<<… Non ho ancora trovato la tomba di Schindler, ma domani continuerò la mia ricerca con informazioni più sicure. Anche perché non posso leggere le iscrizioni su tutte le tombe di Gerusalemme! Che giro ragazzi oggi! Stavo morendo disidratato sotto il sole di Palestina. Ho visto molto della zona est e ho pranzato tardi: alle 16…
Tornando a Casa Nova mi sono concesso una doccia, ho rasato la barba e ho cenato. E il dopo cena è stato interessante perché ho fatto quattro chiacchiere con il simpatico e molto estroverso direttore di Casa Nova che è, indovinate un po’, un “francescano”! Anche se vedendolo a tutto si penserebbe ma non che si tratti di un religioso: jeans, camicia, uno scotch whisky “on the rocks” in una mano e una sigaretta accesa nell’altra. Seduto sulla poltrona del bar di Casa Nova, ci ha eruditi sulla sua vita fricchettona e sul perché fosse diventato frate. Praticamente un Jack Kerouac latino (ci è sembrato che parlasse in spagnolo con i dipendenti anche se con noi ha utilizzato un ragionevole italiano) che dopo aver trascorso una giovinezza “on the road”, girando in moto l’America del Sud, si ritrova a fare il francescano in terra santa… Che personaggio! Con noi si è aperto di più che con gli altri pellegrini, anche se lo abbiamo visto sempre giocare con i bambini dei turisti facendo loro il solletico: forse vedendoci tutti impolverati, sudati e ricoperti di zaini, avrà ripensato per un attimo alla sua giovinezza scapestrata. Anche se non sono sicuro che quella sua giovinezza sia del tutto finita. Lo vedo ancora “on the road”… Lasciamo che il frate finisca il suo scotch e ci avviamo, nonostante la giornata piena vissuta, verso un’altra notte tra le strade di Gerusalemme. […]
Abbiamo fatto di nuovo le 3 del mattino! Stavolta ci cacciano da Casa Nova. Ma per fortuna il “frate beat” ci concede un’ulteriore deroga sugli orari. Adoro questi religiosi elastici che non opprimono la libertà dei laici.>>
“… il bassista frustrato e che nessuno cagava perché costretto ad aprire la serata ci chiamava ignoranti dal palco mentre faceva un jazz da vomito. E invece tutti orbitavamo felici intorno alla pancia enorme di Buddy Miles che distribuiva autografi e ramanzine in slang dalla sua sedia a rotelle. Duecento chili di rock votati al ritmo. Chi se la scorda quella jam session di Little Wing di notte a Salerno su quel castello che per poche ore divenne il cuore longobardo dell’acid rock. In molti ci demmo fuoco per la gioia quando il chitarrista italiano, che sembrava un commercialista ma era bravino con la sua chitarra elettrica, diede in pasto al pubblico le prime note conosciute di Little Wing sudando per l’ingrato compito di dover emulare Jimi Hendrix. Mentre l’istrionico Gianfranco Marziano, anche lui sul palco con la sua chitarra a cercare di suonare tra una cazzata e l’altra, continuava a ripetere al microfono: “non ci posso credere… sto suonando con Buddy Miles!” Ci spensero giusto in tempo con birra fredda e cocktail al rum fregati al bar con uno scontrino riciclato. Ma ormai la frittata psichedelica era stata combinata…”
<<… il Blog “Nigricante”, nel panorama delle webzine italiane si distingue per originalità, accuratezza e rilievo culturale dei contenuti, senza rinunciare a ospitare pareri molto diversi, talora in controtendenza, sempre ai fini di un fruttuoso scambio di idee e punti di vista, in un’ottica di arricchimento culturale.>>
(Francesco Troccoli, autore del romanzo “Ferro sette”)
<<La trattazione della figura storica di Hitler spesso suscita polemiche accese: mi riferisco alla proiezionedel film “La caduta”, riguardante gli ultimi giornidi Hitler nel bunker di Berlino e da molti considerato come un’opera che umanizza il Führer, e alla più recente‘discussione’ suscitata dalla professoressa Angela Pellicciariche ha scelto di adottare il testo scritto daHitler – “Idee sul destino del mondo” – nel liceo romanoLucrezio Caro. Lei non crede che, per agevolarela crescita di una coscienza storica matura econsapevole da affiancare alla Memoria, si debbanoconsentire anche la lettura e la visione di tale materiale?
