Altre due “puntate” (qui e qui e ovviamente su Ebook Italia qui e qui) dell’intervista di Anna Maria Di Pietro al sottoscritto, pubblicata da Sara Lettrice su Instagram (i_libri_salvano)… Buona lettura!
Archivio per George Orwell
The Giver – Il mondo di Jonas
Posted in nigrologia with tags 1984, amore, analogie, atarassia, bellezza, cambiamento, cinema, cinematografia, consapevolezza, contaminazione, controllo, critica televisiva, distopia, dittatura, emozione, equilibrio, esistenza, eugenetica, eutanasia, evoluzione, fantascienza, fantascienza sociologica, film, fuga, futuro, generi letterari, George Orwell, ibridazione, inner space, interiorità, istinto, liberazione, libero arbitrio, libertà, libri, lotta, memoria, pace, politica, popolo, post apocalittico, potere, psicologia, quest, recensione, ricerca, ricordi, rivoluzione, romanzo, sci-fi, science fiction, sentimento, sf, sistema, società, storia, umanità on 11 aprile 2017 by Michele Nigroversione pdf: The Giver – Il mondo di Jonas
Una delle caratteristiche più frequenti nei recenti film di genere fantascientifico è senza alcun dubbio il processo di ibridazione da cui nascono: l’originalità, sempre più rara, è stata sostituita da più sicuri incroci tra porzioni di precedenti pellicole di successo (anche di generi differenti), come in una sorta di grande esperimento di ingegneria genetica adattata alla cinematografia. Lungi da me il voler giudicare come negativa questa tecnica d’ibridazione, che nella maggior parte dei casi fornisce risultati gradevoli, sarebbe tuttavia interessante analizzarne – in altra sede e in maniera più approfondita – l’origine, gli obiettivi, le tecniche narrative che utilizza per rendere credibile il risultato finale: si tratta di mancanza di idee come accennavo all’inizio? Voglia di “contaminazione” tra generi? Sperimentalismo transmediale libro-film? Sta di fatto che questi film derivano quasi sempre da altrettanti romanzi, quindi l’ibridazione avviene a monte. È letteraria.
Non sfugge a tale fenomenologia il film intitolato The Giver – Il mondo di Jonas (tratto dal romanzo The Giver – Il donatore di Lois Lowry): l’accostamento più facile da fare sarebbe quello con il film Hunger Games, ma scavando in profondità è interessante rilevare quante altre analogie meritano di essere scoperte e analizzate. La storia contenuta nel film di Phillip Noyce ha letteralmente “rubato” l’idea della riscoperta dei colori (e delle emozioni) a un altro grande film sottovalutato: Pleasantville. L’assegnazione di mansioni al compimento del 18° anno d’età assomiglia alla divisione in fazioni presente nel romanzo Divergent di Veronica Roth (dal momento che il romanzo della Roth è del 2011, mentre quello di Lowry è del 1993, sarebbe il film Divergent ad avere un “debito” con The Giver – Il mondo di Jonas; anche se entrambi i film sono del 2014!). L’estirpazione delle emozioni dall’animo umano è un chiaro riferimento al film Equilibrium di Kurt Wimmer; la società quasi apatica, senza classi e senza memoria di The Giver ricorda un po’ quella degli Eloi di H. G. Wells; l’iniezione mattutina per debellare gli impulsi sessuali e sentimentali è l’equivalente, in termini di controllo sociale, dell’assunzione di soma ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley; l’amore controllato (e inibito) tra uomo e donna non può non rievocare il rapporto proibito tra Winston e Julia nel celebre romanzo 1984 di George Orwell. Per non parlare della deriva eugenetica, presente in numerose opere letterarie e cinematografiche fantascientifiche. Interessante il riferimento antiabortista (i bambini non conformi allo standard vengono “congedati”: un modo pulito per dire uccisi) e quindi antispartano contenuto nel messaggio filmico. Riferimento che potrebbe essere esteso anche al tema delicato e attuale dell’eutanasia: quando una società legifera sulla nascita, sulla morte e sui sentimenti ed emozioni contenuti nell’intervallo di tempo compreso tra questi due momenti, può definirsi libera? Sembrerebbe chiedersi la voce narrante di questa storia. Anche se, come accade nella realtà, non è la condizione esistenziale in sé ma la necessaria presa di coscienza a fare la differenza in termini di azioni da intraprendere.
