Ti vedo
mentre ti pensi non guardata,
catturo frammenti inediti
della tua anima sulla terra,
il sacro diventa così
materia viva tra gli umani
sul confine non sorvegliato
dell’infinito.
♦
Riemergono dal passato brandelli di vita
e vedo agire tra le nebbie di ieri
un me convinto da un istinto malato,
che non riconosco oggi.
Figliastri di una coscienza forzata,
alternativi a noi stessi
abbiamo vestito i panni dismessi
di personaggi estranei, lontani
interpretando ruoli scaduti
inseguendo i progetti di altri.
Contro natura.
Mi stupisco dei molteplici io
che sono stato
ne ripercorro le gesta e le intime ragioni
rifaccio la strada con loro, per capire.
Per trovare quella giusta.
♦
Io è un altro. Je est un autre: espressione adoperata da Arthur Rimbaud…
«Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze.»
(Gandalf a Frodo in “La Compagnia dell’anello”
Il Signore degli anelli, J.R.R. Tolkien)
Ronnie Lee Gardner (49 anni), condannato alla pena capitale per 2 omicidi, dopo 25 anni di attesa in un carcere dello Utah, è stato giustiziato (su sua richiesta) tramite fucilazione da un plotone di esecuzione. Ha trascorso le ultime ore di vita guardando nella sua cella la trilogia de “Il Signore degli Anelli”. Al di là, ovviamente, dell’ordinato “spettacolino” messo su nel penitenziario statunitense per i parenti delle vittime, le autorità, i giornalisti e gli altri “invitati”, il dettaglio che mi ha fatto riflettere maggiormente in tutta questa vicenda è proprio la scelta, da parte di Gardner, di voler vedere la trilogia filmica di Peter Jackson prima di morire con quattro colpi di fucile in petto. Non sapremo mai il vero motivo di questo ultimo singolare desiderio di un condannato a morte: singolare, sì, ma forse non del
tutto incomprensibile; anzi comprensibilissimo se letto alla luce dello stralcio tolkieniano riportato all’inizio di questo articolo in cui Gandalf rimprovera Frodo per la facilità con cui quest’ultimo desidera la morte di Gollum, un essere spregevole e ripugnante, causa di molti mali… Mi piace pensare che Ronnie Lee Gardner abbia scelto di vedere la trilogia per riascoltare in particolar modo questo dialogo tra Gandalf e Frodo: un dialogo non privo di ripercussioni filosofiche, escatologiche, etiche e morali.
Gardner ha commesso errori irreparabili durante la sua vita violenta e ha provocato un immenso dolore ai familiari delle sue vittime, ma anche un assassino, condannato all’ergastolo invece che alla pena capitale, rinchiuso in una cella fino alla fine dei suoi giorni e senza la possibilità di interagire pienamente con il mondo, può svolgere un ruolo apparentemente incomprensibile in un piano che non vediamo… Chi siamo noi per togliere la vita a chi l’ha a sua volta tolta in maniera odiosa ad altri? Siamo in grado noi di stabilire, al di là della “soddisfazione” terrena e immediata di vedere applicata una giustizia-specchio (occhio per occhio…), che valore può avere l’esistenza persino di un feroce assassino come Gardner nell’ambito di un meccanismo che da qui non riusciamo a comprendere pienamente? “… Nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze…”
(recensione a “La vita fa rima con la morte” di Amos Oz)
Amos Oz e la piacevole ossessione per il dettaglio.
Può il dettaglio divenire il protagonista principale di un romanzo? E’ possibile catturare, in maniera casuale e quasi svogliata, un particolare umano o paesaggistico e trasformarlo pian piano nell’innesco di un’esplosione immaginifica? Può l’assenza di una trama vera e propria essere compensata da un suggestivo e infinito intreccio di ipotesi?
Una risposta affermativa sembrerebbe provenire dalla lettura del breve ma per certi versi “enciclopedico” romanzo di Amos Oz intitolato “La vita fa rima con la morte”.
Utilizzabile anche come agile e introspettivo “manuale di scrittura creativa” in salsa narrativa, il libro stuzzica immediatamente la coscienza del Lettore tramite un incipit che, senza troppi convenevoli, espone una serie di domande basilari apparentemente confinate in un ambito scritturale e letterario, ma che in realtà espandono il loro raggio d’azione sconfinando in un’indagine esistenziale necessaria e vitale.
