È in uscita l’antologia Nostra Signora degli Alieni contenente, tra gli altri, un mio vecchio racconto – “The Padre P.I.O. Show” – scritto durante il periodo in cui leggevo e a volte tentavo di scrivere fantascienza (o, come in questo caso, fantareligione da me ribattezzata all’epoca “rel-fi” ovvero religion fiction) e che sottotitolai ironicamente “un caso di malasantità”. Oggi non mi appartiene più questo tipo di sperimentalismo scritturale legato al genere fantascientifico, perché nel frattempo sono mutate le passioni letterarie, le ricerche e gli esperimenti che ne conseguono, ma è sempre divertente assistere a questi rigurgiti editoriali “postumi”.
La presentazione dell’antologia curata da Walter Catalano e Gian Filippo Pizzo è ufficialmente confermata per DOMENICA 12 NOVEMBRE alle ore 13 alla sala Blu del Pisa Book Festival.
“Nostra Signora degli Alieni”
Racconti di fantareligione
a cura di
Walter Catalano e Gian Filippo Pizzo
Santi e santità, libri sacri e profani,
miracoli ultraterreni e misteri della fede.
A opera di alcuni fra i più noti autori italiani di fantascienza.
Il Paradiso, l’Inferno e altre ipotesi sull’Aldilà. La Chiesa come Potere Temporale che estende il suo dominio oltre la Terra e oltre il Tempo, ma anche la Chiesa come Potere Spirituale che colonizza altri pianeti affrontando nuovi problemi esistenziali. Nuove scoperte scientifiche che mettono in crisi la Fede.
Questo e altro in una antologia che coniuga fantasia, teologia, religione, riflessioni sul futuro, senza tuttavia dimenticare la giusta dose di azione e avventura.
Testi di Donato Altomare, Vincenzo Bosica, Denise Bresci, Andrea Carlo Cappi, Stefano Carducci e Alessandro Fambrini, Vittorio Catani, Francesco Grasso, Roberto Guarnieri, Lukha B. Kremo, Alessandro Morbidelli, Michele Nigro, Pierfrancesco Prosperi, Franco Ricciardiello, Michele Tetro.
Intorno al viaggiare vi è in atto da tempo una guerra non dichiarata: quella tra visione localistica ed esotica del movimento conoscitivo compiuto dal viaggiatore. I localisti, cugini non troppo lontani dei selecercatisti, tendono a concentrarsi solo ed esclusivamente sulle bellezze locali, a frequentare luoghi dove non è richiesto alcuno sforzo linguistico per farsi comprendere dalle popolazioni “indigene”, a sviluppare in maniera anacronistica lo slogan di fascistissima memoria “Preferite il prodotto italiano” anche in ambito turistico. Gli esotisti, dal canto loro, prediligono una fuga dalla realtà, una letteratura d’evasione in movimento, sono affetti da un’esterofilia curata male e che ha origini antiche: la frammentazione linguistica pre- (e direi anche post-) unitaria; la disomogeneità geopolitica che ha reso difficile la vita ai “fratelli d’Italia”; i tanti, troppi secoli vissuti in qualità di colonizzati da chiunque si trovasse a passare per la penisola. Nonostante il tricolore calcistico, estero è bello, estero è meglio: ancora una volta siam pronti alla morte culturale e identitaria.
L’ideale, come sappiamo, sta nel mezzo: occorrerebbe un approccio anarco-individualista per liberarsi dalle catene delle due fazioni. Non appartenere a nessun luogo ma essere ovunque, e al contempo abitare il tutto senza trascurare il particolare, conoscere il locale e il lontano da noi, apprendere “La distinzione / e la lontananza” (cit.), integrarli in un discorso sapienziale a chilometro zero. Evitare il viaggio vissuto come mero spostamento fisico, ma al tempo stesso non trincerarsi dietro a pigrizie culturali anchilosanti. Non concentrarsi né sul dito, né sulla Luna, ma sul gioco di sovrapposizione tra oggetti distanti che mai s’incontreranno, se non nell’immaginazione di chi crea analogie. E si scorge in questa pratica un profondo senso di libertà: l’unica possibile, in grado di sconfiggere la nostra limitatezza, il nostro essere finiti in quanto umani e confinati in un arco temporale insignificante.