L’idea di una società distopica “con il trucco” non è originalissima: nella maggior parte dei casi si tratta di società post-apocalittiche, perché deve esserci sempre un evento passato sconvolgente – una guerra, un’epidemia, una quasi estinzione – per far cambiare rotta all’umanità e per farle scegliere un nuovo inizio basato su scelte radicali applicate da un’oligarchia. Come a voler dire: “abbiamo sbagliato, è vero, ma da oggi in poi si riga dritto, con nuove regole e guai a chi sgarra!” Innumerevoli sono gli esempi, fantascientifici e non, letterari e cinematografici, di società apparentemente perfette ma che nascondono regole di vita disumane e innaturali: The Island film di Michael Bay, L’uomo che fuggì dal futuro (THX 1138) di George Lucas, La penultima verità (The Penultimate Truth) romanzo di Philip K. Dick, The Truman Show film di Peter Weir, La fuga di Logan (Logan’s Run) film di Michael Anderson, La possibilità di un’isola romanzo di Michel Houellebecq… ecc. Continuate voi: sono sicuro che avete almeno un titolo di film o di romanzo da aggiungere all’elenco!
“V for Vendetta” vs “Trainspotting”: monologhi a confronto
Posted in nigrologia with tags 1984, analogie, armi di distrazione di massa, cambiamento, cinema, cinematografia, consapevolezza, consumatore, consumismo, controllo, cultura, democrazia, deriva, distopia, dittatura, droga, esistenza, esistenzialismo, eversione, evoluzione, fantapolitica, fantascienza, fantascienza sociologica, filosofia, futuro, George Orwell, immaginario collettivo, individualismo, individuo, liberazione, libero arbitrio, libertà, lotta, materialismo, memoria, moda, monologo, nichilismo, parole, paura, pensiero, politica, popolo, populismo, potere, psicologia, realtà, ricerca, ripetitività, rivolta, rivoluzione, scelta, sistema, società, sovvertire, storia, televisione, tossicodipendenza, violenza, vita on 7 febbraio 2017 by Michele Nigro♦
versione pdf: “V for Vendetta” vs “Trainspotting”: monologhi a confronto
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Nel post che vi apprestate a leggere (spero fino alla fine), cercherò di mettere a confronto due monologhi cult della più o meno recente produzione cinematografica internazionale: quello di V nel film “V per Vendetta” e quello di Mark Renton (soprannominato Rent) all’inizio del film “Trainspotting”. Qualcuno si starà chiedendo cosa abbiano in comune questi due monologhi; domanda legittima: infatti appartengono a due generi, due realtà differenti (l’una fantastica ambientata in un Regno Unito distopico, l’altra ha come sfondo una Edimburgo storicamente verificabile, descritta nell’omonimo romanzo di Irvine Welsh; come nel caso anche del romanzo “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” di Christiane F.) e i personaggi che li pronunciano sono a dir poco antitetici. Eppure, discostandomi dai rispettivi contesti senza mai perderli di vista, concentrandomi solo ed esclusivamente sui testi, ho trovato ugualmente interessante andare alla ricerca di analogie e differenze.