Anche io da ragazzo ho sentito il bisogno di leggere il “Mein kampf” di Hitler. Però io possedevo già gli strumenti per capire quel libro, gli stessi strumenti utilizzati per leggere, in seguito, i “Protocolli dei Savi di Sion”. Ciò che mi lascia perplesso di questa “professoressa” è la mancanza, da parte sua, della necessaria cultura scientifica nel valutare il testo. Chi insegna sa benissimo che un libro così pericoloso, senza un apparato critico, dato in mano a degli innocenti, a persone non consapevoli e non dotate di una cultura tale da poter affrontare la drammaticità di quel testo, può causare grossi danni. Non solo la mancanza di scientificità, mi preoccupa, ma addirittura questa professoressa ha scelto una versione con l’introduzione di un noto neofascista di Ordine Nuovo, implicato nelle famigerate stragi dell’Italia degli anni ’70: Franco Freda.
Oltretutto la scuola presso cui insegna aveva invitato il mio amico deportato Piero Terracina e la professoressa non si è presentata, giustificandosi dicendo che soffre molto quando sente le testimonianze della Shoah e quindi, per non soffrire, ha preferito non esserci. La vicenda si commenta da sé.>>
Vuoi riscoprire la religione dei tuoi padri? Abbandona le chiese frequentate da tua madre e immergiti nella religiosità del mondo. Vuoi imparare ad apprezzare i valori del tuo paese? Dimentica la tua provenienza, rifiuta il tuo senso d’appartenenza e perditi lungo i sentieri della terra. Vuoi conoscere i segreti della via in cui abiti? Sali su una montagna e osserva dall’alto i movimenti di chi è rimasto.
Viaggiare significa rompere le acque uterine della schematicità esistenziale, realizzare un’idea coltivata per mesi e anni, andare a toccare con mano il sogno; significa rivendicare con orgoglio la propria diversità, interrompere il controllo, imparare a sospendere il giudizio in attesa di indizi culturali, mettersi alla prova dal punto di vista caratteriale e pragmatico.
Dall’effetto adrenalinico causato dalla decisione di partire all’atto di fede di chi si mette finalmente in strada; dalla meticolosità organizzativa all’apprendimento osmotico e rilassato lungo le vie nuove, tra le folle sconosciute, percorrendo città che forse non rivedremo mai più. Viaggiare è desiderare: muovere il proprio corpo verso mete lontane, impegnarsi per raggiungere l’obiettivo, concedersi al mondo e aprire tutti i canali sensoriali per ricevere gli insegnamenti fisici e metafisici del luogo visitato.
Ma viaggiare è soprattutto ritornare. Per ricominciare.
Dalla bandella di “Filosofia del viaggio – Poetica della geografia” (Théorie du voyage: poétique de la géographie) di Michel Onfray: <<Nell’era di internet, delle comunicazioni rapide, del turismo low cost, della più veloce tecnologia audio e video, quando il mondo, tutto il mondo, sembra a una manciata di minuti da noi, pronto a essere guardato, toccato e mangiato, giunge, inaspettata, una domanda. Esiste ancora il viaggio? E che cos’è il viaggio, chi è il viaggiatore? Ci ricordiamo da dove viene la voglia di aprire un atlante, l’eccitazione di puntare il dito su una qualunque regione del globo, la voce straniera che ci ingiunge di andare? Michel Onfray è qui con questo piccolo prezioso libro per aiutarci ad aprire nuovamente gli occhi e guardare alla scoperta, per mostrarci come sia possibile, senza aver programmato il come e il perché, chiudere uno zaino, girare la chiave nella toppa e voltare le spalle alla porta di casa per lasciare spazio ai sensi ritrovati che, soli, liberi da guide e manuali, ci condurranno a scoprire i colori dell’altrove e gli odori dell’ignoto. Per tornare, certamente: perché del viaggio fa parte anche il ritorno, non ricchi di cose ma ricchi di diversità, della diversità che dona un senso all’essere partiti.>>
Dedicata a questi giorni di afa in Italia. Incredibilmente la pagina di diario che segue mi è tornata in mente la scorsa notte, non riuscendo a dormire a causa del caldo, tra il 22 e il 23 agosto del 2011: esattamente diciassette anni dopo l’esperienza dell’afa di Eilat. Gli orologi della memoria scattano silenziosamente ma con decisione insonne; seguendo scadenze e anniversari inconsci ci risvegliano dalla monotonia. L’afa israeliana, i corsi e ricorsi della storia personale, la riproposizione dei contenuti e l’inganno delle forme che cambiano, il contrasto tra il turismo stanziale e l’esperienza “di passaggio”, la solitudine alberghiera su uno sfondo paradisiaco, l’osservazione quasi scientifica e morbosa contro la rilassatezza delle comitive di amici, l’inadeguatezza dell’anima e il sentirsi “fuori dal tunnel del divertimento”, la contrapposizione tra deserto e mare, tra la ricerca superiore e il divertimentificio, tra la voglia di essere soli e l’obbligo allo svago… Il capitare quasi per caso in un luogo vivo e la strana gioia provata nel ripartire.
