Possiamo scindere la “realtà virtuale” dalla “realtà reale”? Crediamo veramente che tutto quello che combiniamo sul web sia un gioco che resta relegato in un angolo immateriale? Nel mondo distopico descritto nel film Ready Player One, il peso delle proprie azioni virtuali incide, e come, sulla realtà immanente. Anche nel nostro presente è così: un’attività illecita (frodi, terrorismo, pedopornografia, ecc.) sviluppata nel cosiddetto dark web, non porta all’arresto dell’avatar ma della persona in carne e ossa che c’è dietro. Lo scandalo di Cambridge Analytica c’insegna che i nostri innocui e virtuali “mi piace” fanno gola a chi si occupa di comunicazione strategica per le campagne elettorali.
OASIS, il mondo virtuale ideato e creato dal programmatore James Halliday, ricorda troppo facilmente Second Life, ma non solo: la gratuità d’accesso, la sua apparente democraticità, dove tutti possono essere presenti, gareggiare per il proprio successo, socializzare offrendo solo il meglio di sé o quello che si vuole far credere essere il meglio, ricordano le piattaforme di social networking come Facebook e simili… James Halliday e il suo socio, invece, rappresentano la versione cinematografica di certe “coppie nerd” che hanno cambiato la storia dell’umanità sia dal punto di vista tecnologico che culturale, e direi anche psicologico: una fra tante, quella formata da Steve Jobs e Steve Wozniak, fondatori della Apple. O i fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin… Ma gli esempi potrebbero essere molti di più.
Seconda edizione (ebook e cartaceo) dedicata, tra gli altri, ai lavoratori Amazon di Piacenza, “Call Center – reloaded” è un racconto social fantasy pubblicato in prima edizione nel 2013: alcune scomode verità socio-economiche e culturali riguardanti i nostri tempi, evolvono in una specie di realismo magico lovecraftiano crudele e inesorabile. Partendo da temi caldi quali il lavoro, la precarietà, la mancanza di sicurezza economica in un futuro nebbioso, l’Autore cerca di descrivere la condizione ambigua dell’uomo moderno e ne approfitta per toccare il cuore dell’inganno consumistico: il lavoro è diventato un prodotto e i lavoratori-consumatori sono dei complici più o meno consapevoli. La “liquidità baumaniana” ha preso il sopravvento in ogni settore. L’informazione carpita dai “profili”, la conoscenza dei desideri, diventano risorse preziose per un Sistema che non lascia scampo. La libertà è un’utopia luminosa ma per conoscere la verità (e quindi riscattarsi dalle regole del Sistema) bisogna avere il coraggio di scendere in zone oscure, di sé stessi e del mondo lavorativo disumanizzato. E incontrare il “mostro”…
Altre due “puntate” (qui e qui e ovviamente su Ebook Italia qui e qui) dell’intervista di Anna Maria Di Pietro al sottoscritto, pubblicata da Sara Lettrice su Instagram (i_libri_salvano)… Buona lettura!
Una delle caratteristiche più frequenti nei recenti film di genere fantascientifico è senza alcun dubbio il processo di ibridazione da cui nascono: l’originalità, sempre più rara, è stata sostituita da più sicuri incroci tra porzioni di precedenti pellicole di successo (anche di generi differenti), come in una sorta di grande esperimento di ingegneria genetica adattata alla cinematografia. Lungi da me il voler giudicare come negativa questa tecnica d’ibridazione, che nella maggior parte dei casi fornisce risultati gradevoli, sarebbe tuttavia interessante analizzarne – in altra sede e in maniera più approfondita – l’origine, gli obiettivi, le tecniche narrative che utilizza per rendere credibile il risultato finale: si tratta di mancanza di idee come accennavo all’inizio? Voglia di “contaminazione” tra generi? Sperimentalismo transmediale libro-film? Sta di fatto che questi film derivano quasi sempre da altrettanti romanzi, quindi l’ibridazione avviene a monte. È letteraria.
Non sfugge a tale fenomenologia il film intitolato The Giver – Il mondo di Jonas (tratto dal romanzo The Giver – Il donatore di Lois Lowry): l’accostamento più facile da fare sarebbe quello con il film Hunger Games, ma scavando in profondità è interessante rilevare quante altre analogie meritano di essere scoperte e analizzate. La storia contenuta nel film di Phillip Noyce ha letteralmente “rubato” l’idea della riscoperta dei colori (e delle emozioni) a un altro grande film sottovalutato: Pleasantville. L’assegnazione di mansioni al compimento del 18° anno d’età assomiglia alla divisione in fazioni presente nel romanzo Divergentdi Veronica Roth (dal momento che il romanzo della Roth è del 2011, mentre quello di Lowry è del 1993, sarebbe il film Divergent ad avere un “debito” con The Giver – Il mondo diJonas; anche se entrambi i film sono del 2014!). L’estirpazione delle emozioni dall’animo umano è un chiaro riferimento al film Equilibriumdi Kurt Wimmer; la società quasi apatica, senza classi e senza memoria di The Giver ricorda un po’ quella degli Eloi di H. G. Wells; l’iniezione mattutina per debellare gli impulsi sessuali e sentimentali è l’equivalente, in termini di controllo sociale, dell’assunzione di somane Il mondo nuovodi Aldous Huxley; l’amore controllato (e inibito) tra uomo e donna non può non rievocare il rapporto proibito tra Winston e Julia nel celebre romanzo 1984di George Orwell. Per non parlare della deriva eugenetica, presente in numerose opere letterarie e cinematografiche fantascientifiche. Interessante il riferimento antiabortista (i bambini non conformi allo standard vengono “congedati”: un modo pulito per dire uccisi) e quindi antispartano contenuto nel messaggio filmico. Riferimento che potrebbe essere esteso anche al tema delicato e attuale dell’eutanasia: quando una società legifera sulla nascita, sulla morte e sui sentimenti ed emozioni contenuti nell’intervallo di tempo compreso tra questi due momenti, può definirsi libera? Sembrerebbe chiedersi la voce narrante di questa storia. Anche se, come accade nella realtà, non è la condizione esistenziale in sé ma la necessaria presa di coscienza a fare la differenza in termini di azioni da intraprendere.