Entrambi i monologhi hanno come obiettivo il capovolgimento di un establishment, politico o culturale, o di un ordine esistenziale in cui non ci si riconosce più: nel caso di V il potere da combattere è violento, organizzato, visibile, è ben strutturato e personificato nell’Alto Cancelliere Adam Sutler (interpretato dal compianto John Hurt, recentemente scomparso); nel caso dei ragazzi di Trainspotting il disagio deriva da un potere che non viene mai nominato: è diluito, interiore, dimora in quegli oggetti che a lungo andare ci posseggono, presidia le nostre scelte esistenziali e consumistiche, ha le sembianze scomode di un dovere sociale a cui non ci si può sottrarre. L’approccio “etico” al sovvertimento è, come chi ha visto entrambi i film può facilmente immaginare, diametralmente opposto: mentre V incoraggia i cittadini di Londra a compiere una precisa e puntuale scelta rivoluzionaria che dovrebbe migliorare la vita della società sul piano delle libertà individuali e collettive, Mark Renton sceglie di non scegliere: “Io ho scelto di non scegliere la vita. Ho scelto qualcos’altro”. Ovvero, si sceglie di combattere il sistema sottraendo se stessi alla spirale opprimente di una vita normale. Anche da questa non-scelta possiamo ricavare un insegnamento utile, ricevere un messaggio da un’epoca, un segnale sociale e culturale da non sottovalutare: per capire l’origine del disagio, per comprendere l’impotenza dei suoi protagonisti e il perché di un annientamento.
E la prima domanda che potrebbe nascere dal confronto dei monologhi è la seguente: “è più facile contrastare un potere dispotico concreto o uno che si nasconde tra le pieghe apparentemente innocue della libertà quotidiana?”
Il monologo di V comincia in maniera educata e comprensiva nei confronti di un benessere materiale che non sembra essere il primo nemico da combattere: “Buona sera, Londra. Prima di tutto vi prego di scusarmi per questa interruzione: come molti di voi, io apprezzo il benessere della routine quotidiana, la sicurezza di ciò che è familiare, la tranquillità della ripetizione; ne godo quanto chiunque altro…”; quello di Rent con chiede scusa ma punta il dito immediatamente contro i simboli che portano l’uomo a un graduale ma inesorabile “rammollimento” (accuse che, formulate da un eroinomane dedito all’autodistruzione, potrebbero sembrare pretestuose!): “Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo, scegliete lavatrice, macchina, lettore cd e apriscatole elettrici…”
V dà inizio al suo intervento televisivo pirata con un pippone esagerato ma indispensabile sull’importanza della commemorazione, sul valore della parola (“Alcuni vorranno toglierci la parola, […] Perché, mentre il manganello può sostituire il dialogo, le parole non perderanno mai il loro potere; perché esse sono il mezzo per giungere al significato, e per coloro che vorranno ascoltare, all’affermazione della verità.”), sulla denuncia di un sistema non più sopportabile (“… c’è qualcosa di terribilmente marcio in questo paese” che ricorda il Something is rotten in the state of Denmark – C’è del marcio in Danimarca – di shakespeariana memoria), sulla libertà di pensiero e sulle ragioni storiche che hanno portato alla deriva orwelliana presa in prestito nel film di James McTeigue (tratto dall’omonimo graphic novel di Alan Moore e David Lloyd).
Entrambi i monologhi giungono sorprendentemente alla stessa conclusione: la causa della realtà in cui viviamo, siamo noi stessi. Afferma V: “… se cercate il colpevole… non c’è che da guardarsi allo specchio.”; molto più “filosofico” e introspettivo Mark Renton: “… chiedetevi chi siete la domenica mattina”. Entrambi incitano a ricercare un io inconsapevole, pigro, sonnolento e rassegnato, per spingerlo a riappropriarsi di libertà seppellite e dimenticate, di futuri alternativi ancora recuperabili e raggiungibili tramite la lotta sociale o addirittura fuggendo nell’eroina. Nel primo caso le ragioni sono eticamente condivisibili, nel caso di Mark Renton & company non ci sono ragioni, perché “Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”. In entrambi i casi si tenta di raggiungere una sorta di libertà: quella ricavata dalla tossicodipendenza è sicuramente discutibile, ma si tratta pur sempre, e a suo modo, di una libertà. Autodistruttiva, egoistica, disperata: l’unica che i protagonisti di “Trainspotting” riescono a concepire.