<<… La mia parte assente s’identificava con l’umidità…>> cantava Franco Battiato in Arabian Song. Un’umidità deprimente, asfissiante, capace di aggravare la dissociazione tra mente e corpo, di evidenziare il divario tra l’obiettivo interiore e il caos esterno. Ma come recita un adagio: “Non si va mai tanto lontano come quando ci si perde.”
22-08-1994
Lascio il Youth Hostel di Mizpè Ramon e con l’autobus 392 mi dirigo alla volta di Eilat.
Lungo la strada incontro solo “il deserto dei padri” e basi militari a testimoniare la vicinanza con i confini di quei paesi arabi che anni fa diedero del filo da torcere a Israele: Egitto e Giordania. Scendendo sempre più a sud Israele assume una forma curiosa, come si può apprezzare dalla cartina: diventa triangolare, a imbuto, con la punta rivolta verso il Golfo di Aqaba. E proprio alla punta di questo “imbuto geografico” c’è Eilat, ultima località dello stato d’Israele. Fiorella Mannoia in Italia ha dedicato anche una canzone a questo luogo – “Sorvolando Eilat” – e in una strofa la cantante dai capelli rossi fa riferimento alle caratteristiche “montagne rosse” che si vedono poco prima di giungere a Eilat. Una volta superate le montagne rubiconde appare la “Rimini del Mar Rosso”.
Caotica, viva, calda (più calda di tutti i posti in cui sono stato da quando sono sbarcato in Israele), troppo turistica per i miei gusti e sicuramente dedicata a chi ama il caldo tropicale e vuole fare una vacanza solo ed esclusivamente per divertirsi, senza obiettivi culturali. Eilat è un “divertimentificio”, la classica città di mare con forte vocazione turistica in cui io personalmente non passerei mai per intero le mie vacanze estive. Un giorno, due giorni… E via. Comunque ho voglia di conoscerla e quindi mi dirigo alla ricerca di un posto per la notte. All’Ufficio Turistico mi propinano una guida commerciale che non serve a niente e mi dicono di tentare all’ostello. Niente da fare: tutto pieno. Allora “agguanto” una stanza in un hotel di media categoria e mi libero dagli zaini che diventano ogni giorno più pesanti. E’ una stanza singola tutta per me con un comodissimo lettone e l’aria condizionata che prontamente accendo “a palla”. Approfitto dell’ampio bagno per fare… “il bucato”: lavo le magliette e il resto del vestiario sporco, che in seguito appendo sulla mia provvidenziale cordicella già protagonista di altri bucati raminghi. I panni si asciugano in un batter d’occhio. Eilat: 42°C. Un vero inferno! […]
“… E il mio maestro mi insegnò che non è poi tanto difficile
trovare l’alba dentro l’imbrunire…”
Basta volerlo!
