
Hikikomori (1): anno 2032
Le ultime ore dell’isolatra Kiro
e le temute gesta della “Polizia Risocializzante”
“Siamo quelli che escono di rado,
sospesi tra la vita del mondo virtuale
e la realtà esterna percorsa dall’eco remota del passato”
(tratto dal Primo Manifesto del Connettivismo)
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Sebbene fossero trascorsi tre anni, sette mesi e diciannove giorni da quando aveva chiuso dietro di sé la porta della propria camera, dimenticandosi in essa, il giovane Kiro non sentiva affatto la mancanza del caos di Tokyo e delle innumerevoli e stressanti relazioni sociali che avevano caratterizzato la sua poco rampante giovinezza, finita sul nascere.
In realtà “avvertire la mancanza di qualcosa” sarebbe stato già un segno di vitale, anche se dolorosa, consapevolezza; ma Kiro, prima di ogni altra cosa, aveva ormai perduto il senso del tempo e dello spazio.
I “ritirati sociali” rappresentavano, in un Giappone post bellico teso in una spasmodica ricostruzione, cominciata da molti decenni e partita dalle ceneri radioattive di Hiroshima e Nagasaki, la corposa schiera dimenticata di coloro i quali, non sapendo sostenere l’opprimente richiesta di uno spirito competitivo in una società tecnologicamente agguerrita, avevano scelto un solitario suicidio mentale da commettere comodamente a casa tra le lenzuola sporche, i videogames e una televisione vomitante programmi trash. Perdendo qualsiasi occasione di relazione con gli altri.
Kiro era uno di loro: aveva “deciso” di essere un hikikomori; non usciva mai di casa, temeva il confronto diretto e il trovarsi faccia a faccia con l’altro. E la sua salute mentale, prevedibilmente, era da tempo appesa a un esile filo. Avrebbe potuto anche lui cercare un posto nella vita e ribellarsi ai padri spaccando vetrine, organizzando sit-in contro il Primo Ministro, suonando musica rock e fumando erba come era già successo in altre parti del mondo e in altre epoche; o come stavano già facendo da tempo molti suoi coetanei in Giappone. Nella peggiore delle ipotesi avrebbe potuto partecipare su Skype, utilizzando il tantō [2] del nonno, ad una sorta di harakiri [3] collettivo organizzato via internet insieme ad altri aspiranti suicidi… No, lui aveva scelto di essere “semplicemente” un hikikomori. Il fattore scatenante del suo “ritiro”, frettolosamente catalogato come pigrizia, non era stato individuato con precisione: forse un’infelice infanzia a base di juku [4] o una pressante carriera scolastica condita con un insopportabile bullismo; la competitività fin dall’asilo e la prospettiva poco allettante di diventare un operaio-schiavo; forse l’assenza fisica e affettiva dei genitori sempre impegnati nei turni in fabbrica o la pressione delle aspettative da loro esercitata; come pure l’esasperante mito dell’auto-realizzazione professionale che mieteva “vittime” e che, inculcato fin dall’età prescolare, tarlava inesorabilmente la psiche dei più deboli. Non ultimo, lo sviluppo economico come priorità dell’affascinante “alveare nipponico” e il conseguente sacrificio dei valori umani.
Forse anche la schizofrenica condizione di un paese incapace di riconoscersi nei valori tradizionali e sempre più condizionato da un’onnipresenza tecnologia fatta di smartphone e aggeggi vari imposti dalla moda, o da una distanza umana causata da fredde videochat e ipermercati aperti anche di notte per chi volesse evitare la gente…
O, chissà, l’insieme di tutto questo.
I pochi metri quadrati della stanza in cui Kiro stava pian piano ammuffendo tra la rassegnata indignazione dei genitori e l’educata indifferenza dei vicini, rappresentavano gli angusti ma protettivi confini del suo personale impero del sol morente. Finalmente niente più ijime [5] nell’insopportabile scuola che aveva frequentato prima del ritiro e soprattutto nessuna relazione umana da sopportare nel difficile e crudele mondo del lavoro: solo un masturbatorio e distruttivo autismo tecnologico capace di camuffare la depressione di chi ha deciso di gettare la spugna sul ring dell’esistenza.
Il materasso piantato al centro della stanza conservava l’impronta di un corpo, quello di Kiro, e la federa del cuscino, raramente pulita, odorava di cibo. Ai piedi del materasso la discreta presenza di una consolle per videogiochi collegata a un televisore eternamente acceso su un canale qualsiasi, quando non impegnato in battaglie cosmiche e lotte sanguinose tra energumeni virtuali, denunciava l’attività principale dell’abitante, durante le numerose elettriche notti bianche.
Nella parete opposta a quella della finestra, quasi sempre serrata per timore che la luce solare potesse causare la resurrezione di nascosti e scomodi ormoni collegati al ritmo circadiano, un’ampia scrivania, residuo di sofferti studi infantili, ricoperta di libri ignorati, gadget dei supereroi in voga e una parte della sua scorta industriale di manga: il pane quotidiano degli otaku [6]. Su una sedia, quasi a mò di bibbie pronte per l’uso, le versioni in lingua giapponese dell’“Elogio della fuga” di Henri Laborit e l’insuperabile “Viaggio intorno alla mia stanza” del francese Xavier de Maistre (“… com’è lontana la Francia da questa angusta stanza, eppure così vicina su internet…!”).