CALL CENTER: METAFORA E METAMORFOSI DEL LAVORO PARA-SUBORDINATO
Posted in nigrologia with tags Aldous Huxley, alienazione, capitalismo, economia, evoluzione, fuga, George Orwell, lavoro, lettura, liberazione, Michele Nigro, new economy, racconto, recensione, sistema, società, viaggio, visione on 9 marzo 2013 by Michele NigroRicevo e volentieri pubblico una recensione attenta, dettagliata, scrupolosa e particolarmente sentita al mio racconto social fantasy “Call Center” da parte dell’amico Valentino Strél’nikov Cerrone. Interessante, all’interno del testo della recensione sul blog di Valentino, il riferimento video al film “Aldous Huxley’s Brave New World” della BBC. Forse il recensore vuole dirci, ispirato dalla lettura del mio scritto, che siamo giunti a livelli sociali di tipo huxleyano od orwelliano?
[la recensione qui presentata si riferisce alla prima edizione del racconto pubblicata nel 2013, non più disponibile; per leggere la seconda edizione (2018) “Call Center – reloaded”, andate qui!]
In copertina: foto di Nigricante©2018; titolo: “Firestarter 2.0”
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(sopra: copertina della prima edizione, non più in vendita!)
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CALL CENTER: METAFORA E METAMORFOSI DEL LAVORO PARA-SUBORDINATO
“Call center” non è solo, come potrebbe apparire da una prima lettura, un mirabile ed impegnato affresco sulla difficoltosa e nebulosa realtà del lavoro para-subordinato, ma anche e soprattutto un viaggio “esperienziale” nelle zone d’ombra e meno focalizzate del nostro sistema economico-produttivo, che ne mette a nudo tutte le insidie, gli ingranaggi perversi, e le terrificanti scorie sociali.
L’autore di tale racconto, coniugando leggerezza narrativa ed impegno sociale, tra spezzoni di poesia, incipit filosofici e richiami musicali di Gaber e Battiato, come un Dante Alighieri nella Divina Commedia, mediante un viaggio “esperienziale” fa emergere con abilità, senza mai essere prolisso e banale, mai rischiando di scivolare nella retorica, un concetto, un fenomeno poco studiato dai grandi media contemporanei: il non luogo di Marc Augè.
Si colgono altresì tratti orwelliani vicini a “1984” e a “La fattoria degli animali” quando mette in luce che il lavoratore va “educato… il comportamento non può tendere alla neutralità o alla riflessione (dannosa in ambito produttivo), bensì a un energico entusiasmo decerebrante capace di far ottenere al lavoratore il tanto agognato premio finale.”
Ebbene proprio l’apertura di tale viaggio inizia con un richiamo forte che descrive il binomio micidiale di spersonalizzazione e concreto bisogno che spinge il lavoratore para-subordinato a sottomettersi non solo fisicamente (“Conosco bene le misure del mio spazio lavorativo: mi fermo un millimetro prima di strappare via il jack”) ma soprattutto interiormente (“ritorno fedele con le braccia sul tavolo del box dove mi aspettano i pieghevoli che illustrano le caratteristiche patinate dei meravigliosi prodotti da vendere e il decalogo delle cose da dire o da non dire pensati dall’intellighenzia aziendale.)
“Lo spirito del terrorismo” di Jean Baudrillard
Posted in nigrologia with tags 11 Settembre 2001, attentato, comunicazione, controllo, distopia, fatto, fiction, filosofia, filosofo, George Orwell, giornalismo, giustizia, Grande Fratello, immaginario collettivo, immagine, informazione, Jean Baudrillard, mass-media, messaggio, Ministro della Paura, morte, notizia, Orwell, politica, potere, realtà, sistema, società, società dello spettacolo, sociologia, spettacolo, terrorismo, tv, verità, visione on 21 Maggio 2012 by Michele NigroScritto in riferimento agli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, questo saggio di Baudrillard (Raffaello Cortina Editore, 45 pagine) è utile anche all’interpretazione di alcuni aspetti riguardanti i recenti fatti terroristici di Brindisi (la bomba davanti alla scuola Morvillo Falcone) e prima ancora di Genova (la ‘gambizzazione’ di Roberto Adinolfi). Quali meccanismi comunicativi convivono intorno a un atto terroristico? Il terrorismo è un gesto orribile proveniente dall’esterno della società (come se fosse una sorta di azione aliena) o è un gesto ‘allevato’ inconsapevolmente all’interno di essa? (<<… perché il male è qui, è dappertutto, come un oscuro oggetto di desiderio…>> pag. 10). Il terrorismo, che piaccia o meno, è un sottoprodotto aberrante di questa società: non proviene da mondi lontanissimi; anche le istituzioni che s’impegnano a combatterlo, coloro che s’indignano e indignandosi diffondono le notizie relative all’atto terroristico, lo tengono indirettamente a battesimo.