Recentemente il mio insegnante delle scuole elementari, il “mitico” maestro Carmine Senatore, originario di Altavilla Silentina (Sa), dottore in Geologia, docente di scuola primaria e in seguito professore di scienze naturali, chimica e geografia presso il Liceo Scientifico “E. Medi” di Battipaglia, mi ha fatto un regalo inaspettato…
Tornando da un viaggio ho trovato nella mia casella di posta elettronica una sua e-mail in cui diceva:
<<Trovato per caso in un vecchio quaderno.
Lo devi leggere, perché l’ho trascritto così com’era.
Se vuoi anche la pagina originale scritta a mano, te la mando.
Evidentemente lo space clearing non era stato effettuato bene.>>
Carmine
M.tro Carmine Senatore
La cosa in allegato che dovevo leggere era un suo giudizio nei miei confronti, in qualità di docente, emesso se non erro alla fine (o durante?) dei quattro anni scolastici trascorsi nella sua classe presso la Scuola Elementare “E. De Amicis” (nella foto in alto) di Battipaglia (Sa). Quattro e non cinque perché il primo anno lo frequentai a Pompei… Ma il perché di questa ‘deviazione’ è un’altra storia.
Tempo fa io e il mio maestro ci siamo incontrati in un bar di Battipaglia, dove entrambi ancora viviamo, per scambiare due chiacchiere e lui mi ha intimato dopo pochi minuti: “Dammi del ‘tu’: ormai non sono più il tuo maestro!” Un po’ difficile per me accettare la ‘nuova regola’, e non per una questione di rispetto reverenziale. Ma alla fine, con un po’ di sforzo, sono riuscito a chiamarlo Carmine e non più ‘maestro’.
Ecco il giudizio di Carmine proveniente direttamente dai nostri meandri mnemonici; come in una sorta di ‘glasnost‘ esistenziale, si riaprono gli ‘archivi’ relativi al cantiere di un’infanzia per riscoprire chi siamo, dove saremmo potuti andare e dove effettivamente stiamo andando:
Alunno: MICHELE NIGRO
“Originale e personale risalta per originalità costruttiva. Riesce a mettere a punto i testi liberi in forme coerenti, partendo dagli aspetti globali, per giungere a quelli particolari: ciò dimostra che possiede una notevole coerenza sia sul piano logico sia su quello linguistico-espressivo. Nelle attività di tipo pittorico-espressivo si esprime in forme creative, soprattutto nell’uso originale del colore e con evidenti note artistiche.
Amico di tutti, si distingue per cortesia e gentilezza. Sente la disciplina e l’accetta sempre di buon grado. Il livello di maturazione raggiunto da Michele è senz’altro notevole. La sua produzione linguistica è abbastanza corretta e chiara. Legge in modo scorrevole, con buona espressività, intendendo bene ciò che legge se non incontra termini nuovi e per lui sconosciuti. Ha una notevole capacità espressiva; a livello grafico-pittorico sa rappresentare il mondo con ricchezza di particolari, con tratti sicuri e facendo buon uso del colore.
Ha chiari i concetti relativi alle operazioni aritmetiche compresa la divisione sia di continenza che di ripartizione. Nel calcolo è sicuro e abbastanza svelto. Esegue i compiti con prontezza e padronanza.”
Naturale e spontanea la mia risposta a Carmine:
<<Grazie caro maestro!
Ma lo sai che lo ricordo questo tuo giudizio? Nel senso che rileggendolo mi sono ricordato di averlo già letto: era solo un dato in quiescenza, abbandonato in un deposito oscuro e polveroso della mia memoria, ma non cancellato. […] p.s.: a volte lo space clearing non serve solo a ‘gettare’ nella pattumiera cose vecchie e inutili, ma anche a ricollocare certi elementi rimossi in una nuova e giusta dimensione…>>
Questo recente aneddoto ha stimolato in me una serie di domande e di pensieri: “cosa è rimasto del bambino descritto in quel giudizio?”; “hanno prevalso, a lungo andare, i limiti o le acerbe potenzialità?”; “cosa si aspettavano i cosiddetti ‘adulti’ da me?”; “la vita è stata inclemente con quel bambino o è il bambino che è stato inclemente con la propria esistenza?”; “quel giudizio rispecchiava la visione ottimistica di un maestro che amava i suoi alunni oppure era l’analisi equilibrata e veritiera di uno scienziato prestato all’insegnamento?”…
Tante, troppe domande: forse anche inutili. Risposte che è meglio non cercare…
Ma è ancora possibile ricavare un insegnamento positivo da tutto ciò: le potenzialità non scompaiono quasi mai del tutto, non possono scomparire ‘per definizione’ perché potenziali e in un certo qual modo reali come le idee immateriali ma vere, anche se inespresse o parzialmente realizzate. A volte queste potenzialità emergono e si affinano grazie a un lavoro esterno (una pletora di padri, madri, maestri, istruttori, assistenti spirituali, guardiani e mentori) o grazie alla volontà e al grado di auto-consapevolezza raggiunto dal soggetto; altre volte ancora sembrano perse del tutto anche se sono semplicemente nascoste da un consistente strato di detriti storici, pseudoculturali ed esistenziali.