Perché vi può essere tanto esotismo anche nelle cose locali, si può andare lontano restando in zona, così come ci può capitare di recuperare il nostro senso di appartenenza viaggiando in luoghi impensati, proprio mentre cerchiamo di dimenticare il punto di partenza e la nostra quotidianità. La filosofia low cost del facile spostamento ha azzerato la lentezza dell’avvicinamento, un tempo prerogativa di camminatori, naviganti e pensatori perdigiorno. Il web, la rete, non ha unito il mondo, lo ha solo omologato e reso l’ingresso a stanze lontane più rapido e facile. Ed è una grande comodità tutto questo! Nulla da eccepire… Le parti che compongono il mondo fisico e quello conoscitivo sono già in connessione da secoli, ma lo abbiamo dimenticato perché nel frattempo la conoscenza analogica è stata sostituita da quella digitale, più veloce ed efficace, che ha appiattito o sotterrato certi percorsi umani divenuti pura archeologia. La rete ha incentivato l’esotismo sì, ma quello errato: ci si illude di essere andati fuori ma in realtà siamo rimasti fermi nella casella iniziale del gioco, perché certe scoperte si compiono sulle lunghe distanze, quelle vere, e a distanza di tempo. Solo in fase di ritorno, come accade in vecchiaia dopo una vita di strade battute, ritornando a essere localisti senza perdere gli odori del mondo acquisiti nel corso di numerosi viaggi, si realizza il confronto che istruisce. Lo sguardo di un localista che è stato esotista e ha viaggiato con saggezza, sarà sempre più ampio e ricco della visione limitata di chi si rinchiude nella roccaforte della valorizzazione dei prodotti tipici locali.
Hüzün: “… Nel Corano questa parola sta ad indicare lo stato d’animo determinato da una grave perdita spirituale e dal distacco irreversibile da una persona amata. Il concetto è stato ripreso nella filosofia sufi per indicare l’emozione generata dalla consapevolezza dell’incolmabile distanza tra l’uomo e Dio. Tale sentimento è tuttavia estremamente positivo, poiché è visto come una condizione esistenziale necessaria per intraprendere il cammino mistico di riavvicinamento alla divinità…” (fonte)
Una serie di rivoluzioni scientifiche sta radicalmente cambiando il nostro mondo. Il futuro immaginato dagli scrittori di fantascienza e dai più audaci futurologi è ormai sorpassato rispetto alle innovazioni che stiamo vivendo, dalle stampanti 3D alle cellule staminali. Allo stesso tempo, il futuro del pianeta è minacciato da una serie di sfide che mettono a dura prova i limiti della natura. La rivoluzione scientifica e tecnologica sarà in grado di vincere queste sfide e proseguire sulla strada del progresso, o la civiltà è destinata al collasso? È solo una delle domande a cui cerca di rispondere Futuro in progress. Un viaggio sbalorditivo nel futuro che si sta realizzando sotto i nostri occhi, una panoramica a 360° dei cambiamenti che stanno trasformando il nostro mondo.
SOMMARIO
Introduzione
1. La sfida della sostenibilità
Governare il clima
Sempre più stretti
L’irresistibile ascesa dei vegetariani
Il puzzle energetico
2. Opzione Spazio
Il “grande gioco” spaziale
Una nuova corsa all’oro
Il Rinascimento spaziale
In cerca di un’altra Terra
3. Umanità 2.0
Il secolo della genetica
La rivoluzione delle staminali
Destinazione cervello
A un passo dall’immortalità
4. Cronache del terzo millennio
La nuova scienza
La scommessa dell’Europa
La (fanta)scienza che verrà
Conclusioni: evitare il collasso
Gridava Nanni Moretti nel film “Aprile”: <<Osate! Levate la macchina da presa dal cavalletto e osiamo stilisticamente: vai con la macchina a mano tra i manifestanti…>>. Mentre esco dalla sala 1 del cinema dove hanno appena finito di proiettare in 3D il tanto atteso “Prometheus”, giungo drasticamente alla conclusione che il blasonato regista questa volta non ha osato. Ridley Scott verrà ricordato per altre cose, ne sono certo. Così come avviene in letteratura, anche nel mondo del cinema le vere idee rivoluzionarie capitano una volta ogni quindici o addirittura trent’anni: tutto quello che viene prodotto nell’intervallo temporale tra due idee rivoluzionarie non è nient’altro che il riverbero consumistico della penultima idea. Risultato di un sapiente lavoro di copincolla che può stupire solo chi è, riferendomi al film di cui sopra, fantascientificamente vergine.
