<<Mai come in questo periodo ho sentito l’esigenza di riprendere in mano questo libricino pubblicato qualche anno fa per i tipi di Castelvecchi (a cura di Giuseppe Pollicelli che insieme a Mario Tani nel 2013 ha diretto il film documentario “Temporary Road. (Una) Vita di Franco Battiato”) e intitolato “provocatoriamente” IL SILENZIO E L’ASCOLTO – Conversazioni con Panikkar, Jodorowsky, Mandel e Rocchi.
Perché “provocatoriamente”? Perché, diciamocelo, a noi estimatori/fan è mancata e continua a mancare un po’ quella capacità di stare in silenzio e in ascolto. Su questo gruppo forse si è sentita di meno questa incapacità perché siamo tutte personcine di un certo livello: è vero, è piaciuto anche a noi fare qualche commento sulle recenti foto casalinghe del Maestro (commenti giustificati da un’assenza che era divenuta insostenibile da un punto di vista umano più che discografico), ma decisamente non abbiamo assistito a “pontificazioni” e ipotesi di “gomblotto” come altrove. Così mi raccontano…
Infatti, cogliendo l’occasione di parlare di questo libro, intendo ritornare alla vocazione principale di questo “gruppo di studio” che non è “sapere cosa ha mangiato Battiato a pranzo in compagnia di Madonia” bensì libri, contenuti musicali, temi “battiateschi” a noi cari, musica, esoterismo, viaggi, spiritualità… ecc.
Ritornando al libro. Chiede Battiato a Panikkar: “Parliamo del silenzio”, il quale risponde: “… Il silenzio non si può creare se non si sa ascoltare […] Ma anche saper ascoltare le chiacchiere degli altri. Ascoltando trasformi quello che ascolti… […] … io sono il mio corpo. Pertanto, per poter entrare nel silenzio, devo saper stare zitto non solo con le parole ma anche con il corpo. Senza una certa immobilità del corpo non si può conseguire l’immobilità dello spirito. Uno dei grandi dogmi occidentali è quello della volontà: se fai una cosa, questa deve avere un fine. […] È un guaio questo voler sempre prendere l’iniziativa.” Cosa farà Battiato nei prossimi mesi e anni? Non lo sappiamo e non spetta a noi fare ipotesi: restiamo “in silenzio e in ascolto”. È liberatorio dire “non lo so!” Essere ignoranti.
Dice ancora Panikkar: “… ti trovi davanti al mistero e hai coscienza di non poterlo giudicare. Sei consapevole di conoscere soltanto una parte infinitesimale della realtà…”
Stare zitti con il corpo, sembrare o essere “sciupati e assenti”, e fregarsene! Anzi, VOLER essere (o sembrare) assenti. Fare la propria strada. Dare ascolto solo al proprio orologio interiore, non parlare, seguire i propri tempi, dimenticare i clamori, le pretese dei fan, le ipotesi di “giornalucoli” di provincia… Godersi il presente. Aspirare a conseguire l’immobilità dello spirito; trasformare una convalescenza nel passaggio a un livello di energia e di presenza differente e incomprensibile da un certo efficientismo occidentale.
Guidare di notte, d’estate, finestrino aperto sul cielo stellato in alto, e su paesi e borghi illuminati in basso, galleggianti nel buio di valli senz’afa, astronavi di contrada che non decolleranno mai.
Guido piano, guido forte: forse guido un pianoforte; la musica dall’autoradio, come leitmotiv del mio perdermi quasi voluto tra strade senza lampioni, m’incoraggia a sperare in un ritorno verso casa. Sulla faccia un venticello ancora tiepido residuato dal giorno assolato, mentre ascolto la gomma della ruota mordere l’asfalto di una strada scricchiolante e viva al mio passaggio. Rari gruppetti di cartelli stradali con salvifiche informazioni, come oasi arrugginite e impallinate all’orizzonte rivelato dai fanali: il tempo di leggere, fermarsi in mezzo al non traffico, di riconoscere la direzione desiderata, e via! Convinti e solitari: ce la farò nonostante l’errore iniziale. Tutte le strade, anche quelle più “strane”, alla fine ci riportano a casa. Ei paesaggi più suggestivi li incontriamo proprio quando sbagliamo strada. O quando allunghiamo. Penso alla critica delle persone precise e puntuali: “ma hai sbagliato strada!”. A cui risponderei con un filosofico: “e chi se ne frega?”. Per fortuna sono solo e sbaglio quanto mi pare.