<<… Siamo ormai molto al di là dell’ideologia e del politico. Dell’energia che alimenta il terrore, nessuna ideologia, nessuna causa, neppure quella islamica, può rendere conto. È una cosa che non mira neppure più a trasformare il mondo, che mira (come le eresie nei tempi antichi) a radicalizzarlo attraverso il sacrificio, mentre il sistema mira a realizzarlo con la forza. Il terrorismo, come i virus, è dappertutto. C’è una perfusione mondiale del terrorismo, che è come l’ombra portata di ogni sistema di dominio, pronto dappertutto a uscire dal sonno, come un agente doppio. Non si ha più linea di demarcazione che permetta di circoscriverlo, il terrorismo è nel cuore stesso della cultura che lo combatte, e la frattura visibile (e l’odio) che oppone sul piano mondiale gli sfruttati e i sottosviluppati al mondo occidentale si congiunge segretamente alla frattura interna al sistema dominante…>> (pag. 14-15)
L’atto terroristico nasce dal bisogno ‘moderno’ di essere ovunque grazie a un gesto eclatante, di comparire nella realtà di tutti noi per veicolare un messaggio globale e prepotente. Parlo di ‘gesto moderno’ in relazione al suo svuotamento ideologico che è direttamente proporzionale al progresso dei mezzi di comunicazione gestiti da quel sistema che s’intende sconfiggere con l’atto terroristico. Usare i media per colpire il sistema che li ha creati e per restituire al sistema una parte dell’energia negativa: <<… La tattica del modello terroristico consiste nel provocare un eccesso di realtà e nel far crollare il sistema sotto tale eccesso. Tutto il ridicolo della situazione e insieme tutta la violenza mobilitata dal potere gli si ritorcono contro, perché gli atti terroristici sono insieme lo specchio esorbitante della sua stessa violenza e il modello di una violenza simbolica che gli è vietata, della sola violenza che non possa esercitare: quella della propria morte…>> (pag. 25)
(nella foto: il presunto attentatore di Brindisi ripreso da una telecamera)
I terroristi, ancor prima di accendere la miccia o di schiacciare il telecomando per la detonazione, sanno che in pochi secondi balzeranno agli onori della cronaca e utilizzano le immagini orribili diffuse dai media per raggiungere i propri obiettivi ‘comunicativi’; al tempo stesso il sistema riutilizza altre immagini per identificare gli autori di quei gesti condannati dall’opinione pubblica. L’immagine diventa così fattore patogeno e terapia, mezzo di offesa e di difesa, oggetto terrorizzante e contributo alla giustizia: <<… Di tutte queste peripezie a noi resta soprattutto la visione delle immagini. Dobbiamo conservare questa pregnanza delle immagini, e la loro fascinazione, perché le immagini sono, lo si voglia o no, la nostra scena primaria…>> (pag. 35) E ancora, insiste Baudrillard: <<… Tra le altre armi del sistema che gli hanno ritorto contro, i terroristi hanno sfruttato il tempo reale delle immagini, la diffusione mondiale istantanea di esse. […] Il ruolo dell’immagine è fortemente ambiguo. Perché nell’atto stesso in cui lo esalta, prende l’evento in ostaggio. L’immagine gioca come moltiplicazione all’infinito e, simultaneamente, come diversione e neutralizzazione… L’immagine consuma l’evento, nel senso che lo assorbe e lo dà a consumare.>>