Già negli anni ottanta in una diffusa pubblicità riguardante una marca di televisori l’attore affermava: “Noi siamo scienza, non fantascienza!” Come a voler dire che nella fantascienza i contenuti non valgono, l’importante è stupire con effetti speciali per soddisfare il bisogno di evasione del telespettatore medio. Evadere per non pensare, facendo leva sulla mancanza di memoria degli appassionati del genere. O almeno così credono in tanti.
Un po’ di Alien, un po’ di Visitors… Un po’ di Stargate, un po’ di Contact… Se Ridley Scott fosse vissuto nel medioevo, probabilmente lo avrebbero messo a costruire mosaici in qualche cattedrale. “Meglio essere morbidi e accontentare tutti i palati” si sarà detto il regista britannico. Voglio essere onesto: il film mi è piaciuto, non è stato sgradevole. Ma tornando a casa non mi sono attaccato al computer, come durante una notte insonne a causa dell’entusiasmo innescato dalla visione di un grande film, per cercare notizie e approfondimenti su una storia che è già stata scritta e disseminata in precedenti opere cinematografiche.
Inflazionato è l’accostamento tra la scoperta archeologica e la conseguente missione in angoli sperduti dell’universo come è già accaduto in Stargate o addirittura in 2001: Odissea nello spazio; abusata è l’idea dell’invito alieno (o presunto tale) a raggiungere altri mondi o della difficile convivenza, a volte, tra fede religiosa e scienza: vedi Contact di Zemeckis; unte e bisunte le scene di esseri mostruosi che spuntano fuori dalla pancia dei malcapitati, in stile Alien (il vero capolavoro del nostro regista che, come si dice in questi casi, fece epoca); riciclata la presenza dell’androide David che ricorda in maniera spudorata i meno attraenti Ash e Bishop di Alien. Peter Weyland, l’anziano presidente della Weyland Corporation, ricorda per certi versi l’eccentrico finanziatore, il signor Hadden, del film Contact.
[SPOILER] Abbiamo le scatole piene del sacrificio estremo e doveroso da parte di un singolo o addirittura di un intero equipaggio eroico e altruista (vedi Armageddon e molti altri film con “sacrificio finale” per salvare questa cazzo di Terra che non so fino a che punto meriti di essere salvata!); non offre niente di nuovo il mostricciattolo simile all’Alien di Carlo Rambaldi dell’ultimissima scena, anche se giustificato dal fatto che inizialmente s’era pensato di fare con Prometheus un prequel di Alien. Ricorda troppo la scelta finale del Jim McConnell di Mission to Mars la partenza della dottoressa Elizabeth Shaw a bordo di un’astronave aliena, non più alla ricerca della verità sulle origini dell’umanità ma sul perché dell’odio degli Ingegneri nei confronti del genere umano (è un po’ come se un gay andasse da solo a chiedere in una tana di naziskin il perché del loro odio nei confronti dei diversi). Lasciando così intravedere la possibilità di un sequel. [fine SPOILER]
I personaggi sono dotati di scarso spessore: quasi insignificante, direi passivo, quello di Meredith Vickers, pur essendo interpretato dalla bellissima Charlize Theron; mentre è assolutamente improponibile un paragone tra la “tosta” Sigourney Weaver e la “dolce” Noomi Rapace. Alla fine il personaggio più interessante è sicuramente l’androide David, anche se il suo comportamento ambiguo, oscillante tra l’obbedienza all’uomo, suo “creatore”, e il rispetto di ordini impartiti dal vero proprietario dei suoi circuiti, ricorda troppo quello del computer HAL 9000 del 2001 di Kubrick.