L’idea di una società distopica “con il trucco” non è originalissima: nella maggior parte dei casi si tratta di società post-apocalittiche, perché deve esserci sempre un evento passato sconvolgente – una guerra, un’epidemia, una quasi estinzione – per far cambiare rotta all’umanità e per farle scegliere un nuovo inizio basato su scelte radicali applicate da un’oligarchia. Come a voler dire: “abbiamo sbagliato, è vero, ma da oggi in poi si riga dritto, con nuove regole e guai a chi sgarra!” Innumerevoli sono gli esempi, fantascientifici e non, letterari e cinematografici, di società apparentemente perfette ma che nascondono regole di vita disumane e innaturali: The Islandfilm di Michael Bay, L’uomo che fuggì dal futuro (THX 1138) di George Lucas, La penultima verità (The Penultimate Truth) romanzo di Philip K. Dick, The Truman Showfilm di Peter Weir, La fuga di Logan (Logan’s Run) film di Michael Anderson, La possibilità di un’isolaromanzo di Michel Houellebecq… ecc. Continuate voi: sono sicuro che avete almeno un titolo di film o di romanzo da aggiungere all’elenco!
Nel post che vi apprestate a leggere (spero fino alla fine), cercherò di mettere a confronto due monologhicult della più o meno recente produzione cinematografica internazionale: quello di V nel film “V per Vendetta” e quello di Mark Renton (soprannominato Rent) all’inizio del film “Trainspotting”. Qualcuno si starà chiedendo cosa abbiano in comune questi due monologhi; domanda legittima: infatti appartengono a due generi, due realtà differenti (l’una fantastica ambientata in un Regno Unito distopico, l’altra ha come sfondo una Edimburgo storicamente verificabile, descritta nell’omonimo romanzo di Irvine Welsh; come nel caso anche del romanzo “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” di Christiane F.) e i personaggi che li pronunciano sono a dir poco antitetici. Eppure, discostandomi dai rispettivi contesti senza mai perderli di vista, concentrandomi solo ed esclusivamente sui testi, ho trovato ugualmente interessante andare alla ricerca di analogie e differenze.
Entrambi i monologhi hanno come obiettivo il capovolgimento di un establishment, politico o culturale, o di un ordine esistenziale in cui non ci si riconosce più: nel caso di V il potere da combattere è violento, organizzato, visibile, è ben strutturato e personificato nell’Alto Cancelliere Adam Sutler (interpretato dal compianto John Hurt, recentemente scomparso); nel caso dei ragazzi di Trainspotting il disagio deriva da un potere che non viene mai nominato: è diluito, interiore, dimora in quegli oggetti che a lungo andare ci posseggono, presidia le nostre scelte esistenziali e consumistiche, ha le sembianze scomode di un dovere sociale a cui non ci si può sottrarre. L’approccio “etico” al sovvertimento è, come chi ha visto entrambi i film può facilmente immaginare, diametralmente opposto: mentre V incoraggia i cittadini di Londra a compiere una precisa e puntuale scelta rivoluzionaria che dovrebbe migliorare la vita della società sul piano delle libertà individuali e collettive, Mark Renton sceglie di non scegliere: “Io ho scelto di non scegliere la vita. Ho scelto qualcos’altro”. Ovvero, si sceglie di combattere il sistema sottraendo se stessi alla spirale opprimente di una vita normale. Anche da questa non-scelta possiamo ricavare un insegnamento utile, ricevere un messaggio da un’epoca, un segnale sociale e culturale da non sottovalutare: per capire l’origine del disagio, per comprendere l’impotenza dei suoi protagonisti e il perché di un annientamento.
E la prima domanda che potrebbe nascere dal confronto dei monologhi è la seguente: “è più facile contrastare un potere dispotico concreto o uno che si nasconde tra le pieghe apparentemente innocue della libertà quotidiana?”