Riscoprire il meglio di sé nell’imbrunire, quando sembra che tutto sia stato già deciso dal pregiudizio, dal fato, dal sistema, dalla storia e dalla noia, dalla pesantezza di persone sconfitte che vivono al nostro fianco, dall’idea che abbiamo di noi stessi (idea a volte imposta dagli altri e lentamente, nel tempo, accettata per debolezza o per pigrizia) o celato ai nostri occhi a causa della nebbia del tempo che offusca lo sguardo.
Svincolarsi dalla storia e inseguirsi nel passato. Per ricominciare…
“E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire…”. Difficile sì, ma non impossibile.
Classe del M.tro Carmine Senatore – Scuole Elementari “E. De Amicis”, Battipaglia (Sa)
La camera 305 dello Star Hotel è bellissima. Forse il mio entusiasmo è eccessivo, ma dopo aver dormito su ponti di navi e letti di fortuna, questa stanza (al di là della sobria e comodissima stanza al ‘Casanova’ di Gerusalemme) mi appare come una reggia. Ci sono molti piani in questo albergo e ad una prima occhiata sembrerebbe “disabitato”: non ho visto altri turisti nell’atrio o sui piani come dovrebbe essere in un normale albergo. Forse sono tutti turisti che si svegliano con il canto del gallo oppure non è un albergo ‘gettonato’ a causa del territorio ‘difficile’ in cui sorge. Andiamo nella sala da pranzo che offre, grazie ad un’ampia vetrata, uno spettacolare panorama su Betlemme. E’ bello fare colazione guardando dall’alto ciò che ti aspetta. Facciamo colazione e nella sala siamo in tre. In un tavolo non molto lontano c’è (quando dici il destino) un italiano: un tecnico di Torino in viaggio di affari abituato a fare colazione con la valigetta del lavoro affianco al tavolo. Il sole attraverso la vetrata ci riscalda e ci invoglia ad abbandonare la colazione per scendere, finalmente, tra le strade di Betlemme. Dopo aver trascorso delle serate per così dire “mondane” tra i pub di Jaffa Road e della Gerusalemme “pagana”, è un po’ difficile, ma sicuramente educativo, vedere la situazione di Betlemme. Sottolineo “vedere” perché è diverso dal “sentito dire” come spesso succede a chi, come me, vive in Europa o altrove.