Insomma dove sono le idee nuove? Forse sono rimaste seppellite sotto tonnellate di effetti speciali e nessuno ha più la forza e l’energia mentale di scavare, per cercarle.
Un paio di consigli: evitate gli “ingegneri”, soprattutto quelli terrestri, e smettetela di interpretare tutti i “disegnini” che trovate nelle caverne! Può darsi che vi vengano nuove idee…
Sorseggiando un caffè, comodamente seduto davanti allo schermo del mio pc, osservo le prime foto inviate dal rover “Curiosity” e provenienti dalla superficie del lontano pianeta rosso, meglio conosciuto come Marte. Le immagini del quarto pianeta del sistema solare non sono una novità: già altre sonde e altri robot, durante passate missioni, hanno inviato scatti suggestivi. A dir poco commovente e trasudante romanticismo è, ad esempio, la foto di un tramonto marziano inviata dal rover Spirit nel 2005.
L’immagine (non importa se a bassa o ad alta risoluzione), più di ogni altro freddo dato strumentale di tipo numerico, è in grado di creare un contatto reale e immediato tra ciò che sembra impossibile e lontano, e la nostra quotidianità apparentemente scontata e conosciuta. L’immagine non ha bisogno quasi mai di interpretazioni: un tramonto è un tramonto, una roccia è una roccia, la polvere è polvere anche su altri mondi. Un tempo, quando le cartoline spedite dai luoghi di vacanza, prima dell’avvento dei videofonini e degli mms, andavano ancora di moda, i parenti costretti a rimanere a casa ricevevano, con tanto di firma e di eventuale post scriptum, la prova tangibile e inconfutabile della nostra presenza nel luogo desiderato e raggiunto. Come a voler dire “Eccomi arrivato!”, “Sto bene!”, “Vedi in che posto mi trovo?”, “Il viaggio è andato liscio!”…
Prima dell’era delle esplorazioni spaziali l’immaginario collettivo si nutriva di descrizioni fantasiose ed esagerate partorite dalla penna di alcuni audaci scrittori di genere: fu anche grazie a questi voli pindarici se la scienza riuscì in certi casi a trovare la forza e le soluzioni giuste per superare determinati punti oscuri. La fantasia spesso ha suggerito forme, sistemi, idee: la tecnologia ha creduto di saper trovare una serie di risposte dal nulla, ma anche l’immaginario di inventori e costruttori era già stato precedentemente inseminato dai fotogrammi mentali di pochi folli visionari dediti alla scrittura e all’arte del disegno. Tutto ciò è durato fino a quando la scienza non ha cominciato ad accumulare dati e tra questi una serie corposa di immagini provenienti dai nuovi mondi scoperti ed esplorati. Da questo punto in poi è stata la realtà visiva, corroborata dai dati strumentali, che ha cominciato a nutrire (e a correggere) la fantasia. C’è stata come una sorta di scambio di favori tra la realtà oggettiva e la fantasia.
Nelle foto inviate dal rover “Curiosity” non troviamo traccia del pianeta Marte descritto da Ray Bradbury nella sue “Cronache marziane” o nel film “Atto di forza” di Paul Verhoeven. Il pianeta immortalato dai robot della NASA è un pianeta “nudo”, deprivato della fantasia popolare e delle sovrastrutture immaginifiche di cui avevamo bisogno negli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo. La realtà è questa: prendere o lasciare! E noi prendiamo. E nell’accettare questa realtà “resettiamo” la nostra fantasia per ricalibrarla in base a nuove esigenze scientifiche, per assecondare nuovi parametri di ricerca: non più marziani verdi con gli occhi sulle antenne ma “semplici” molecole organiche; non più città sotterranee appartenenti a civiltà estinte ma gas e acqua… L’esperienza di “Curiosity” continuerà a ridisegnare un nuovo metodo induttivo da applicare alla planetologia: l’umiltà dei particolari fisico-chimici quasi impercettibili contro l’illusione letteraria di popolazioni extraterrestri già belle e pronte per il primo contatto. La cultura d’evasione si trasforma in fantasia controllata e scientificamente coerente.
