“… non si può partecipare
subito a un concorso di poesia
che idea
intitolarla ‘apnea’
vale un primo posto…”
(“Il pescatore di asterischi” – Samuele Bersani)
Chi si appresta a scrivere il seguente post, in passato, ha partecipato a numerosissimi concorsi letterari comprendenti la cosiddetta “quota di partecipazione” o “tassa di lettura”, preferendo di gran lunga la prima definizione, anche se l’effetto è lo stesso, dal momento che viviamo in un paese i cui abitanti sono già abbondantemente tassati da chi governa e non c’è bisogno di esserlo anche in ambito culturale e creativo. Sempre lo scrivente gestisce un “servizio di recensione a pagamento” (ATTENZIONE: servizio non più attivo dal 19/08/2017, n.d.a) e quindi, prima che qualche detrattore di professione metta in evidenza questa sua presunta contraddizione, ci terrebbe a distinguere i due momenti “pagati”: mentre una recensione è caratterizzata da un rapporto privato tra recensore e autore, e il recensore non sfrutta secondariamente l’opera ma mette a disposizione il proprio tempo per recensire, tempo che deve essere valorizzato ricorrendo al vil denaro, nel caso delle opere inviate a un concorso letterario vi sono gli estremi per uno “sfruttamento” delle stesse nell’ambito di una manifestazione sociale o di un evento culturale pubblico, e quindi a volerla dire tutta dovrebbero essere gli autori partecipanti a ricevere un pagamento, dal momento che senza le loro opere la manifestazione letteraria non avrebbe luogo. Poiché anche questa ipotesi apparirà a molti di voi utopica e lontana dalle esigenze pratiche reali di chi organizza degli eventi che comportano una spesa, l’unica soluzione dovrebbe essere quella di indire bandi per concorsi letterari caratterizzati da un rapporto di gratuità tra autori/partecipanti e organizzatori/lettori, facendo affidamento quando possibile a fonti terze di sovvenzionamento.
Tenterò in seguito di elencare quelle che secondo il mio modesto parere sono le motivazioni che dovrebbero spingere un autore a partecipare solo ed esclusivamente a concorsi gratuiti o forse, addirittura, a non partecipare a nessun tipo di concorso:
al di là del fatto che chi partecipa, con il semplice “esserci”, alimenta già un meccanismo che tiene in piedi l’evento, c’è da dire che accade molto spesso di assistere anche alla conseguente nascita editoriale di antologie rimpolpate dalle opere in concorso e che dalla cui vendita i vari autori partecipanti non ricaveranno una cosiddetta “lira scannata”: i proventi serviranno a qualche opera di beneficenza di cui si perderanno le tracce dopo pochi minuti dalla fine del concorso o a un più realistico recupero di quelle spese anticipate dai volenterosi organizzatori che a volte si autotassano o alleggerendo le già esigue casse di una sconosciuta “associazione culturale” – in ogni angolo del mondo c’è sempre un’associazione culturale che sforna eventi – che per darsi una ragione di esistere più consistente della semplice registrazione negli elenchi dell’associazionismo, sceglie di “scendere in campo”, quello culturale ed editoriale, e salvare finalmente dall’annientamento letterario questa società già ampiamente devastata da WhatsApp e Facebook! La maggior parte dei concorsi, inoltre, non inviando neanche una copia omaggio all’autore (e dico “una”, con la sacrosanta clausola di pagare almeno le altre eventualmente ordinate), costringe quest’ultimo a dover aggiungere alla succitata tassa di lettura anche un’altra tassa di lettura, ovvero la propria: va pagato il piacere vanitoso e vano del leggersi su un prodotto editoriale destinato il più delle volte a circuiti interni (“io leggo te, tu leggi me!”) e sconosciuti alle grandi “correnti” commerciali. In tanti anni di partecipazione a questa tipologia di concorsi, solo una volta mi è capitato di intravedere una di queste antologie tra gli scaffali di un famoso bookstore abituato a metabolizzare altre tipologie di prodotti e a ritmi ben più serrati di quelli di un’antologia con cadenza annuale. Ma a volte questi “prodotti di nicchia” sfuggono al duro filtro del marketing per giungere alla vista del grande pubblico.
Si fa un gran parlare di Autori Emergenti come se l’emersione editoriale fosse il vero obiettivo della scrittura… Ma da dove emergono questi nuovi eroi della penna? Dal mare, dal buio di una profonda caverna, dall’anonimato, dal silenzio della loro abitazione, da un ambito che non è letterario…?
L’emersione (c’insegnano i numerosi film di guerra ambientati nei sottomarini) è preceduta sempre da una cauta e saggia FASE PERISCOPICA: si getta un ‘occhio’ nel mondo esterno (tutto intorno, a 360°: ‘periscopio’ significa praticamente ‘guardarsi intorno’) per vedere se è veramente il caso di far emergere il resto del natante o se è meglio restare ancora un altro po’ con le chiappe a mollo! Se l’atto periscopico è superficiale e affrettato si rischia di essere un facile bersaglio per eventuali incursori aerei sempre a caccia (è l’unico mestiere in grado di gratificarli) di ottimisti emergenti.