Delegare l’interpretazione della realtà all’immagine significa deresponsabilizzare il pensiero: <<Che ne è allora dell’evento reale, se dappertutto l’immagine, la finzione, il virtuale entrano per perfusione nella realtà? […] Ma la realtà supera veramente la finzione? Se sembra farIo, è perché ne ha assorbito l’energia, divenendo essa stessa finzione. Si potrebbe quasi dire che la realtà sia gelosa della finzione, che il reale sia geloso dell’immagine… È una specie di duello tra loro, a chi sarà il più inimmaginabile. […] Perché la realtà è un principio, ed è questo principio che è andato perduto. Realtà e finzione sono inestricabili e il fascino dell’attentato è innanzitutto quello dell’immagine. […] In questo caso, quindi, il reale si aggiunge all’immagine come un premio di terrore, come un brivido in più. […] Questa violenza terroristica non è “reale”. È qualcosa di peggio, in un certo senso: è simbolica. La violenza in sé può essere perfettamente banale e inoffensiva. Solo la violenza simbolica è generatrice di singolarità. […] Lo spettacolo del terrorismo impone il terrorismo dello spettacolo. E contro questa fascinazione immorale l’ordine politico non può nulla.>> (pag. 36/40)
Eppure l’immagine non è la realtà: ne rappresenta solo il riverbero, l’eco. L’immagine è la traccia più affidabile della realtà, la più vicina, a volte l’unica a disposizione di chi si occupa di memoria e di ricerca della verità, ma è pur sempre un artificio, un’adulterazione della stessa. In base alle immagini separiamo il Bene dal Male, scegliamo da che parte stare, decidiamo contro chi combattere, ma questo non significa che possediamo la verità. E soprattutto: il terrorismo è sempre il risultato di un’azione contro il sistema o è un evento usato dallo stesso sistema per deviare e controllare l’opinione pubblica?
L’attentatore (o gli attentatori) di Brindisi realizza un meccanismo sofisticato per causare dolore e morte, e trascura la presenza di telecamere in grado di identificarlo. Si parla, spesso a sproposito, di “Grande Fratello” e di “deriva orwelliana” ovvero di un abuso della presenza tecnologica capace di effettuare un controllo asfissiante sui membri della società. Quando, in seguito, ci accorgiamo che quella stessa tecnologia può rappresentare un valido aiuto per la giustizia o addirittura un mezzo per salvare le nostre vite, dimentichiamo gli abusi, le proiezioni distopiche, le prepotenze del sistema, le visioni fantascientifiche. Forse il problema non è il controllo in quanto tale, che può risultare paradossalmente ‘utile’: la vera deriva orwelliana è contenuta nell’interpretazione delle immagini affidata ai gestori del sistema, nella loro capacità di disinnescare la realtà e di potenziare l’impatto di determinati atti terroristici per finalità che ignoriamo: <<… Qualsiasi violenza sarebbe loro perdonata se non fosse ripresa e amplificata dai media (“il terrorismo non sarebbe nulla senza i media”). Ma tutto questo è illusorio. Non esiste uso buono dei media, i media fanno parte dell’evento, fanno parte del terrore, e giocano in un senso o nell’altro.>> (pag. 40-41)
La casa del Grande Fratello
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<<… Un contatto per poter confessare in modo filiale e sinistro le proprie indicibili colpe in nome della beltà, le vezzeggiate vanità ostentate, le scaltre competizioni offerte sull’altare del successo, la facilità del vivere, l’ignoranza come valore, la ricchezza che deriva dal corpo, i libri spavaldamente snobbati, la macchinosa furbizia insita nei giochi dell’immagine, la goliardica sicurezza nei confronti del mondo brutto, i calendari… Come in un’orrida sindrome di Stoccolma che precede l’oblio della morte.