Eppure lo scrittore, a differenza dello scienziato che analizza dati in maniera rigorosa e su di essi basa ogni tipo di conclusione, si accontenta di poco per ripartire: la sua “subcreazione da scrittoio”, facendo leva sulla visione di una catena di montagne marziane o di una landa sassosa priva di vegetazione, ridona vitalità a una fantasia apparentemente sottomessa e silenziosa. E a quel punto gli basterà poco. Basterà la notizia della presenza di acqua su Marte per ritornare a immaginare oceani, per riabitare foreste e ridiscendere fiumi, per concepire forme di vita senzienti nascoste tra le colline, per trasformare il semplice silenzio inorganico in un complesso rumore biologico; sarà sufficiente il rilevamento di un composto organico nel suolo per reinventare esistenze scomparse e per ritornare finalmente a raccontare storie.
Al di là del campo di forza usato in sostituzione dell’antico materiale chiamato vetro, Giove appariva enorme, paterno, costante come un pensiero silenzioso ma prepotente. Testimone gassoso e muto di migliaia di vite sospese nel vuoto. I colori crema e marrone della sua atmosfera, impegnata in bizzarre formazioni cicloniche e anticicloniche, inducevano alla meditazione.
Il “Belvedere”, come era stato ribattezzato il ponte di osservazione della stazione orbitante adoperando un termine d’antan ripescato dagli archivi linguistici, era il luogo preferito dagli abitanti della Jupiter IV, frequentato dai civili e dall’equipaggio in libera uscita.
Ilia e Decker, seduti su una plexi-panchina attendevano, come erano soliti fare durante i momenti di pausa dai loro rispettivi lavori, la comparsa della Grande Macchia Rossa sull’orizzonte gioviano. Senza dire una parola e rispettando le esigenze rotatorie del grande pianeta, fissavano fiduciosi lo spazio siderale.
“Eccola!” – Ilia interruppe il silenzio con l’entusiasmo di chi osserva per la prima volta un nuovo fenomeno. La Grande Macchia Rossa apparve lentamente: una tempesta di metano e ammoniaca nell’atmosfera di Giove che in passato aveva fatto da leit motiv afono ai baci appassionati dei due giovani amanti, nonostante i divieti di prossimità in luogo pubblico vigenti nella stazione. Ma non in quella occasione. Quella volta non c’era spazio per l’intimità, ma solo per una controllata disperazione.
“Sei proprio decisa?” – domandò per l’ennesima volta Decker continuando a far finta di osservare la Grande Macchia Rossa che intanto era completamente riemersa dall’orizzonte.
“Sì. Conosci le mie intenzioni… E vorrei sentirti vicino in questo momento, anche se si tratta di una prova dolorosa per te.”
“Ilia, non puoi chiedermi di approvare la tua partenza! Lo sai che già mi manchi?”
“Decker, è una grande prova anche per me.”
“Allora resta!”
Ilia non rispose ma alzandosi dalla plexi-panchina si avvicinò al campo di forza che la separava dal baratro siderale, come se quei pochi metri le permettessero di vedere meglio la Grande Macchia Rossa distante milioni di chilometri. Decker, poggiando i gomiti sulle ginocchia, aveva imprigionato la testa tra le mani come a voler impedire che esplodesse.
Una folta scolaresca del primo stadio educativo, accompagnata da un androide insegnante della serie alfa-3, transitava in una fila ordinata per due, proprio alle spalle di Ilia che continuava imperterrita a cercare tra le nubi vermiglie del dio pianeta una valida risposta al suo dolore.
“… Giove possiede una vasta atmosfera e un mantello di idrogeno metallico che esercitano altissime pressioni sul nucleo di natura rocciosa…” – spiegava la voce innaturale dell’androide.