La piazza centrale di Betlemme è caratterizzata dalla presenza di un ampio portico dove ci sono numerosi negozi per turisti; su un lato c’è una moschea con un bel minareto che domina la piazza e su un altro lato ancora c’è una stazione della Polizia israeliana tutta circondata da reti metalliche e con una torretta d’avvistamento per le guardie armate. I mezzi blindati sono parcheggiati nel cortile ricavato dal recinto di rete e in attesa di momenti “caldi”… […] Dopo aver visitato e fotografato i luoghi della cristianità, ci siamo lanciati all’esplorazione di posti che mai nessun soldato israeliano o tour operator sano di mente vorrebbe esplorare. Ci sono vie (o cose che sono simili a vie) in cui si sente (e si vede, e si tocca) la povertà, l’abbandono, il degrado, l’indifferenza dello stato israeliano, la libertà autogestita del popolo palestinese… Ci sono vicoli il cui odore è insopportabile perché deriva da un misto di feci di animali e marciume vario… Nella zona del mercato non si riesce a distinguere dove sia il fondo di quella che dovrebbe essere una strada perché completamente ricoperta di terriccio, feci di galline portate a vendere, piume e penne di vari volatili commestibili… Il tutto mischiato a formare una melma miasmatica che stimola il vomito anche in chi come me è abituato a sezionare ascessi purulenti e animali in via di putrefazione… In moltissimi angoli delle strade cumuli di rottami arrugginiti di quelli che sarebbero potuti essere macchine o motori, dominano il paesaggio indisturbati chissà da quanto tempo. La gente del posto, abituata a tutto questo, ti ferma solo per venderti cartoline, per cambiare denaro in nero, per proporti un affare con il proprio taxi sgangherato… Se non ti fermano, si accontentano di dirti “hello!” con la speranza di attaccare discorso e di riuscire a guadagnare qualche schekel accompagnandoti in qualche posto nei dintorni. I bambini, dalle scale e dai muri, un po’ timidamente e un po’ con la voglia di entrare in contatto con qualcosa di nuovo, ti gridano un audace “what’s your name?”…
E mentre il tramonto di Betlemme si trasforma in una dolce coperta di color arancio posandosi lievemente sui margini delle montagne vicine, e mentre i miei panni lavati ondeggiano sulla finestra ampia dell’albergo (grazie alla provvidenziale “cordicella” per i panni che fa parte del mio bagaglio di buon italiano in viaggio), con la musica degli U2 nelle orecchie sto scrivendo queste memorie.
Gli sguardi dei palestinesi che incontro per strada sono sguardi che penetrano ogni cosa… Sono sguardi curiosi che fissano la mia macchina fotografica (forse perché non è un granché e allora pensano “poveraccio”: in realtà la mia macchina sembra uscita in regalo da una busta di patatine, anche se devo ad essa le uniche foto che testimoniano questo viaggio), fissano le mie scarpe, la mia maglietta, i miei occhiali da sole… Sono una mosca bianca tra i vicoli di un mondo difficile?
Tutto ciò che dalla Piazza della Mangiatoia (dove sta la Basilica della Natività) si muove oltre i luoghi sacri dove i palestinesi sono abituati a vedere gli europei, viene visto come un oggetto strano che invade luoghi appartenenti ad una dimensione prettamente palestinese.
La polizia israeliana ha la sua caserma vicino alla Basilica della Natività ed è completamente circondata (come ho già scritto) da una gabbia di ferro… Quella caserma è come un pezzo di Israele che si trova per sbaglio nel mondo palestinese! Gli israeliani pensano che questo sia territorio occupato solo perché i soldati armati fino ai denti camminano tra le strade con il rischio di essere colpiti da bottiglie o pietre… Stamattina nel mercato c’è stata una “mini intifada” durata pochi secondi tra alcuni ragazzini che lanciavano pietre e i soldati israeliani che pattugliavano il mercato. Secondo il taxista che sosta vicino alla moschea in attesa di clienti, queste sono cose che succedono tutti i giorni e lo dice con la faccia rassegnata di chi ci vive in mezzo…
Qui a Betlemme (molto più che a Nazareth) si sente che la presenza israeliana è come un punto nero disegnato sul foglio bianco del popolo palestinese. I giovani arabi e i bambini si avvicinano con spontaneità: qualcuno per chiedere soldi, altri una penna, altri semplicemente per conoscere, per sapere, per toccare qualcuno di nuovo. Ieri sera quando siamo arrivati ci siamo sentiti come gli “americani” mentre entravano vittoriosi nelle città europee appena liberate durante la seconda guerra mondiale… In meno di due secondi, se ti fermi per chiedere informazioni, si forma un primo strato di “scugnizzi palestinesi” e poi se non cambi aria lo strato diventa folla… Una piacevole folla acerba di ‘grilli palestinesi’ trasformati in bambini che pigolano e saltellano intorno alla novità.