Perché scrivi. Domanda l’autore già nel primo rigo, come a voler chiedere a sé stesso e ai lettori, utilizzando la somiglianza sonora esistente tra i due verbi, perché vivi. Le domande successive non saranno semplici curiosità estetiche da salotto letterario, ma veri e propri tagli anatomici capaci di svelare le intenzioni più intime di quel personaggio che verrà riproposto in modo ossessivo, durante tutto il flusso narrativo, come “lo scrittore”. Amos Oz, infatti, parla di sé utilizzando la terza persona, “egli” “lo scrittore”, come a voler realizzare pienamente un necessario processo di alienazione grazie al quale riesce a penetrare nella vita degli altri e a valutare la propria. Osservarsi dall’esterno per smitizzare l’immagine che ognuno ha di sé e per trovare quell’ironia essenziale, decostruttiva e mai irrispettosa capace di farci scivolare nelle altrui esistenze.
Sfruttando semplici dettagli e fugace immagini, l’eventuale lettore-scrittore ritrova in questo romanzo, se mai l’avesse perso, il gusto della subcreazione: creare nuovi plausibili scenari nella vita e dalla vita.
La linea appena intravista delle mutande di una cameriera, una persona sfiorata durante il giorno, un volto fotografato per caso tra il pubblico, uno sghignazzo, una coscia grassa, una vena gonfia, una faccia butterata, una parola biascicata e altri innumerevoli elementi diventano fruibili pretesti per giocare e per assicurarsi il biglietto d’ingresso al Festival delle Ipotesi. Chi è? Cosa farà? Dove vive? Cosa pensa? Da cosa è oppresso? Esercizi d’immaginazione per scrittori che non amano le comode didascalie fornite da altri.
L’autore non ci lascia fuori da questo gioco meraviglioso e affascinante ma ci invita insistentemente a partecipare disseminando l’intero romanzo di grappoli di domande, facendoci così assistere in diretta ai normali processi mentali di chi scrive. Dando al lettore la possibilità di scegliere insieme a lui e di aggiungere altre domande: le nostre.
Amos Oz, in questo romanzo che possiede tutte le caratteristiche di una pausa caffé che l’autore sente il bisogno di concedersi dopo le precedenti fatiche letterarie, non pecca mai di solipsismo e riesce ad immedesimarsi nelle menti più improbabili e geneticamente distanti: dai ricordi di una cameriera alla rassegnazione di un impiegato che vive tra gli sberleffi di una madre disabile; dalle insicurezze di una lettrice non bella all’esistenza di un poeta dimenticato la cui opera principale – “La vita fa rima con la morte” – dà il titolo al romanzo di Oz; dall’esaltazione dell’eros creativo all’inevitabile crudeltà del thanatos. Dare la vita e amare i propri personaggi significa anche avviarli verso una naturale “morte narrativa”.
L’empatia fantasiosa dello scrittore non conosce confini caratteriali e neanche differenze di sesso: egli si fa donna, vecchio, giovane acerbo, stupido, illuso, intelligente, bullo, infermiera, insetto… Diventa sudore, piscio, umidità, sigaretta, buio, presente, passato… Ripercorre inquietudini, razionalizza l’inesistente e rimugina per conto di altri su sillogismi mai realmente pensati; invade senza invito intimità, territori e tempi. Descrive le gelosie etologiche e le “domande” di un gatto, la vita e i rumori in appartamenti mai visitati e, sbilanciandosi, ci rende persino partecipi dei pensieri e delle gravi decisioni di Dio.
Frammenti di vita accostati o sovrapposti: i nomi, le date, i luoghi diventano dei particolari trascurabili, a volte prelevati dal passato e a volte no, e se l’autore decide di usarli è solo per non creare confusione nel lettore e per “ufficializzare” le proprie fantasie.
Osservare e descrivere, osservare e speculare in maniera vellutata ma decisa: questi sono i dogmi di uno scrittore che non ha paura di mettere sulla carta addirittura le proprie più indicibili cadute senza per questo scadere in un mellifluo autobiografismo da “Giovedì letterario”.
Avviandosi verso la fine l’autore dichiara palesemente ciò che il lettore attento ha già percepito molte pagine prima: “…tutti i personaggi di questa storia, in fondo, non sono altri che l’autore in persona…” E ancora, portando il proprio disincanto alle estreme conseguenze, afferma: “Perché mai scrivere di tutto ciò? Esiste e continuerà a esistere che tu ne scriva o meno…” La risposta non può essere di tipo utilitaristico perché l’unica molla che spinge lo scrittore è l’ossessione per quei dettagli contenuti negli estranei e grazie ai quali riesce a toccarli senza toccarli e senza essere toccato. Lo scrittore è un regista, è un fotografo d’antan che dispone meticolosamente i personaggi prima dello scatto.
L’autore fino alla fine del libro non demorde e come in una sorta di mantra continua a chiederci: “ma a cosa servono le mie storie?”
Noi lettori non abbiamo risposte facili, guai ad avercele. Ma possiamo almeno tentare di comprendere, parafrasando una frase storica di Archimede, l’infinita gioia che si prova nell’imprigionare le sfumature della vita in parole pensate e tornite: “Datemi un dettaglio e vi immaginerò il mondo!”
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