Il monologo di V comincia in maniera educata e comprensiva nei confronti di un benessere materiale che non sembra essere il primo nemico da combattere: “Buona sera, Londra. Prima di tutto vi prego di scusarmi per questa interruzione: come molti di voi, io apprezzo il benessere della routine quotidiana, la sicurezza di ciò che è familiare, la tranquillità della ripetizione; ne godo quanto chiunque altro…”; quello di Rent con chiede scusa ma punta il dito immediatamente contro i simboli che portano l’uomo a un graduale ma inesorabile “rammollimento” (accuse che, formulate da un eroinomane dedito all’autodistruzione, potrebbero sembrare pretestuose!): “Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo, scegliete lavatrice, macchina, lettore cd e apriscatole elettrici…”
V dà inizio al suo intervento televisivopirata con un pippone esagerato ma indispensabile sull’importanza della commemorazione, sul valore della parola (“Alcuni vorranno toglierci la parola, […] Perché, mentre il manganello può sostituire il dialogo, le parole non perderanno mai il loro potere; perché esse sono il mezzo per giungere al significato, e per coloro che vorranno ascoltare, all’affermazione della verità.”), sulla denuncia di un sistema non più sopportabile (“… c’è qualcosa di terribilmente marcio in questo paese” che ricorda il Something is rotten in the state of Denmark – C’è del marcio in Danimarca – di shakespeariana memoria), sulla libertà di pensiero e sulle ragioni storiche che hanno portato alla deriva orwelliana presa in prestito nel film di James McTeigue (tratto dall’omonimo graphic novel di Alan Moore e David Lloyd).
Entrambi i monologhi giungono sorprendentemente alla stessa conclusione: la causa della realtà in cui viviamo, siamo noi stessi. Afferma V: “… se cercate il colpevole… non c’è che da guardarsi allo specchio.”; molto più “filosofico” e introspettivo Mark Renton: “… chiedetevi chi siete la domenica mattina”. Entrambi incitano a ricercare un io inconsapevole, pigro, sonnolento e rassegnato, per spingerlo a riappropriarsi di libertà seppellite e dimenticate, di futuri alternativi ancora recuperabili e raggiungibili tramite la lotta sociale o addirittura fuggendo nell’eroina. Nel primo caso le ragioni sono eticamente condivisibili, nel caso di Mark Renton & company non ci sono ragioni, perché “Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”. In entrambi i casi si tenta di raggiungere una sorta di libertà: quella ricavata dalla tossicodipendenza è sicuramente discutibile, ma si tratta pur sempre, e a suo modo, di una libertà. Autodistruttiva, egoistica, disperata: l’unica che i protagonisti di “Trainspotting” riescono a concepire.
Gotico e neogotico, eredi del passato, di Carlo Bordoni
L’orrore ben temprato del fantastico irlandese (Romolo Runcini)
Introduzione al “gothic novel” (Carlo Bordoni)
Trasformazioni e sopravvivenze (Giorgio Rimondi)
Thomas Tryon e il gotico americano (Riccardo Gramantieri)
Impronte gotiche in Shining (Barbara Sanguineti)
Vathek: quando l’occidente sapeva guardare ( Riccardo Rosati)
L’inferno che stiamo attraversando (Giuseppe Panella)
Mondi e visioni della notte (Walter Catalano)
Poe oltre Poe (Vito Tripi)
Il Faust di Goethe, parodia del gotico (Chiara Nejrotti)
Le suggestioni gotiche del cinema di Burton (Max Gobbo)
Solo un Dio ci può salvare (Claudio Asciuti)
Conte Dracula: vittima o carnefice (Jole Ottazzi)
Intervista (Piero Prosperi)
Un vecchio diario (Piero Prosperi)
Lo scricchiolio del gelo (S. Gaut vel Hartman)
Il portale (Alex Barcaro)
Incontro (Andrea Ferrari)
Il simulacro (Andrea Franzoni)
L’ombra dei migratori (Massimo Prandini)
Le meraviglie del Duemila (Emilio Salgari)
Ancora sulle biblioteche (Donato Altomare)
Nel labirinto di Cronenberg (Walter Catalano)
Il futuro di Urania (Walter Catalano)
Dalle ucronie di Sarban a Sawyer in giallo (Claudio Asciuti)
Distopie italiane (Giuseppe Panella)
Una dittatura medica (Nunziante Albano)
Linus e il regressio ad uterum (Claudio Asciuti)
Scritto in riferimento agli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, questo saggio di Baudrillard (Raffaello Cortina Editore, 45 pagine) è utile anche all’interpretazione di alcuni aspetti riguardanti i recenti fatti terroristici di Brindisi (la bomba davanti alla scuola Morvillo Falcone) e prima ancora di Genova (la ‘gambizzazione’ di Roberto Adinolfi). Quali meccanismi comunicativi convivono intorno a un atto terroristico? Il terrorismo è un gesto orribile proveniente dall’esterno della società (come se fosse una sorta di azione aliena) o è un gesto ‘allevato’ inconsapevolmente all’interno di essa? (<<… perché il male è qui, è dappertutto, come un oscuro oggetto di desiderio…>> pag. 10). Il terrorismo, che piaccia o meno, è un sottoprodotto aberrante di questa società: non proviene da mondi lontanissimi; anche le istituzioni che s’impegnano a combatterlo, coloro che s’indignano e indignandosi diffondono le notizie relative all’atto terroristico, lo tengono indirettamente a battesimo.