Complesse acrobazie su asfalti disastrati e abbandonati all’incuria della burocrazia amministrativa, senza navigatori intelligenti o un po’ stupidi, bensì “a naso”, come un tempo, tra incroci deserti e serrate chiacchiere di cicale accaldate. I fari lunghi irriverenti illuminano vegetazioni a bordo strada, gatti appostati “con occhi di bragia” per cacciare topi e lucertole, o schiacciati da auto ipnotizzanti e veloci, e già in putrefazione. Poveri mici abbagliati dalla tecnologia! A volte pigri o saltellanti cani di quartieri campagnoli, volpi raminghe che guadagnano cespugli discreti. Case con luci fioche sulla porta d’entrata, a indicare familiarità, “qui ci abitano esseri umani!”. O per dire a figli nottambuli dove infilare la chiave. Case antiche o moderne, avvolte dall’oscurità, dalla quiete di abitanti dormienti o tramortiti dalle ultime luci blu di camini catodici.
Guido piano, guido forte: forse guido un pianoforte. I tasti neri della notte si alternano a quelli bianchi di lampioni ordinati che, in attesa del nuovo sole, salvano dalla paura dell’oscuro ignoto, porzioni alternate di strada. Luce-buio, luce-buio, luce-buio… così, per chilometri. Lì dove ci sono, altrimenti ci si arrangia con la lontana luce di luna e stelle. Sotto ognuno di essi si potrebbe addirittura leggere un buon libro, ma non c’è tempo. Se abitassi qui, chissà… mi fermerei a leggere al fresco della strada notturna e deserta, sfruttando l’illuminazione pubblica, godendo del silenzio di zone dimenticate, non dico da Dio ma almeno dal vescovo, e dalla massa balneare che affolla altre strade, altri quartieri, altre città, quelle di mare. Voi, imperterriti frequentatori di terre interne senza porti, vi state perdendo la vita sociale e frizzante della costa, il pullulare tipicamente estivo di occasioni carnali, di carni che non si vendono al supermercato ma che, vive e giovani, odorano di crema abbronzante e sole al sapore di sale.
Intanto, risalendo verso la cima di colline calve per il vento costante, mi imbatto nelle luci rosse intermittenti di instancabili pale eoliche, quelle che prima, da sotto, vedevo piccole come girandole in mano a bambini di fiera: gira, gira, gira… soffia, soffia, soffia, anche di notte il vento catturato da questi mobili alberi meccanici produce energia per la comunità. Segnala, segnala, segnala! Guai se questi lampeggianti non segnalassero a notturni voli d’elicottero la presenza di quest’invenzione umana che di giorno è ben visibile, roteante e a volte sincrona come in un balletto classico. Che gran giramento di… pale, questi draghi metallici con occhi rossi intermittenti e aliti di vento senza fuoco dalle viscere dell’aria. Sì, ma la coda? Creature eleganti e schierate come giganteschi soldati controvento. Eserciti di robot con spade rotanti in servizio permanente effettivo per l’umanità e le sue esigenze energetiche. Come muti danzatori nel vento, su una gamba sola, allenati e disciplinati, muovono braccia grandi e leggiadre sulla cima del mondo.
E io, povero Don Chisciotte della Mancia campana, su un ronzino a scoppio, passando sotto le pale a vento di questa notte di luglio (pale contro cui, a differenza dell’hidalgo spagnolo, non tento nemmeno di combattere), penso a cosa accadrebbe, a me e al mio mezzo, se una di quelle pale – una sola di quelle, enormi e quindi pesanti quanto basta – si staccasse e colpisse con sfortunata precisione l’equide metallico di cui mi servo. Su quella strada in cima alla collina, poco frequentata, ritroverebbero chissà dopo quanto tempo la mia auto schiacciata, forse con i fari ancora funzionanti e illuminanti, dall’unica pala sfuggita alla corolla eolica.
Abbandonando il sicuro centro abitato, dove la festa continua tra vino e salsicce per chi pernotterà lì, sapevo a cosa andavo incontro, quali rischi avrei corso immergendomi nell’oscura periferia del borgo civilizzato e accogliente.
Guido piano, guido forte: forse guido un pianoforte… Perché la scala non musicale di questa strada che non suona, ma risuona di cicaleggi e fuochi d’artificio in lontananza per feste patronali sconosciute, mi riporta lentamente a valle, lì dove abbondano le Autostrade d’Italia: quelle lisce, con la segnaletica dipinta a terra, illuminate a giorno, piene di cartelli, pompe di benzina e bar, di svincoli, di possibilità esistenziali e di scelte geografiche.