E sì, perché questo era ciò che esigeva l’altro lato dello specchio: la distruzione della personalità mediatica, prima ancora del corpo. Un pentimento registrato su cassetta e imposto con il terrore derivante da un insopportabile silenzio, interrotto solo da agghiaccianti grida di dolore. L’esame di coscienza derivante dalla consapevolezza della fine esigeva tempi interiori non influenzabili dal regista occulto.
Un contatto con il proprio ego, riflettente, a senso unico e senza risposte confortanti, prima di rivolgere la propria violenta disperazione verso la fonte dell’orgoglio fisico o verso i compagni di quel viaggio allucinante.
Essere stati nominati. Ma da se stessi.>>
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tratto dal racconto La casa del Grande Fratello
«Lo puoi spegnere!»
Posted in nigrologia with tags 1984, Annozero, articolo, Big Brother, comunicazione, controllo, corruzione, cultura, distopia, fantapolitica, fantascienza, futuro, George Orwell, giornalismo, giustizia, legge, libro, narrativa, Neolingua, politica, Polizia, potere, programma televisivo, pubblicazione, scrittura, sistema, società, stampa, visione on 15 giugno 2010 by Michele Nigro“1984”, le intercettazioni
e il dizionario della Neolingua di Berlusconi.
[…] Mentre passava davanti al teleschermo, O’Brien parve colto da un pensiero. Si fermò, si mosse di lato e girò un interruttore sulla parete. Si sentì una sorta di brusco schiocco e la voce si azzittì. Julia emise un gridolino di sorpresa. Quanto a Winston, pur essendo in preda al panico, ne fu così colpito da non riuscire a trattenersi.
«Lo puoi spegnere!» disse.
«Sì» rispose O’Brien, «lo possiamo spegnere. Abbiamo questo privilegio.» […]
(tratto da “1984”, George Orwell)
Un lettore può tornare sui propri passi?
Dopo aver gustato e amato nel corso degli anni autori come Orwell, Huxley, Zamjatin, Boye, Dick, Burroughs, Bradbury e altri, risulta difficile oltre che sorprendente, ora, dover ammettere pubblicamente di voler lodare un certo tipo di controllo. Per anni, paranoicamente, ho seguito in maniera appassionata le distopiche profezie di certi scrittori visionari, le loro esagerate descrizioni di società private dei più elementari diritti sulla privacy ma tutto sommato (credevo!) lontane nel tempo, società proiettate in un futuro in cui io avrei avuto la fortuna di essere già morto. Non avevo capito niente! Anzi, non solo non avevo capito niente perché quelle condizioni sociali erano già state realizzate, ma avevo anche invertito i termini del problema… Il problema non è più il controllo dispotico e asfissiante attuato da un futuristico establishment cinico e opprimente, ma la mancanza di controllo! O meglio, di un certo tipo di controllo. “Chi controlla il controllore?” verrebbe da chiedersi. Non credo ai miei occhi: sto scrivendo di desiderare il Controllo! Voglio essere intercettato! Voglio che il Grande Fratello entri a far parte della mia esistenza; desidero con tutto me stesso sacrificare la mia privacy sull’altare della Giustizia e gridare al mondo intero: “Io amo il Grande Fratello!” Voglio che le mie e-mail, i miei fax, le mie telefonate, le mie connessioni a internet, diventino di dominio pubblico; voglio sostituire le pareti in muratura della mia casa con materiale in plexiglas; desidero essere spiato, catalogato, intercettato, etichettato, criticato, registrato, pubblicato, sputtanato… Voglio prostituirmi sul palcoscenico del gossip! Voglio fare tutto questo e altro ancora, se necessario, pur di continuare a conoscere (e a leggere) i meccanismi perversi di chi, credendo di possedere un consenso bulgaro costruito sulla distrazione delle masse, utilizza il potere esecutivo per scopi personali. Tappando bocche!