<<… Siamo ormai molto al di là dell’ideologia e del politico. Dell’energia che alimenta il terrore, nessuna ideologia, nessuna causa, neppure quella islamica, può rendere conto. È una cosa che non mira neppure più a trasformare il mondo, che mira (come le eresie nei tempi antichi) a radicalizzarlo attraverso il sacrificio, mentre il sistema mira a realizzarlo con la forza. Il terrorismo, come i virus, è dappertutto. C’è una perfusione mondiale del terrorismo, che è come l’ombra portata di ogni sistema di dominio, pronto dappertutto a uscire dal sonno, come un agente doppio. Non si ha più linea di demarcazione che permetta di circoscriverlo, il terrorismo è nel cuore stesso della cultura che lo combatte, e la frattura visibile (e l’odio) che oppone sul piano mondiale gli sfruttati e i sottosviluppati al mondo occidentale si congiunge segretamente alla frattura interna al sistema dominante…>> (pag. 14-15)
L’atto terroristico nasce dal bisogno ‘moderno’ di essere ovunque grazie a un gesto eclatante, di comparire nella realtà di tutti noi per veicolare un messaggio globale e prepotente. Parlo di ‘gesto moderno’ in relazione al suo svuotamento ideologico che è direttamente proporzionale al progresso dei mezzi di comunicazione gestiti da quel sistema che s’intende sconfiggere con l’atto terroristico. Usare i media per colpire il sistema che li ha creati e per restituire al sistema una parte dell’energia negativa: <<… La tattica del modello terroristico consiste nel provocare un eccesso di realtà e nel far crollare il sistema sotto tale eccesso. Tutto il ridicolo della situazione e insieme tutta la violenza mobilitata dal potere gli si ritorcono contro, perché gli atti terroristici sono insieme lo specchio esorbitante della sua stessa violenza e il modello di una violenza simbolica che gli è vietata, della sola violenza che non possa esercitare: quella della propria morte…>> (pag. 25)
(nella foto: il presunto attentatore di Brindisi ripreso da una telecamera)
I terroristi, ancor prima di accendere la miccia o di schiacciare il telecomando per la detonazione, sanno che in pochi secondi balzeranno agli onori della cronaca e utilizzano le immagini orribili diffuse dai media per raggiungere i propri obiettivi ‘comunicativi’; al tempo stesso il sistema riutilizza altre immagini per identificare gli autori di quei gesti condannati dall’opinione pubblica. L’immagine diventa così fattore patogeno e terapia, mezzo di offesa e di difesa, oggetto terrorizzante e contributo alla giustizia: <<… Di tutte queste peripezie a noi resta soprattutto la visione delle immagini. Dobbiamo conservare questa pregnanza delle immagini, e la loro fascinazione, perché le immagini sono, lo si voglia o no, la nostra scena primaria…>> (pag. 35) E ancora, insiste Baudrillard: <<… Tra le altre armi del sistema che gli hanno ritorto contro, i terroristi hanno sfruttato il tempo reale delle immagini, la diffusione mondiale istantanea di esse. […] Il ruolo dell’immagine è fortemente ambiguo. Perché nell’atto stesso in cui lo esalta, prende l’evento in ostaggio. L’immagine gioca come moltiplicazione all’infinito e, simultaneamente, come diversione e neutralizzazione… L’immagine consuma l’evento, nel senso che lo assorbe e lo dà a consumare.>>
Delegare l’interpretazione della realtà all’immagine significa deresponsabilizzare il pensiero: <<Che ne è allora dell’evento reale, se dappertutto l’immagine, la finzione, il virtuale entrano per perfusione nella realtà? […] Ma la realtà supera veramente la finzione? Se sembra farIo, è perché ne ha assorbito l’energia, divenendo essa stessa finzione. Si potrebbe quasi dire che la realtà sia gelosa della finzione, che il reale sia geloso dell’immagine… È una specie di duello tra loro, a chi sarà il più inimmaginabile. […] Perché la realtà è un principio, ed è questo principio che è andato perduto. Realtà e finzione sono inestricabili e il fascino dell’attentato è innanzitutto quello dell’immagine. […] In questo caso, quindi, il reale si aggiunge all’immagine come un premio di terrore, come un brivido in più. […] Questa violenza terroristica non è “reale”. È qualcosa di peggio, in un certo senso: è simbolica. La violenza in sé può essere perfettamente banale e inoffensiva. Solo la violenza simbolica è generatrice di singolarità. […] Lo spettacolo del terrorismo impone il terrorismo dello spettacolo. E contro questa fascinazione immorale l’ordine politico non può nulla.>> (pag. 36/40)
Eppure l’immagine non è la realtà: ne rappresenta solo il riverbero, l’eco. L’immagine è la traccia più affidabile della realtà, la più vicina, a volte l’unica a disposizione di chi si occupa di memoria e di ricerca della verità, ma è pur sempre un artificio, un’adulterazione della stessa. In base alle immagini separiamo il Bene dal Male, scegliamo da che parte stare, decidiamo contro chi combattere, ma questo non significa che possediamo la verità. E soprattutto: il terrorismo è sempre il risultato di un’azione contro il sistema o è un evento usato dallo stesso sistema per deviare e controllare l’opinione pubblica?