Avanti, dunque, oh marmittico Ronzinante! Riportami a casa…
lei mi ha detto che ti chiami così, che questo è il tuo nome, anche se nella nostra corrispondenza, riferendosi a te, usa sempre la “L” puntata, forse per una sorta di pudore reverenziale nell’incompletezza o perverso affetto fraterno tendente al protettivo che ancora conserva nei tuoi confronti: lo stesso che non le permette di liberarsi definitivamente di te e della scenografia in cui pensi di vivere al sicuro dalla vita.
Da tre anni amo tua moglie e, cosa apparentemente scontata da sottolineare ma ti assicuro che così non è, lei – la “lei” a cui facevo riferimento sopra – ama me. Mi ama in maniera, volendo usare un termine in voga nel mio mondo, inedita.
Perdona questo incipit a bruciapelo che sicuramente ti starà gettando nel più acuto sgomento, che presto diventerà risentimento e forse anche insanabile rabbia omicida, ma un caporedattore, anni fa, mi insegnò che quando si imposta un articolo di cronaca bisogna cominciare dai fatti crudi intorno ai quali costruire, in seguito e con tutta calma, le descrizioni del caso e le conclusioni dell’articolo stesso. Il dato è questo: da tre anni amo, nel corpo e nella mente, la donna con cui la sera giaci tranquillo e ignorante, la stessa con cui la mattina prendi il caffè e parli del più e del meno riguardanti la giornata che vi attende. E delle cose da fare insieme, per crescere i frutti nati da quello che un tempo avete pensato fosse amore. O forse l’hai pensato solo tu, o l’avete pensato entrambi per un certo periodo e poi ti sei lasciato cullare da ciò che credevi immutabile dinanzi ai tuoi occhi aperti a metà, gli stessi che hanno smesso di fare domande nonostante l’evidenza. Che non hanno più fatto la domanda fondamentaleper paura di una risposta che in cuor tuo conosci già.
Non so cosa sia successo tra di voi in questi anni, cosa si sia frantumato o, peggio ancora, cosa non ci sia mai stato; forse tu pian piano sei diventato un’istituzione, colui che c’è sempre e comunque, il figlio acquisito dei genitori di lei, un compagno discreto al di là dei difetti caratteriali, dell’indiscussa bellezza, del crescente disinteresse e del disamore celato; forse semplicemente hai dimenticato di leggerle delle poesie, nonostante lei te lo avesse chiesto con amore. I crolli spesso sono preannunciati da piccole crepe nei muri che rendono possibile una pacifica convivenza fino al momento del disastro silenzioso e privato. Quando certi cammini di coppia cominciano troppo presto, spinti da entusiasmi acerbi e da pressioni familiari e culturali esterne difficili da dominare, accade che nel corso del tempo l’evoluzione interiore di uno dei due lasci indietro l’altro, è naturale, anche se l’affetto e gli obblighi nei confronti di chi abbiamo intorno e che amiamo ci costringono a fornire una facciata apparentemente stabile e costante nel tempo. Non tutte, non tutti, hanno la forza o l’incoscienza di abbandonare il contesto familiare in cui vivono per ricrearne uno nuovo altrove e con altre persone. Quando uno dei due, all’interno della coppia, cresce interiormente e capisce chi è e cosa vuole dall’amore, allora per l’altro cominciano i guai; anche se tu, “caro” Lucio, questi guai non li conoscerai mai: vivi sereno nel tuo schema esistenziale tamponato con morbido cotone per non farti male, perché lei non vuole farti male, e solo di tanto in tanto ti sfiora un timido dubbio, una inconscia sfumatura fornita dal caso – un incidente! -, che non giunge mai alla piena verità, che ti stroncherebbe, a quella consapevolezza esplosiva che io e lei, tua moglie, immaginiamo come se fosse un esercizio della mente e su cui spesso facciamo pronostici – un Totocalcio mai giocato fino in fondo – a volte scherzando cinicamente, altre volte tremando per gli scenari catastrofici che ne conseguirebbero. Catastrofici per lei, per le persone che amate e, potrai non crederci, anche per te. Nonostante il nostro amore sia vivo e palpitante, unico e travolgente, lei continua a difendere la tua serenità, perché da essa dipende tutto l’equilibrio – in stile famiglia del Mulino Bianco – di un edificio che agli occhi degli altri deve apparire solido e incrollabile. Prigionieri in casa propria.