Drammatizzazioni a parte. Nessuno vorrebbe vivere nel mondo descritto da Orwell nel romanzo “1984”: la vera discussione riguardante il tempo presente, infatti, dovrebbe orbitare solo ed esclusivamente intorno al privilegio che hanno i potenti, grazie al maxiemendamento sulle intercettazioni studiato dal Governo italiano e in via di approvazione definitiva, di poter “spegnere” il controllo su se stessi ogni qualvolta i Grandi Fratelli della Giustizia e dell’Informazione incappino in contenuti giudiziari scomodi. Questo è il problema! Come ha scritto Roberto Saviano alcuni giorni fa: “…Il terrore che ha il potere politico e imprenditoriale è quello di vedere pubblicati elementi che in poche battute permettono di dimostrare come si costruisce il meccanismo del potere. Non solo come si configura un reato…”
Ecco che lo stralcio del romanzo “1984”, riportato all’inizio di questo articolo, diventa terribilmente attuale; con la sola differenza che lo stupore quasi infantile (“Lo puoi spegnere!”) manifestato dal protagonista Winston non c’appartiene più. Da questo punto di vista siamo stati svezzati, purtroppo. Tutti sappiamo interiormente, come se fosse un pilastro della cosiddetta “psicologia transgenerazionale” e quindi un elemento stabile del nostro immaginario collettivo, che cos’è il Potere e cosa permette di fare ai potenti che lo detengono. Non ci stupisce il potere in se e nemmeno il fatto che il potente sia in grado di spegnere (nel nostro caso, in maniera ancor più assurda, tramite una regolare “legge” approvata da un regolare Parlamento, eletto con regolari elezioni) l’attenzione sui meccanismi che fanno funzionare il potere rendendolo arrogante e prevaricante; l’unica cosa che ci dovrebbe ancora stupire – come per il cane che si morde la coda – è la mancanza di stupore che alberga permanentemente in questo paese, nella mente assopita delle masse votanti. Le dittature attecchiscono e crescono lì dove c’è una mancanza cronica di indignazione, lì dove si delega per pigrizia…
Il primo passo è stato realizzato: il Potere, con la scusa di voler proteggere la privacy del mio salumiere che utilizza il telefono due volte l’anno (per gli auguri di Pasqua e quelli di Natale), ha deciso come e quando poter intercettare e di conseguenza come e quando pubblicare le intercettazioni sugli organi di stampa.
Il secondo passo da realizzare, non meno importante del primo, sarà quello di pubblicare (distribuendola gratuitamente in tutte le redazioni giornalistiche della nazione) la prima edizione del Dizionario della Neolingua a cura di Silvio Berlusconi e Angelino Alfano. Si tratterà di un prezioso compagno di scrittura, un volume necessario da utilizzare costantemente e da tenere sulla propria scrivania insieme alla foto dei figli, grazie al quale i giornalisti, durante le rare volte in cui potranno ancora scrivere notizie riguardanti i Potenti, saranno in grado di scegliere le parole giuste da inserire nei loro articoli. Senza offendere nessuno con notizie calunniose. Ecco che alcune parole per noi normali tra non molto verranno sostituite da parole o espressioni equipollenti:
-la parola “corruzione” sarà sostituita dall’espressione “proficua intesa su inutili cavilli legali”
-“prostituzione” diventerà “proficua intesa su inutili cavilli sessuali”
-“indagine” si trasformerà in “storia alternativa e fantasiosa su cittadini onesti e perseguitati”
-“intercettazione” diventerà “momentaneo guasto delle linee telefoniche”
-“tribunale” sarà “dopolavoro per avvocati”
-“magistrato” sostituita con “diversamente giudice”
-“avviso di garanzia” con “pubblicità nelle cassette postali”
-“cimice” con “insetto”
-“comunista” con “diversamente italiano”
-“gara d’appalto” con “corsa tra palazzi in costruzione”
-“sesso” con “scambio consensuale di liquidi umorali”
-“reato” con “maldicenza”
-l’espressione “bloccate la trasmissione Annozero perché parla male di me!” sarà sostituita da “elaborate valide alternative culturali in caso di improvvisi e per nulla prevedibili buchi nel palinsesto televisivo”…
…E così via!
(Articolo pubblicato anche su Giornalettismo.com)
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