L’attentatore (o gli attentatori) di Brindisi realizza un meccanismo sofisticato per causare dolore e morte, e trascura la presenza di telecamere in grado di identificarlo. Si parla, spesso a sproposito, di “Grande Fratello” e di “deriva orwelliana” ovvero di un abuso della presenza tecnologica capace di effettuare un controllo asfissiante sui membri della società. Quando, in seguito, ci accorgiamo che quella stessa tecnologia può rappresentare un valido aiuto per la giustizia o addirittura un mezzo per salvare le nostre vite, dimentichiamo gli abusi, le proiezioni distopiche, le prepotenze del sistema, le visioni fantascientifiche. Forse il problema non è il controllo in quanto tale, che può risultare paradossalmente ‘utile’: la vera deriva orwelliana è contenuta nell’interpretazione delle immagini affidata ai gestori del sistema, nella loro capacità di disinnescare la realtà e di potenziare l’impatto di determinati atti terroristici per finalità che ignoriamo: <<… Qualsiasi violenza sarebbe loro perdonata se non fosse ripresa e amplificata dai media (“il terrorismo non sarebbe nulla senza i media”). Ma tutto questo è illusorio. Non esiste uso buono dei media, i media fanno parte dell’evento, fanno parte del terrore, e giocano in un senso o nell’altro.>> (pag. 40-41)
Ne avevo già parlato qui e qui, e non vi nascondo che attendevo la distribuzione di questo numero 7 di IF (Insolito & Fantastico) dedicato alle DISTOPIE con una certa impazienza. Non ho avuto ancora modo di “azzannarlo” in qualità di lettore, ma da una prima scorsa panoramica e valutando superficialmente i contenuti posso affermare che si tratta di uno dei più interessanti numeri di IF. E non lo dico certamente perché è presente nella sezione narrativa anche il mio racconto “L’ultimo tramonto”, ma per la possente componente saggistica che come sempre accade su IF approfondisce in maniera enciclopedica i temi trattati. Un esempio è fornito dal saggio di Romolo Runcini intitolato “Aldous Huxley. Lo spirito della contraddizione”. Non poteva mancare il “mio” Huxley, a cui Franco Battiato nel 1972 dedicò il suo primo album intitolato “Fetus”. Così come non potevano mancare Orwell, Atwood, Burgess, Zamjàtin e altri…
Si chiede e ci chiede Carlo Bordoni nel suo editoriale: <<Esistono ancora i romanzi distopici? Qualcuno dice di sì, ed è pronto a fare nomi e cognomi. Eppure l’età d’oro delle distopie […] è finita da un pezzo. Il suo tempo ha coinciso con i grandi totalitarismi che hanno afflitto l’Europa e il mondo intero per oltre mezzo secolo, dal comunismo al nazifascismo, e che ancora resistono in certe sacche marginali di anacronismo politico.>>
E aggiungerei: non solo “pescando” in queste sacche possiamo trovare nuova linfa in vista di future escursioni letterarie nel territorio della distopia, ma soprattutto superandole, guardando oltre quelle forme evidenti di dittatura a cui siamo stati abituati dagli Autori sopra menzionati. Perché come ho avuto modo di scrivere nel mio articolo “Manca l’analisi e poi non c’ho l’elmetto”: <<Non si tratta, per dirla in parole povere, di inventarsi nuove strane società da dare in pasto ai lettori di sci-fi vogliosi di evasione o di coniare nuovi termini futuristici per stupire chi è già saturo di una terminologia tecnologica di uso quotidiano; occorre un’analisi particolareggiata e al tempo stesso grandangolare della società moderna e il coraggio (l’elmetto) di raccontarla in una distopia che è quasi realtà, senza scomodare improbabili secoli futuri.>>
E’ sempre un piacere vedere il proprio cognome ‘adagiato’ su una delle meravigliose copertine del grande artista ‘uraniano’, l’illustratore Franco Brambilla. Ed è sempre un grande onore comparire in un numero della rivista IF diretta da Carlo Bordoni. E’ successo già un’altra volta con il numero “Giallo&Noir”, ma sinceramente sento il tema della distopia molto più vicino al mio campo d’interesse e quindi… doppia soddisfazione! Stay tuned!
