Archivio per Grande Fratello

“Versi sciolti” e “Uomini omologati”

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 26 febbraio 2018 by Michele Nigro

Altre due “puntate” (qui e qui e ovviamente su Ebook Italia qui e qui) dell’intervista di Anna Maria Di Pietro al sottoscritto, pubblicata da Sara Lettrice su Instagram (i_libri_salvano)… Buona lettura!

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“Le Vite degli Altri” e la poetica dell’ascolto

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 15 ottobre 2014 by Michele Nigro

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dedicato a chi sa ascoltare

Ascoltare significa rischiare di aprirsi al cambiamento, dare una possibilità all’evoluzione interiore. Quando parliamo, ponendo domande come nel corso di un interrogatorio, affolliamo i nostri canali comunicativi con quesiti che nella maggior parte dei casi contengono già la risposta che desideriamo sentire. Mettersi in ascolto, invece, equivale a essere nudi, in silenzio, davanti all’ignoto che è un sorprendente maestro di nuove saggezze. Ed è proprio quello che accade nel film “Le Vite degli Altri” (Das Leben der Anderen), diretto da Florian Henckel von Donnersmarck, all’integerrimo e meticoloso capitano della Stasi, Gerd Wiesler, incaricato di spiare l’intellettuale e scrittore teatrale Georg Dreyman nella Berlino Est di un non casuale anno 1984, pochi anni prima della caduta del famigerato muro che riunì le due Germanie: troppo gustoso e sfacciato per non evidenziarlo è il riferimento al “1984” di Orwell, anch’esso caratterizzato da una storia d’amore controllata e ostacolata da un potere opprimente. Il capitano Wiesler è abituato a trattare con persone abili a mentire per paura: mentre spia Dreyman egli sa di ascoltare solo la verità; gli spiati non recitano, sono loro stessi, sono veri, e questo rappresenta un’autentica lezione di vita per chi sta all’altra estremità del filo.

Quella a cui assistiamo è la storia di una conversione laica resa possibile paradossalmente grazie a una serie di odiosi strumenti ideati dal regime proprio per prevenire (e all’occorrenza reprimere) qualsiasi tipo di conversione, di cambiamento nell’equilibrio malsano di una dittatura totalitaria che non rispetta l’individualità della natura umana. Due sono le parole chiave – “ascolto” e “scrittura” – che accompagnano questa sorprendente evoluzione, sintetizzata nei tempi cinematografici al punto tale da apparire addirittura inverosimile (una perplessità sottolineata indirettamente dal ministro Hempf quando afferma: <<Purtroppo le persone non cambiano così facilmente. Succede solo nelle commedie>>. Una convinzione presto smentita). lvda1Prima della scrittura del rapporto (o della non scrittura, della omissione come atto di protezione, del non detto che dice e anzi in alcuni momenti urla coprendo lo spazio vuoto lasciato intorno a se) vi è una fase di silenzio che permette di realizzare il vero ascolto: un ascolto così penetrante nell’intimità dell’altro, da esserne penetrati. Inconsapevolmente o forse no: spesso il desiderio di ascolto è desiderio di una verità che non riusciamo a materializzare; c’è bisogno di una voce esterna, di un “nemico” che ci dica chi siamo e di cosa abbiamo bisogno. Si parte dal voler conoscere tutto del nemico e si finisce per conoscere se stessi. Un nemico ufficialmente da spiare, controllare, di cui diffidare, bloccare se necessario in nome dell’ideologia che personalizza e nutre i suoi adepti; un nemico che lentamente “inquina” le nostre convinzioni, ci porta dalla sua parte, ci fa vedere un altro panorama di cui avevamo solo un vago sospetto. Un panorama che alla fine piace, al punto tale da difenderlo. Il “nemico del socialismo” diventa l’alleato prezioso dell’individualismo; del proprio, che era stato dimenticato negli scantinati del dovere. Un senso del dovere messo in crisi dalla consapevolezza che la “fede” nel socialismo è stata in realtà sfruttata per proteggere gli affari privati dei soliti burocrati.