Giudicare i palestinesi è difficile perché vivono in condizioni poco felici e molti di loro utilizzano l’Intifada per manifestare la rabbia contro uno stato imposto dalla storia che non assicura né lavoro, né possibilità di movimento, né futuro… Giudicare gli israeliani è altrettanto difficile perché anche loro, alla ricerca di una identità nazionale, si sono trovati dinnanzi all’infelice compito di convivere con un popolo culturalmente diverso e giustamente ‘incazzato’. E’ come far fare un viaggio di migliaia di km in una macchina a due persone che non si vogliono parlare e che addirittura si odiano per rancori lenti a spegnersi o per torti subiti in passato… Bisogna unire le forze positive arabe e israeliane in un discorso non passionale ma pratico e lungimirante: cioè trovare un modo, al di là dell’orgoglio e dell’odio, per stare bene insieme nella stessa terra.
“Non tutti vogliono la pace…!” mi diceva oggi il taxista al centro. Certo, ma non tutti vogliono la guerra.
mi chiedevi, nella tua ultima lettera, se vedo ancora i nostri amici di un tempo…
Temo di no! Ma per ricordarli, a volte, basta poco. Solcare un vecchio vinile riesumato dal periodo beat; lasciarti trasportare dalle emozioni e dai ricordi; soffrire in silenzio per i vent’anni ormai andati e le sfide non concluse; rivalutare amori rifiutati e ipotesi di vita scartate per orgoglio, mentre tocchi quella pancia molliccia che cerchi di far sparire sudando in bicicletta come un dannato del purgatorio dantesco.
Niente da fare: le persone, i fatti, i luoghi, fanno giri pazzeschi e incuneandosi nei meandri rimossi del tuo Io, attendono anni, settimane, giorni, per poi risalire a galla come boe tenute sott’acqua dalle mani del tempo; non appena una scossa non calcolata rimuove i sigilli di sicurezza di una sana follia tenuta a bada dalla noia.
Potrei dire “eravamo”, emulando Gino Paoli e il suo coraggioso disincanto, ma reputo decisamente più comodo scaricare responsabilità storiche, pentimenti e rimorsi su quattro personaggi apparentemente inventati, e che invece tu conosci benissimo.
Così Settembre, mese di valutazioni e di rivalutazioni, mi induce – mentre guido al volante di un’auto che esplora, quasi in automatico, le vie di una città che risorge dopo la fuga estiva – a ritornare sui miei passi e sulle quattro ordinazioni fatte al tavolino mentale di un bar che ci vede, ancora una volta, protagonisti mascherati del nostro falso incidente…
Come potrei dimenticarti, idealista cattolico. All’epoca ordinasti un vinello paesano – ribattezzato ‘ngnostro per la capacità di rimanere attaccato alle pareti del bicchiere come inchiostro indelebile – e con quell’atteggiamento già pronunciato da educatore scout, sapiente e apparentemente equilibrato – un incrocio tra “Che” Guevara e Don Giussani – valutasti le meravigliose opportunità di quei campi Bibbia che t’accingevi a frequentare nella terra di S. Francesco: l’Umbria. Quanta passione nella ricerca di Cristo tra le esperienze di cammino e quella spiritualità inquieta che t’ha sempre caratterizzato… Una scorza fatta di barba e metodo che nascondevano, però, esigenze magmatiche di una crescita vissuta con allegria, sì, ma anche con tanta convinta riservatezza per un dolore esistenziale mal celato.
Rivedendoci saltuariamente ai matrimoni dei nostri amici, si ritornò a parlare (con minore verve andando avanti nel tempo) delle vicende amare che ci videro protagonisti durante la caduta del clan… Le speculazioni umane e psicologiche che ne seguirono divennero, pian piano, pettegolezzi, accenni, risatine ironiche e poi il nulla.
La ricerca di una fede ideale da seguire e le numerose speranze romantiche insite nel metodo cattolico lasciarono il posto alla vita; non quella con la “v” maiuscola, ma alla vita di tutti i giorni… Pur sempre sacra, nulla da dire, ma ormai fotocopia sbiadita di quei propositi rivoluzionari covati per anni negli scantinati della nostra sede scout – giù in parrocchia, ricordi? – tra riunioni notturne che rasentavano la massoneria e le responsabilità che già facevano capolino chiedendo un lauto tributo in ideali spezzati.
