonostante la presenza significativa dal punto di vista parlamentare – oggi impensabile! – del grande Partito Comunista Italiano, dalla ricostruzione di un’ideologia economica capace di favorire le classi più deboli. Decisionismi occulti, fortemente voluti da quelle centrali imperialiste nominate nel comunicato delle BR, che travalicavano persino il (che a questo punto dovremmo definire “ingenuo”?) tentativo di Moro e Berlinguer di dare vita a un governo di centro-sinistra, il primo della storia della giovane Repubblica Italiana. Un governo non voluto dai brigatisti e dalla rivoluzione proletaria; un governo non voluto dagli stessi “compagni” di partito di Moro e forse non voluto dai servizi segreti deviati italiani e quelli non deviati statunitensi.
Contrapposizione tra “famiglie”, quella democristiana e quella proletaria, che non poteva essere sanata, evidentemente, dalla generosa distribuzione di pacchi di pasta da parte di Giulio Andreotti alle famiglie indigenti che bussavano alla porta della sua dispensa!
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