vite_12Si ripercorrono gli spazi casalinghi e i dialoghi degli altri per imparare a vivere, per capire attraverso l’esperienza dell’altro quale potrebbe essere l’alternativa: si impara a “vedere” tramite l’ascolto, come fanno i ciechi che compensano il senso mancante con gli altri funzionanti; il capitano Wiesler è allenato ad essere sensibile alla vita, ai suoi segni, anche quelli insignificanti, ai messaggi che lascia tutt’intorno. Lo deve essere per difendere la patria. Il desiderio di imparare spinge colui che avverte il vuoto a sfiorare le vite altrui, quasi come a cercare una possibile osmosi. Senza copiare (o forse anche copiando, solo per un po’ all’inizio, giusto per cominciare a camminare) ma aprendo porte personali su vite embrionali tenute in serbo per momenti migliori. Dopo l’ascolto si cede alla tentazione di toccare con mano, di visitare i luoghi vissuti dagli altri, per farli finalmente propri, per assaporarne gli odori. Il libro di poesie di Brecht rubato dalla casa spiata costituisce la prova di quella penetrazione, è lo “scalpo” conquistato sul campo di battaglia con cui si pensa di controllare, conoscere e quindi possedere il nemico, ma è un gesto che contiene già una forma di curiosità che si trasformerà in complicità. Come bambini ignoranti e ingordi ci si stupisce dinanzi all’amore, alla sessualità, al dramma, alla disperazione, alla gioia, all’amicizia, alle passioni, persino alla musica e alle letture… degli altri. E in un certo modo si partecipa a tutto questo, imparando. Sperando di poter riprodurre un giorno quelle stesse condizioni esistenziali anche nella propria vita ordinata, asettica, vuota, programmata dallo Stato: persino le prostitute – patetico surrogato del sesso appassionato fatto dai due amanti spiati – sono fornite ai funzionari dall’amata DDR che provvede a tutto.le-vite-degli-altri_grande

Ed è quello che fa il poeta: sta in piedi in mezzo al mondo, che a volte lo ignora, e ascolta. Ascolta per scrivere, prende appunti per “spiare”, per vivere migliaia di vite non sue attraverso il potere “archiviante” della parola (o per riviversi e ruminare, nel caso non infrequente in cui scriva di se e della sua esistenza). Si preparano “conserve di parole” per i periodi di magra, per l’inverno, quando la vita risponde in ritardo a domande poste molti anni prima. Dal freddo verbale per la Stasi ai versi di una poesia; dagli archivi nati per “motivi di sicurezza” agli archivi poetici: l’ascolto d’ufficio diventa esercizio per l’anima. La soffitta, dove viene allestito il centro d’ascolto della Stasi, forse rappresenta il “luogo interiore” da cui viene bandito il Super-io freudiano: vi è in ognuno di noi un angolo in cui il coinvolgimento emotivo prevale sulle sovrastrutture culturali (ideologia politica, religione, famiglia…). In questa partita tra spiati e spie, tutti hanno bisogno di prendere una posizione: non si può restare neutrali a lungo; le risposte da dare a se stessi e agli altri lo esigono e il “no” auspicato da Ernst Jünger nel suo “Trattato del ribelle” diventa reale. Anche se ognuno dice no come meglio può, in base alle proprie possibilità e partendo dal proprio punto di vista.

Ma non tutti sono predisposti al cambiamento; non a tutti è dedicata “La Sonata dell’uomo buono” (Die Sonate vom guten Menschen), anche se Dreyman si chiede, forse ingenuamente: <<Come fa, chi ha ascoltato questa musica,… a rimanere cattivo?>>. Alcuni agenti della Stasi, come si vede nel film, arrivano in ritardo, appuntano lo stretto necessario sul foglio bianco che attende particolari scottanti stando all’erta sulla macchina da scrivere o si addormentano durante il turno mentre ascoltano quello che sono costretti ad ascoltare perché fa solo parte del loro noioso lavoro di routine. Stanno bene così, attendono la fine del turno di lavoro come attendono la fine della vita, non hanno bisogno di imparare nulla dalle vite degli altri, si accontentano dell’informazione preconfezionata dallo Stato, non si pongono domande e “rimangono cattivi”. E soprattutto non desiderano.