Ilia era una ragazza forte ma in quel momento il pesante silenzio di Decker opprimeva in maniera impietosa il suo animo determinato. Si girò di scatto, ripercorse il breve tragitto che la separava da Decker e utilizzando una riscoperta freddezza disse: “Devo andare Decker! È quello che desidero… Hanno bisogno di me”.
Decker liberò la testa dalla morsa organizzata dalle sue stesse mani e si mise in piedi come se un manovratore occulto avesse tirato dei fili invisibili collegati al suo corpo.
“Anche qui c’è bisogno di te.”
“Lo sai che non è la stessa cosa.”
“Questa città orbitante ha bisogno di gente come te e me. Puoi assistere le migliaia di abitanti di questo mondo artificiale con la stessa competenza che regaleresti laggiù…”
“Non è lo stesso…”
“… le tue conoscenze sarebbero sprecate in quei posti…”
“… non sarebbero sprecate…”
“… gli androidi farebbero il tuo lavoro senza sacrificare amore, affetti, progetti condivisi… Senza stancarsi, senza il bisogno di alimentarsi o di dormire, senza soffrire… Senza il rischio di morire.”
“Gli androidi sono efficienti ma non possono riprodurre e offrire alla gente di quei mondi una cosa che ho imparato anche grazie a te, Decker.”
“Cosa?”
“L’amore.”
Ilia aveva scelto un amore più grande: voleva essere una missionaria nelle colonie umane sui Pianeti Esterni scoperti nel ventitreesimo secolo, durante la Grande Era dell’Esplorazione Extrasolare. Un tipo di amore che richiedeva abnegazione e lunghi viaggi in sospensione criogenica, e dall’esito incerto.
Decker tentò di prendere le mani di Ilia ma lei si ritrasse con delicatezza e diede il colpo di grazia a un legame ormai dissolto: “Ieri ho depositato il mio atto di castità nell’elaboratore della Grande Anima”.
Decker si lasciò cadere sulla plexi-panchina come se si fosse arreso dinanzi a una forza invincibile di natura superiore. Era davvero finita.
Non aveva capito niente: aveva pensato o forse aveva costretto la propria mente a pensare che quello di Ilia fosse solo un passeggero interesse umanitario, esplorativo e scientifico. Nei giorni precedenti aveva rifiutato l’idea inconscia ma reale che Ilia potesse concedersi totalmente alla Grande Anima. Per sempre.
Tutta la passione, la vita condivisa, le intense emozioni provate insieme a quella ragazza che non riconosceva più e i sentimenti coltivati per anni, si volatilizzavano su quel ponte di osservazione come gas industriali liberati in un giorno di vento forte sulla Terra. Per un istante aveva desiderato che un’avaria del sistema di mantenimento vitale della stazione disattivasse i campi di forza, facendo risucchiare nel vuoto cosmico quella realtà artificiale divenuta insopportabile, insieme ai suoi pazienti attori inquadrati e felici.
“Questa sera prima della partenza ci sarà la cerimonia della vestizione.” – aggiunse Ilia, infierendo sul corpo e sulla mente di Decker. “Vorrei che tu partecipassi: sarebbe importante per me.”
“Ci sarò. Se è questo che vuoi.” – rispose con rassegnazione Decker.
La città orbitante Jupiter IV proseguiva il suo cammino gravitazionale intorno al quinto pianeta del Sistema Solare e la Grande Macchia Rossa era ormai quasi del tutto scomparsa dietro l’ennesimo orizzonte. Tra qualche giorno sarebbe riapparsa.