È vero: uno degli scopi dello scrittore è anche quello di ‘farsi leggere’, di pubblicare insomma. Il passaggio su carta è un gesto naturale per chi sceglie la scrittura come mezzo per comunicare: un pittore vuole organizzare mostre per far vedere ciò che ha dipinto; un musicista vuole esibirsi in un auditorium; un regista desidera vedere proiettato in un cinema il film che ha appena girato… È normale. Eppure la ‘fase periscopica’ è fondamentale, direi vitale: è un momento romantico, faticoso, praticamente improduttivo. Ma necessario…
Leggere, leggere, leggere… Immergersi nella lettura. Assaporare generi, sottogeneri, avanguardie, retroguardie, stili personali, tentativi dimenticati dalla moda; valutare testo dopo testo lo sviluppo di una corrente, le ragioni di un autore e le variazioni del suo modo di scrivere nel tempo; fissare nella memoria trame e tecniche scritturali; catalogare le idee già consacrate da altri per non rischiare di diventare dei poveri epigoni; dare un nome alle ‘cose’; capire gli intimi meccanismi che fanno funzionare un testo e non solo emozionarsi dinanzi a una propria presunta ‘opera’ da gettare in pasto a un pubblico acritico. Esercitarsi all’umiltà. Guardarsi intorno, dal periscopio: per capire come è fatto il mondo prima di emergere e prendere finalmente una sana boccata d’aria marina.
Essere un autore immergente significa saper attendere sott’acqua, valutare da una quota periscopica le varie possibilità a disposizione: l’emersione in condizioni di sicurezza o la definitiva e rapida immersione verso quote più profonde per evitare il fuoco nemico (o peggio ancora, il ‘fuoco amico’). Durante la fase d’immersione le ‘pressioni’ non mancano: se il sottomarino è ben costruito saprà sopportare anche le più dure pressioni senza per questo implodere. Se lo scafo è resistente, il natante avrà la possibilità di attendere il passaggio del nemico sulla propria testa, in silenzio e a motori spenti, poggiato sul fondale marino e con poco ossigeno a disposizione. È vero, ci sono anche le ‘bombe di profondità’, i ‘motoscafi antisommergibile’, i ‘sonar’ e tante altre minacce, ma l’autore immergente conosce questi pericoli e li utilizza per diventare più forte in vista di una futura emersione. Essere un autore immergente significa allenarsi a ‘stare spenti’, saper resistere alle pressioni della finta notorietà e della vana gloria, al richiamo ingannevole del ‘presenzialismo editoriale’… Essere un immergente significa amare lo studio molto più del ‘successo’ e nutrirsi di un’esaltante solitudine ispiratrice; significa ‘riciclare’ il sapere acquisito in altre epoche, un sapere ufficioso e non monetizzato dal punto di vista ‘professionale’, per trasformarlo in ‘sapere di fatto’. Significa essere un “extraparlamentare dell’editoria” e seguire un impopolare filo invisibile ignorando dicerie, berlusconismi, analisi di mercato, gusti maggioritari… Confrontarsi con i grandi della storia senza perdere tempo inseguendo la ‘fuffa’ trasportata dal vento.
C’è molto da vedere anche sott’acqua: paesaggi letterari sottomarini fantastici, forme di vita scritturale insolite, ‘canyon’ inesplorati e ‘vette’ ignorate, passaggi segreti verso mondi interiori sommersi e sconosciuti… La vita dell’autore immergente, vero elogio dell’anonimato costruttivo, non è affatto noiosa ed è decisamente più interessante: nessuno che ti costringe ad andare in giro per promuovere il nulla o per ‘battere cassa’; non ci sono scadenze da rispettare, interviste da rilasciare, premi noiosi e party di beneficenza a cui presenziare… Padroni di se stessi e del proprio tempo. Una vera pacchia!
E’ possibile vivere cento giorni da pecora e alla fine riuscire a vivere anche il tanto agognato giorno da leone?
Sentenzia l’immortale Juan Sánchez Villa-Lobos Ramírez nel film Highlander II – Il ritorno: <<La maggior parte delle persone ha a disposizione tutta una vita e la guarda scivolare via lentamente senza fare nulla di speciale. Ma se invece riesci a concentrarla in un solo momento, in un solo posto, allora puoi compiere qualcosa di glorioso…>> Ho sempre amato questa frase detta dal carismatico Ramírez, interpretato dal bravo attore scozzese Sean Connery.
Un immortale per definizione possiede tutto il tempo che desidera e in teoria potrebbe anche sprecarlo senza temere il fastidioso ticchettio di un orologio che segna il tempo trascorso: la pacata preoccupazione di Ramírez è soprattutto rivolta verso chi immortale non è… La diatriba tra quantità e qualità della Vita viene riproposta dinanzi alla morte imminente. Nel momento in cui la frase in grassetto sopra riportata viene pronunciata, una lama sta per tagliare le teste ai malcapitati protagonisti della pellicola. Il taglio della testa, per chi non conoscesse la trama del film ‘Highlander’, è l’unica vera minaccia per un immortale: se si perde la testa, nel senso anatomico del termine, ‘finalmente’ si muore! Anche un immortale, quindi, deve prima o poi fare i conti con il tempo (e con la sua possibile fine). C’è un aspetto che accomuna tutti gli esseri viventi, mortali o immortali che siano: la capacità di saper condizionare la qualità del proprio tempo. Non dovrebbe essere l’imminenza della morte a pilotare le gesta gloriose degli uomini: ogni giorno, anche senza una colonna sonora adeguata e senza folle acclamanti, dovrebbe essere ‘glorioso’ nella vita di ognuno di noi. Vivere cento giorni vestiti da pecora, ma avendo in petto un cuore da leoni! E se necessario ruggire una sola volta, tradendo la propria natura apparentemente ‘ovina’, per compiere qualcosa di ‘speciale’. Ramírez ci offre una soluzione.
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L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
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