Dal sito di IF: “L’editore […] annuncia il n. 7, dedicato alle DISTOPIE, già in preparazione. Un numero arricchito dalla presenza di un saggio di Romolo Runcini su Aldous Huxley, un inedito di Carlo Bordoni su Margaret Atwood e un’intervista a Douglas Preston. E poi saggi di Claudio Asciuti, Gianfranco de Turris, Domenico Gallo, Riccardo Gramantieri, Giuseppe Panella. Copertina di Franco Brambilla. IF sarà presentata nel corso dell’Italcon di Milano/DelosDay2011/Domenica 5 giugno, alle ore 12 (Sala Beta). Saranno presenti l’editore Marco Solfanelli, Carlo Bordoni, Riccardo Gramantieri e Gian Filippo Pizzo. Quest’anno l’Italcon è ospitata presso la “Casa dei Giochi” in via Sant’Uguzzone 8, Milano, e può essere facilmente raggiunta con la Metro Rossa (linea 1), fermata Villa San Giovanni, o con l’Autobus 81 e 51.”
Facciamo insieme un riassunto delle puntate precedenti.
Sul n.15 della interessantissima rivista di sci-fi “Fondazione” egregiamente fondata e curata da Claudio Chillemi ed Enrico Di Stefano, un saggio di quest’ultimo intitolato “Strane forme di vita – ovvero la SF dove non avreste mai creduto di trovarla” poneva ai Lettori una domanda scomoda ma necessaria: “È tramontata l’era della Fantascienza?” E dopo aver evidenziato lo straordinario polimorfismo di questa meravigliosa branca della creatività umana, l’Autore concludeva affermando: “La Fantascienza moderna… ormai è percepita più come genere cinematografico che letterario.”
Nel successivo n.16 l’Autore Nando Messina, già cofondatore della storica fanzine “Zap”, lettore di “Fondazione” e appassionato di fantascienza, rispondeva in maniera ironica al saggio di Di Stefano con un intervento articolato e surreale (non riassumibile in questa sede e che invito tutti a leggere direttamente dalla fonte cartacea).
Quasi all’inizio del suo intervento Nando Messina, inoltre, riservava parole lusinghiere nei confronti del mio racconto pubblicato sul n.15: […] Perché sento l’esigenza di confutare quanto scritto da Lui? (riferendosi a Enrico Di Stefano, n.d.b.) Nella catena, realizzatore – produttore – fruitore, io entro solo come piccolo lettore di sci-fi, ma perché, dopo aver letto, sempre sullo scorso numero (n.15, n.d.b.), il breve racconto di Michele Nigro “L’ultimo Tramonto” ho passato venti minuti ad assaporarne il retrogusto delle atmosfere e a rileggere alcuni passi, e tutto il seguente pomeriggio di vacanza al mare ad immaginare la realizzazione del film basato sul racconto, dall’adattamento alla scelta delle scenografie e persino alle musiche? […]
Azzardo alcune ipotesi interpretative: Nando Messina confuta il “pessimismo” di Di Stefano (sfruttando di fatto l’esempio fornito dal mio racconto) affermando, in un certo qual modo, che la Fantascienza non potrà mai evolvere in fenomeno puramente cinematografico fino a quando esisteranno Autori in grado di creare storie a loro volta capaci di attivare l’immaginario del Lettore anche (e non solo) in senso cinematografico: il “film” nasce prima di tutto nel cervello del “semplice” Lettore. Le riduzioni cinematografiche hollywoodiane sono un fenomeno secondario anche se apparentemente prevalente e il Regista, insieme allo Sceneggiatore, è egli stesso – dimenticarlo sarebbe intellettualmente grave e ingiusto nei confronti di chi scrive – un lettore.
Sentendomi piacevolmente tirato in ballo dall’intervento di Messina e non contento del mio ruolo di lettore passivo avevo preso, come si usa dire in questi casi, “carta e penna” (o “tastiera e mouse”, se preferite!) e avevo fornito il mio modesto contributo alla discussione (qui di seguito riportato). Contributo, tra l’altro, inviato anche alla stessa Redazione della rivista “Fondazione” in vista di un possibile, futuro sequel riguardante le numerose domande sul destino del genere letterario fantascientifico.
Buona lettura.
“Manca l’analisi e poi non c’ho l’elmetto”
Stimolato dalla domanda postaci da Nando Messina nella rubrica “Fondazione Interventi” dello scorso numero 16, pag.56 – “Può finire tutto senza scomparire?” – ho tentato di dare, prima di tutto a me stesso e per ciò che riguarda la cosiddetta “fantascienza sociologica”, una risposta capace di soddisfare almeno uno dei molteplici aspetti storico-letterari insiti nella domanda.
Cito Messina: “Poi lentamente, nel corso degli anni ’80, tutto questo (riferendosi alle tematiche sci-fi del XIX e XX secolo, n.d.a.) finisce. Gli ultimi fuochi si chiamano “cyberpunk”. […] All’inizio di questo secolo non potei fare a meno di chiedermi cosa fosse successo…”
Il senso di “diluizione”, percepito dall’autore della domanda, nell’ambito della letteratura fantascientifica è condivisibile. E fa bene a non escludere il Cyberpunk e il suo upgrade Postcyberpunk dagli ultimi tentativi, seppur timidi e poco incisivi, di critica sociale. Il divario tra la possente “cosmogonia distopica” di Orwell, Huxley, Zamjatin, Bradbury, Boye, Dick e la sterile adorazione del “dettaglio orfano di una trama” è fin troppo evidente: gli effetti speciali hollywoodiani hanno prevalso, alla fine, sui grandi contenuti della letteratura.