Può la televisione del passato essere superiore a quella attuale dal punto di vista dei contenuti? La risposta, quasi scontata, è sì! E ne ho le prove. “Racconti di fantascienza” di Alessandro Blasetti (regista già noto al pubblico italiano per lavori cinematografici non fantascientifici, anche se la produzione di Blasetti è caratterizzata fin dagli esordi da una interessante eterogeneità) è il titolo di un programma televisivo in tre puntate mandate in onda su Rai Due nel 1979 e rappresenta un esempio di televisione ormai estinta e non soggetta alle dure leggi dell’omologazione mentale, come accade invece nella ipervitaminica e digitalizzata televisione del terzo millennio. Una televisione, quella del programma di Blasetti, ingenua, grossolana, forse approssimativa e per certi versi “rozza” ma efficace, diretta ed entusiasta della propria funzione propositiva. Ho avuto il piacere, recentemente, di rivedere le tre puntate e devo dire che ogni tanto “fa bene alla salute” poter gustare un certo tipo di produzione televisiva: le tematiche fantascientifiche affrontate nel programma (“Il tempo e lo spazio”; “I robot”; “I mostri”) non sono certamente originali per un fruitore di science fiction del ventunesimo secolo, ma l’aspetto che vorrei evidenziare in questo mio post è quello riguardante lo stile scarno ma genuino con cui Blasetti (coadiuvato dalla lettura, ad opera del bravissimo attore Arnoldo Foà, di brani appartenenti al genere letterario fantascientifico: nella prima puntata “Immaginatevi” di Frederic Brown e “Tutto in un punto” di Italo Calvino…) tenta di introdurre nel tessuto televisivo e quindi sociale di una nazione, l’Italia della fine dei difficili anni ’70, una argomentazione che oggi paradossalmente (nonostante i temi appartenenti al genere sci-fi siano, nel 2010, più numerosi e scientificamente più raffinati rispetto al 1979) è di fatto relegata in canali specialistici e ufficiosamente snobbata dalla sempre più prevalente e rimunerativa “televisione realitaria” fatta di talent show, trasmissioni d’intrattenimento ad impegno mentale zero e velinismi vari. “Racconti di fantascienza” è una semplice vetrina in cui vengono presentati (tre in ogni puntata) dei brevi sceneggiati tratti dai racconti di alcuni autori di fantascienza oggi considerati veri e propri pilastri della narrativa sci-fi: “Primo contatto” di Murray Leinster; “Un caso insoluto” di Franco Bellei; i tre racconti “La crisalide”, “L’assassino” e “I sosia” di Ray Bradbury; “Ultimi riti” di Charles Beaumont; “L’esame” di Richard Matheson; “La decima vittima” di Robert Sheckley (che aveva ispirato nel 1965 l’omonimo film di Elio Petri – “La decima vittima” -, anche se il titolo originale del racconto di Sheckley (The Seventh Victim) faceva riferimento solo ad una “settima vittima”); “O. B. N. in arrivo” di Edmund Cooper. Racconti sceneggiati in maniera semplice e a volte anche comica, come nel caso di “Primo contatto” affidato alla simpatica interpretazione di Nanni Loy, capaci di lanciare un messaggio ben preciso al pubblico.
Francamente non so se torneranno epoche simili dal punto di vista televisivo: la situazione attuale, facendo zapping tra gli innumerevoli canali del nuovo e tanto esaltato digitale terrestre, non mi permette di sperare in nulla di positivo. Le regole ferree di un mercato televisivo sempre più schiavo dello share (e rappresentativo, purtroppo, dello stato culturale e mentale medio nazionale) non offrono spiragli attraverso cui introdurre certi sperimentalismi. Il processo di separazione della fantascienza dal mainstream, dal 1979 ad oggi, è stato lentamente ma inesorabilmente realizzato: anche se attualmente si parla tanto di diluizione della fantascienza in altri generi letterari e di innesti tra narrativa sci-fi e altri filoni legati al vasto mondo della creazione fantastica e non… Il problema non è trovare nuove soluzioni per ibridare un genere già da tempo in crisi, ma riuscire a presentare e spiegare in maniera normale e disinvolta una serie di temi, quelli fantascientifici, ad un pubblico che sembrerebbe non avere più gli strumenti necessari per “chiedere” o per sperimentare, e a cui non si ha più il coraggio di proporre “cose antiche” ma che sarebbe utile rispolverare.
Assistere ad un programma televisivo che tratta di fantascienza e condotto elegantemente da un maestro del cinema italiano in giacca e cravatta? Verrebbe quasi da rispondere, osservando l’attuale panorama televisivo italiano: “Pura fantascienza!”
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