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“Masterpiece”: la scrittura ai tempi del talent show

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 19 dicembre 2013 by Michele Nigro

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Il connubio tra libri e televisione, tra scrittura e mass media, non è una novità: già altri esperimenti sono stati compiuti in passato con risultati più o meno entusiasmanti. Tradurre la cultura e l’arte in spettacolo non è sempre facile, ma l’aggiornamento apportato dalla trasmissione Rai intitolata “Masterpiece” al mondo dei format consiste nell’aver adattato, comprimendoli, i normali e lenti processi scritturali a quelli televisivi del talent show, decisamente più veloci. In altre epoche l’autore di un libro poteva rimanere anonimo o invisibile alle masse fino alla morte sia per la mancanza di mezzi comunicativi invasivi capaci di “stanare” personaggi e persone, portandoli alla ribalta, sia per rispettare quella “sacralità” un po’ costruita che avvolgeva lo scrittore, il poeta, l’artista. Qualcuno ha resistito al fascino della notorietà immediata, preservando il proprio corpo (l’immagine), e non solo la propria opinione, dalla diluizione mass-mediatica; per gli altri è valsa la regola dei famigerati fifteen minutes of fame pronosticati da Warhol. Oggi è possibile “incontrare” un autore affermato ovunque: in tv, alla radio, sui social network…

L’autore consapevole dei meccanismi comunicativi e commerciali che determinano il successo di un prodotto editoriale sa benissimo che l’isolamento è controproducente e che invece la notorietà riaccende curiosità, rianima flussi di dati stagnanti e stimola la ricerca del testo ignorato. E allora perché non estendere questa spettacolarizzazione inizialmente riservata ai “famosi” (come quelli della famigerata Isola del reality), si sarà chiesto qualche cervellone della televisione, fino a comprendere la fase embrionale del processo scritturale, coinvolgendo chi noto non è, ovvero gli aspiranti scrittori?

Il merito di “Masterpiece” è sicuramente quello di far conoscere anche a un pubblico non interessato alla scrittura, quali sono le tappe fondamentali che dividono il potenziale scrittore dal cosiddetto successo: la scelta del romanzo, il suo “debutto in società” e la selezione davanti alle telecamere, il confronto a volte spietato con gli esperti, la “prova immersiva” nella realtà da cui trarre ispirazione, la dimostrazione pubblica delle proprie capacità scritturali istantanee, e infine l’autopromozione in ascensore (elevator pitch)… Per non parlare dei piccoli ma fondamentali segreti sulla scrittura che il telespettatore interessato può apprendere dai tre giurati del talent e dal “coach” Massimo Coppola. “Masterpiece” può essere considerato, in alcuni passaggi, come una sorta di corso di scrittura creativa in versione televisiva.massimocoppola

Ogni aspirante scrittore che vive con i piedi per terra sa che dopo il momento sacro della creazione ve ne sono molti altri, più prosaici, caratterizzati da praticità, dal “mestiere”, da regole artigianali che hanno l’obiettivo di rendere il prodotto fruibile e quindi competitivo sul mercato editoriale. Durante la trasmissione si parla spesso e a ragione di “musicalità” del testo, una tra le principali caratteristiche di un romanzo, di una poesia… La produzione di un libro, hanno pensato giustamente gli ideatori di “Masterpiece”, non è in fin dei conti tanto differente da quella di una lavatrice! Un prodotto deve superare collaudi e prove estreme. Quindi perché non mostrare le varie fasi produttive e i successivi “test sulla qualità” con la scusa di un talent show?

L’idea è ottima. Eppure c’è qualcosa che non quadra.