Quale è la causa di questo indebolimento? Durante l’epoca precedente alla caduta programmata a tavolino del famigerato Muro di Berlino la gente aveva (o credeva di avere) le idee chiare: esistevano un al di là e un al di qua della cortina. Anche se il totalitarismo sovietico, sapientemente celato dietro scenari futuristici, non è stato l’unico obiettivo della fantascienza distopica “partorita” durante buona parte del cosiddetto secolo breve, ne ha rappresentato la colonna vertebrale. Molte persone, dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica, sono entrate in una profonda crisi esistenziale perché è venuto a mancare un solido punto di riferimento su cui concentrare le proprie “misurazioni” sociali, politiche, ideologiche e religiose: la diluizione del “male” esige, oggi, un’analisi più accurata e non di tipo ideologico. Il “nemico esterno” è divenuto parte integrante della famiglia e ammicca ogni sera dallo schermo (uno qualsiasi), ma nessuno lo vede! Il gioco si è complicato. Il Cyberpunk ha solo sfiorato il problema dei nuovi “totalitarismi bianchi”.
Il disagio espresso da chi avverte la presenza di un “buco tematico” nella moderna letteratura fantascientifica non è solo frutto della nostalgia: il confronto con le opere sci-fi lette in passato evidenzia maggiormente il tipo di carenza, senza risolverla. Cantava Venditti anni fa: “… Manca l’analisi e poi non c’ho l’elmetto…” Non si tratta, per dirla in parole povere, di inventarsi nuove strane società da dare in pasto ai lettori di sci-fi vogliosi di evasione o di coniare nuovi termini futuristici per stupire chi è già saturo di una terminologia tecnologica di uso quotidiano. Occorrerebbe un’analisi particolareggiata e al tempo stesso grandangolare della società moderna e il coraggio (l’elmetto) di raccontarla in una distopia che è quasi realtà, senza scomodare improbabili secoli futuri. Le note dolenti della cosiddetta “fantascienza sociologica”, descritte durante il secolo scorso dai maestri della sci-fi distopica, le stiamo “suonando” ora, pur non trovandoci in Unione Sovietica, pur credendo di essere liberi. Ma non c’hanno detto su che tipo di spartito le avremmo trovate. Il compito di riconoscerlo, almeno quello, spetterebbe a noi. Il compito di riconoscere le nuove dittature dolci travestite da “partiti dell’amore” spetta a noi e non ad autori morti decine e decine di anni fa.
La “matrice” in cui viviamo oggi ha disabilitato il nostro “olfatto”: occorrono, pertanto, nuovi livelli di ricerca, nuovi stadi e stati di consapevolezza, differenti obiettivi interiori non individuabili dai sondaggi di mercato, nuove scelte di vita difficili da scannerizzare.
Ed è per questo motivo che occorrono riviste come “Fondazione”: capaci non solo di proporre ai propri Lettori le voci nuove, seminuove e rodate del panorama sci-fi italiano, ma soprattutto di diventare luoghi cartacei adatti per la coltivazione di una critica dinamica e stimolante.
Non possiamo più attendere solo il romanzo rivelatore o l’intervista all’autore pluripremiato per conoscere lo “stato dell’arte”: occorre discuterne qui, ora, tra di noi, subito, senza perdere tempo. La Storia è veloce; il Punto di non ritorno è ormai vicino!
[…] Mentre passava davanti al teleschermo, O’Brien parve colto da un pensiero. Si fermò, si mosse di lato e girò un interruttore sulla parete. Si sentì una sorta di brusco schiocco e la voce si azzittì. Julia emise un gridolino di sorpresa. Quanto a Winston, pur essendo in preda al panico, ne fu così colpito da non riuscire a trattenersi.
«Lo puoi spegnere!» disse.
«Sì» rispose O’Brien, «lo possiamo spegnere. Abbiamo questo privilegio.» […]
(tratto da “1984”, George Orwell)
Un lettore può tornare sui propri passi?
Dopo aver gustato e amato nel corso degli anni autori come Orwell, Huxley, Zamjatin, Boye, Dick, Burroughs, Bradbury e altri, risulta difficile oltre che sorprendente, ora, dover ammettere pubblicamente di voler lodare un certo tipo di controllo. Per anni, paranoicamente, ho seguito in maniera appassionata le distopiche profezie di certi scrittori visionari, le loro esagerate descrizioni di società private dei più elementari diritti sulla privacy ma tutto sommato (credevo!) lontane nel tempo, società proiettate in un futuro in cui io avrei avuto la fortuna di essere già morto. Non avevo capito niente! Anzi, non solo non avevo capito niente perché quelle condizioni sociali erano già state realizzate, ma avevo anche invertito i termini del problema… Il problema non è più il controllo dispotico e asfissiante attuato da un futuristico establishment cinico e opprimente, ma la mancanza di controllo! O meglio, di un certo tipo di controllo. “Chi controlla il controllore?” verrebbe da chiedersi. Non credo ai miei occhi: sto scrivendo di desiderare il Controllo! Voglio essere intercettato! Voglio che il Grande Fratello entri a far parte della mia esistenza; desidero con tutto me stesso sacrificare la mia privacy sull’altare della Giustizia e gridare al mondo intero: “Io amo il Grande Fratello!” Voglio che le mie e-mail, i miei fax, le mie telefonate, le mie connessioni a internet, diventino di dominio pubblico; voglio sostituire le pareti in muratura della mia casa con materiale in plexiglas; desidero essere spiato, catalogato, intercettato, etichettato, criticato, registrato, pubblicato, sputtanato… Voglio prostituirmi sul palcoscenico del gossip! Voglio fare tutto questo e altro ancora, se necessario, pur di continuare a conoscere (e a leggere) i meccanismi perversi di chi, credendo di possedere un consenso bulgaro costruito sulla distrazione delle masse, utilizza il potere esecutivo per scopi personali. Tappando bocche!