Dallo stereo le parole di una canzone di Ayumi Hamasaki scivolavano languide sui cumuli di panni sporchi sorti un po’ ovunque negli angoli della stanza-parcheggio: “… pur sentendo un pensiero da esprimere, non sempre riesco a dirlo…” – cantava la pop star dall’alto dei suoi ipervitaminici ventitré anni, interpretando le gioie e soprattutto i turbamenti dell’inquieta gioventù nipponica.
Vassoi con scatole di cibo aperte da tempo e in parte consumate; cellulari di ogni forma e marca per comunicare con gli “amici” e per allontanare l’ipotesi insostenibile di rimanere isolati – anche dal punto di vista tecnologico, al di là del già evidente naufragio esistenziale nel mondo reale – con il rischio di ritrovarsi pericolosamente in compagnia di se stesso ed essere costretto a riflettere seriamente sulla propria vita. Immancabile un sicuro e velocissimo collegamento a internet per essere sempre connessi con le chat più frequentate del web in cui incrociare altre vite inconsistenti di persone sconosciute.
Dalla televisione, intanto, come in un leitmotiv ipnopedico, i consigli inascoltati e le ottimistiche recensioni di chi propone facili soluzioni: <<… è in edicola il nuovo libro testimonianza del dott. Tamaki Saito – direttore del Sofukai Sasaki Hospital – intitolato “Come tirare fuori vostro figlio dal limbo degli hikikomori”>> o una dotta indicazione per i palati più esigenti: <<… è imminente l’uscita del saggio “Analisi psicologica dell’uomo cellulare”, l’ultima fatica letteraria dello psicologo Okonogi Keigo…!>>
Il giovane Kiro certo non immaginava che la sua tranquilla e inutile vita da hikikomori sarebbe stata da lì a poco sconvolta per sempre dalla prepotente incursione, nella sua stanza, di una delle componenti più temibili del Ministero della Salute Mentale dell’Impero giapponese – il famigerato Dipartimento di Polizia Risocializzante – istituito nel lontano 2012, in seguito alle preoccupanti statistiche riguardanti il dilagante fenomeno degli hikikomori che già a quei tempi aveva acceso non poche spie d’allarme nella frenetica società giapponese, con il suo ragguardevole mezzo milione di disadattati distribuiti in tutto l’arcipelago ma con punte alte nelle città più affollate. Ora che si contavano più di un milione di autoisolati, le sortite della Polizia Risocializzante erano all’ordine del giorno e interessavano non solo il moderno, nevrotico e insospettabile centro della città di Tokyo dove tutto sembrava efficiente e attivo, scartando a priori la vergognosa presenza di qualche latitante hikikomori, ma anche l’indefinibile e illimitata periferia della capitale giapponese, oramai divenuta ricettacolo ottimale di tutti quei soggetti borderline che non volevano e non potevano conservare un posto dignitoso nel centro degli affari cittadini. Figli naturali dei pachinko [7].
Nemmeno il violento bussare alla porta di casa e la concitata richiesta di inutili spiegazioni da parte della madre, riuscirono a risvegliare la curiosità di Kiro nei confronti del mondo, mentre era tutto preso dal decimo e ultimo livello – il più difficile e quello che richiedeva il massimo della concentrazione – del videogame comprato qualche settimana prima durante un’escursione notturna nel konbini [8] dall’altro lato della strada.
Non parlava faccia a faccia con un essere umano da… Non se lo ricordava più. E non prendeva minimamente in considerazione l’ipotesi terribile che i vari rumori e il parlare esagitato provenienti da lì, dall’ingresso, fossero per lui.
L’ipotesi si materializzò catastroficamente quando capì che la porta della sua stanza, eternamente chiusa a chiave, stava per essere sfondata da una serie di spallate di chissà quale strano animale umano venuto a disturbare il suo sonno sociale. In quell’istante avrebbe voluto solo cambiare la pagina web di quel sito spiacevole e noioso chiamato “realtà”. Ma una parte nascosta di sé sapeva che ciò non sarebbe stato possibile.
Un gruppo di tre poliziotti con la tipica divisa verde cobalto della Polizia Risocializzante e un quarto uomo in borghese con il fazzoletto davanti alla bocca a causa dello spettacolo nauseabondo offerto dalla stanza di Kiro, che ai suoi occhi di impomatato funzionario in giacca e cravatta doveva apparire come un angolo dimenticato di mondo ricolmo di sporcizia ed inettitudine, fecero la loro comparsa nella vita sospesa di chi credeva di essere stato finalmente dimenticato dal mondo esterno. Ma così, evidentemente, non era.
Riponendo il fazzoletto in una delle tasche della giacca il funzionario pretese con voce risoluta: <<in piedi!>>.
Kiro, visibilmente confuso e non sapendo sostenere lo sguardo di ben quattro esseri umani nella sua stanza, lasciò cadere il joystick sul materasso e si alzò in piedi tremante e con lo sguardo perso nel pavimento. Non partecipava a un discorso articolato con altri umani, almeno dal vivo, da tanto tempo e aveva dimenticato quanto potesse essere complesso un dialogo e quanto stressante fosse il dover cercare la risposta giusta alla domanda che veniva posta dall’interlocutore. Quindi attese fiducioso e lasciò, in questo era bravo, che la vita facesse il suo corso anche durante questa esperienza dura e imbarazzante che aveva interrotto il suo decimo livello, messo in pausa.
<<Lei è Kawakami Kiro, di anni 21, nato a Tokyo il 4 Giugno del 2011?>>
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