Io invece sono libero, o così credo, o almeno provo ad esserlo; libero di non spedirti questa lettera: se la spedissi entrerei anch’io a far parte della scenografia da cui vorrei liberare tua moglie, che sicuramente subito dopo mi odierebbe e la perderei, diventerei una pedina incattivita – complice di un femminicidio morale – sullo scacchiere di un “gioco” che non mi appartiene, un gioco che avete cominciato voi due, da soli o quasi, molti anni prima della mia entrata in scena. E certe partite possono concluderle solo gli iniziatori. Lo scopo della presente, infatti, non è quello di allestire una vendetta distruttiva nei tuoi confronti, nei confronti della tua esistenza tranquilla e ordinata: la vita amorosa segreta e parallela, vissuta a pochi metri dalla tua cecità, quella parentesi di vita vera che non conosci e che mai conoscerai, si è già vendicata abbastanza. E anche se tu non lo sai, lo so io… Lo sappiamo io e lei, e mi basta. Ci basta: abbiamo deciso così.
Intorno al viaggiare vi è in atto da tempo una guerra non dichiarata: quella tra visione localistica ed esotica del movimento conoscitivo compiuto dal viaggiatore. I localisti, cugini non troppo lontani dei selecercatisti, tendono a concentrarsi solo ed esclusivamente sulle bellezze locali, a frequentare luoghi dove non è richiesto alcuno sforzo linguistico per farsi comprendere dalle popolazioni “indigene”, a sviluppare in maniera anacronistica lo slogan di fascistissima memoria “Preferite il prodotto italiano” anche in ambito turistico. Gli esotisti, dal canto loro, prediligono una fuga dalla realtà, una letteratura d’evasione in movimento, sono affetti da un’esterofilia curata male e che ha origini antiche: la frammentazione linguistica pre- (e direi anche post-) unitaria; la disomogeneità geopolitica che ha reso difficile la vita ai “fratelli d’Italia”; i tanti, troppi secoli vissuti in qualità di colonizzati da chiunque si trovasse a passare per la penisola. Nonostante il tricolore calcistico, estero è bello, estero è meglio: ancora una volta siam pronti alla morte culturale e identitaria.
L’ideale, come sappiamo, sta nel mezzo: occorrerebbe un approccio anarco-individualista per liberarsi dalle catene delle due fazioni. Non appartenere a nessun luogo ma essere ovunque, e al contempo abitare il tutto senza trascurare il particolare, conoscere il locale e il lontano da noi, apprendere “La distinzione / e la lontananza” (cit.), integrarli in un discorso sapienziale a chilometro zero. Evitare il viaggio vissuto come mero spostamento fisico, ma al tempo stesso non trincerarsi dietro a pigrizie culturali anchilosanti. Non concentrarsi né sul dito, né sulla Luna, ma sul gioco di sovrapposizione tra oggetti distanti che mai s’incontreranno, se non nell’immaginazione di chi crea analogie. E si scorge in questa pratica un profondo senso di libertà: l’unica possibile, in grado di sconfiggere la nostra limitatezza, il nostro essere finiti in quanto umani e confinati in un arco temporale insignificante.
Perché vi può essere tanto esotismo anche nelle cose locali, si può andare lontano restando in zona, così come ci può capitare di recuperare il nostro senso di appartenenza viaggiando in luoghi impensati, proprio mentre cerchiamo di dimenticare il punto di partenza e la nostra quotidianità. La filosofia low cost del facile spostamento ha azzerato la lentezza dell’avvicinamento, un tempo prerogativa di camminatori, naviganti e pensatori perdigiorno. Il web, la rete, non ha unito il mondo, lo ha solo omologato e reso l’ingresso a stanze lontane più rapido e facile. Ed è una grande comodità tutto questo! Nulla da eccepire… Le parti che compongono il mondo fisico e quello conoscitivo sono già in connessione da secoli, ma lo abbiamo dimenticato perché nel frattempo la conoscenza analogica è stata sostituita da quella digitale, più veloce ed efficace, che ha appiattito o sotterrato certi percorsi umani divenuti pura archeologia. La rete ha incentivato l’esotismo sì, ma quello errato: ci si illude di essere andati fuori ma in realtà siamo rimasti fermi nella casella iniziale del gioco, perché certe scoperte si compiono sulle lunghe distanze, quelle vere, e a distanza di tempo. Solo in fase di ritorno, come accade in vecchiaia dopo una vita di strade battute, ritornando a essere localisti senza perdere gli odori del mondo acquisiti nel corso di numerosi viaggi, si realizza il confronto che istruisce. Lo sguardo di un localista che è stato esotista e ha viaggiato con saggezza, sarà sempre più ampio e ricco della visione limitata di chi si rinchiude nella roccaforte della valorizzazione dei prodotti tipici locali.
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