Oggi ci si rivede di sfuggita e la divisa scout che porti addosso con ostinata fedeltà, stona con il mio naufragio esistenziale ricco di esperienze ma disordinato. Un abbraccio fraterno, un dialogo quasi d’ufficio che non tocca i punti dolenti della libera congettura e un’amicizia inossidabile tenuta a galla dai ricordi. Soprattutto ricordi! Ti commuovi ancora, mi dice tua moglie, quando si ritorna su vecchi argomenti lasciati in sospeso e quando riemergono le scene arcaiche di campi estivi assolati e spensierati. A pensarci bene: non sei mai uscito da quel guscio cattolico da cui prendemmo le distanze, noi altri sprovveduti, tanti anni fa… Il vello caldo dell’idealismo e il senso d’appartenenza sono richiami troppo forti e la fede che li alimenta è divenuta sclerotica diffidenza nei confronti del diverso: mi dicono che sei favorevole alla castrazione chimica dei pedofili e fai battute ironiche su quelli che frequentano il circolo di Rifondazione Comunista. “Lontani da Cristo, lontani da tutto…!” – il tuo motto.
Il padre di famiglia, moralista ed enciclico, ha preso il sopravvento, dunque, sull’idealista spensierato tutto “chitarra e volontariato”. Ti capisco, forse… E’ un mondo bastardo, questo, pieno di pericoli e di marciume relativistico camuffato da pubblicità e telefonini nelle mani di preadolescenti senza senso. Ci vuole metodo, amico mio… Volevi lasciare il mondo migliore di come l’avevi trovato, ma alla fine hai capito che è già un’impresa cercare di migliorare sé stessi e mettere su famiglia senza inciampare negli equivoci drammatici di una società malata e senza fede.
Spesso al club degli scapoli ridiamo di te, ebbri della nostra solitaria libertà autoerotica senza orari e mogli incazzate; conviventi di noi stessi allo stato brado, rabbrividiamo pensando all’ordine che hai scelto di far penetrare nei tessuti, non senza fatica, della tua esistenza inizialmente raminga. Ridiamo di te, è vero, ma t’invidiamo fino all’osso per quella preziosa sacra famiglia a cui t’affidavi nelle preghiere dinanzi al presepe della chiesa e che oggi ci riproponi in scala 1:1 a casa tua.
Se potessi restituire i miei anni sbagliati presso l’ufficio degli errori smarriti, ritornerei sulle strade di sudore e tende, riscaldandomi, la sera, presso i fuochi antichi dell’amicizia.
[…] Dormivo in cucina in un letto di fortuna, tra i tepori culinari della sera precedente e i tenui fuochi mattutini di chi, alzandosi presto la mattina, aveva la responsabilità di ravvivare la brace nel camino. Uno di questi parenti mattinieri aveva anche la mania della notizia fresca, come il caffé che preparava, e ogni santa mattina m’assorbivo il notiziario con il bollettino dei morti recuperati dalle macerie e i comizi dei politici chiacchieroni che sparavano promesse tra le tende degli sfollati…
Una notizia diversa, però, quella mattina del 9 Dicembre 1980, spiccò in tutta la sua esoticità tra le solite altre che riguardavano il sisma: “…muore a New York il cantautore inglese John Winston Lennon, ex Beatles, dopo che un suo fan, Mark Chapman, gli ha sparato cinque colpi di pistola, verso le undici di ieri sera, dinanzi al Dakota Building…”
Nonostante il differente fuso orario, la notizia fece il giro del globo in pochi minuti e raggiunse la penisola italiana mentre i fumi della pistola di Chapman ancora si levavano dalla canna lungo le strade della fredda notte newyorkese.
Apparentemente non fui colpito dalla notizia e crogiolandomi sotto le coperte azzardai, a me stesso, due domande: “Chi cavolo è John Lennon?” Avevo nove anni e a quell’epoca le mie uniche preoccupazioni, dopo il terremoto ovviamente, erano il catechismo e i cartoni animati giapponesi.
La seconda domanda, un tantino più articolata della prima, fu: “…perché un suo fan gli avrebbe sparato?” […] (leggi tutto)
"Poesie minori Pensieri minimi"
sottotitolo: "materiali di risulta"
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L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
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