Drammatizzazioni a parte. Nessuno vorrebbe vivere nel mondo descritto da Orwell nel romanzo “1984”: la vera discussione riguardante il tempo presente, infatti, dovrebbe orbitare solo ed esclusivamente intorno al privilegio che hanno i potenti, grazie al maxiemendamento sulle intercettazioni studiato dal Governo italiano e in via di approvazione definitiva, di poter “spegnere” il controllo su se stessi ogni qualvolta i Grandi Fratelli della Giustizia e dell’Informazione incappino in contenuti giudiziari scomodi. Questo è il problema! Come ha scritto Roberto Saviano alcuni giorni fa: “…Il terrore che ha il potere politico e imprenditoriale è quello di vedere pubblicati elementi che in poche battute permettono di dimostrare come si costruisce il meccanismo del potere. Non solo come si configura un reato…”
Ecco che lo stralcio del romanzo “1984”, riportato all’inizio di questo articolo, diventa terribilmente attuale; con la sola differenza che lo stupore quasi infantile (“Lo puoi spegnere!”) manifestato dal protagonista Winston non c’appartiene più. Da questo punto di vista siamo stati svezzati, purtroppo. Tutti sappiamo interiormente, come se fosse un pilastro della cosiddetta “psicologia transgenerazionale” e quindi un elemento stabile del nostro immaginario collettivo, che cos’è il Potere e cosa permette di fare ai potenti che lo detengono. Non ci stupisce il potere in se e nemmeno il fatto che il potente sia in grado di spegnere (nel nostro caso, in maniera ancor più assurda, tramite una regolare “legge” approvata da un regolare Parlamento, eletto con regolari elezioni) l’attenzione sui meccanismi che fanno funzionare il potere rendendolo arrogante e prevaricante; l’unica cosa che ci dovrebbe ancora stupire – come per il cane che si morde la coda – è la mancanza di stupore che alberga permanentemente in questo paese, nella mente assopita delle masse votanti. Le dittature attecchiscono e crescono lì dove c’è una mancanza cronica di indignazione, lì dove si delega per pigrizia…
Il primo passo è stato realizzato: il Potere, con la scusa di voler proteggere la privacy del mio salumiere che utilizza il telefono due volte l’anno (per gli auguri di Pasqua e quelli di Natale), ha deciso come e quando poter intercettare e di conseguenza come e quando pubblicare le intercettazioni sugli organi di stampa.
Il secondo passo da realizzare, non meno importante del primo, sarà quello di pubblicare (distribuendola gratuitamente in tutte le redazioni giornalistiche della nazione) la prima edizione del Dizionario della Neolingua a cura di Silvio Berlusconi e Angelino Alfano. Si tratterà di un prezioso compagno di scrittura, un volume necessario da utilizzare costantemente e da tenere sulla propria scrivania insieme alla foto dei figli, grazie al quale i giornalisti, durante le rare volte in cui potranno ancora scrivere notizie riguardanti i Potenti, saranno in grado di scegliere le parole giuste da inserire nei loro articoli. Senza offendere nessuno con notizie calunniose. Ecco che alcune parole per noi normali tra non molto verranno sostituite da parole o espressioni equipollenti:
-la parola “corruzione” sarà sostituita dall’espressione “proficua intesa su inutili cavilli legali”
-“prostituzione” diventerà “proficua intesa su inutili cavilli sessuali”
-“indagine” si trasformerà in “storia alternativa e fantasiosa su cittadini onesti e perseguitati”
-“intercettazione” diventerà “momentaneo guasto delle linee telefoniche”
-“tribunale” sarà “dopolavoro per avvocati”
-“magistrato” sostituita con “diversamente giudice”
-“avviso di garanzia” con “pubblicità nelle cassette postali”
-“cimice” con “insetto”
-“comunista” con “diversamente italiano”
-“gara d’appalto” con “corsa tra palazzi in costruzione”
-“sesso” con “scambio consensuale di liquidi umorali”
-“reato” con “maldicenza”
-l’espressione “bloccate la trasmissione Annozero perché parla male di me!” sarà sostituita da “elaborate valide alternative culturali in caso di improvvisi e per nulla prevedibili buchi nel palinsesto televisivo”…
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L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
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