Il primo dubbio riguarda paradossalmente l’inevitabile banalizzazione della scrittura che il programma vorrebbe invece valorizzare: a non convincermi è proprio l’utilizzo del mezzo ‘talent show’, per far conoscere da vicino il processo scritturale a un pubblico generalista, nonostante l’orario di nicchia. Se da una parte l’intento originario, decisamente encomiabile, era quello di avvicinare il grande pubblico ai segreti della scrittura, alla nascita di un libro e di conseguenza alla lettura, dall’altra si paga un prezzo squalificando proprio la scrittura che, come chi scrive sa, possiede tempi senza regole e fasi indescrivibili, cammini interiori non quantificabili dal punto di vista temporale, evoluzioni riguardanti la sensibilità di un autore che la televisione non saprà e non potrà mai raccontare o riassumere ad uso e consumo del proprio pubblico. Tempi e processi su cui tanto è stato detto e scritto in altre sedi, e che questo “X Factor” per scrittori vorrebbe sintetizzare in poco più di un’ora e mezza di programma.

La scrittura è un’altra cosa. Altro che la mezz’oretta per fare il “temino in classe”: non credo che un tema scelto da altri, dedicato a una realtà scelta da altri, sia un metodo valido per valutare la scrittura di un autore che fino a prova contraria “sente” da solo il tema a cui ispirarsi; a volte eventi vissuti sulla propria pelle riemergono sotto forma di narrazione dopo anni: in “Masterpiece” si pretende di comprimere questo lavorio impercettibile in pochi minuti televisivi. Quella imposta ai concorrenti di questo “talent letterario” è tutt’al più una prova di sintesi giornalistica scambiata per scrittura creativa durante la quale, per dovere di cronaca e non per ispirazione, l’autore deve creare storie basandosi su una realtà non scelta o comunque non vissuta in maniera naturale.

Altro che il minuto nell’ascensore della Mole Antonelliana (forse è la metafora di un’ipotetica ascesa nel mondo dell’editoria che dovrebbe motivare i concorrenti?) per convincere un perfetto estraneo famoso: come se lo scrittore fosse un rappresentante della Folletto che deve convincere la casalinga mentre gli chiude la porta in faccia, o una comparsa cinematografica determinata a farsi notare dal regista affermato per ottenere una parte importante nel film. Un autore non deve convincere ma essere se stesso: la pressione esercitata sul prossimo al fine di promuovere il proprio manoscritto deve essere naturale, quasi casuale; un lasciarsi scoprire non isterico, senza snaturarsi. Il comportamento richiesto ai concorrenti di “Masterpiece” appartiene, invece, a una moda che vorrebbe collocare l’autore di libri sullo stesso livello del teleimbonitore.

Altro che audizioni come se si trattasse del Festival di Castrocaro per parole scritte e non cantate: scrittori in sala d’attesa come dal dentista e smistati come bestiame da inviare alla catena produttiva di hamburger editoriali.

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“Lo spirito del terrorismo” di Jean Baudrillard

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 21 Maggio 2012 by Michele Nigro

Scritto in riferimento agli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, questo saggio di Baudrillard (Raffaello Cortina Editore, 45 pagine) è utile anche all’interpretazione di alcuni aspetti riguardanti i recenti fatti terroristici di Brindisi (la bomba davanti alla scuola Morvillo Falcone) e prima ancora di Genova (la ‘gambizzazione’ di Roberto Adinolfi). Quali meccanismi comunicativi convivono intorno a un atto terroristico? Il terrorismo è un gesto orribile proveniente dall’esterno della società (come se fosse una sorta di azione aliena) o è un gesto ‘allevato’ inconsapevolmente all’interno di essa? (<<… perché il male è qui, è dappertutto, come un oscuro oggetto di desiderio…>> pag. 10). Il terrorismo, che piaccia o meno, è un sottoprodotto aberrante di questa società: non proviene da mondi lontanissimi; anche le istituzioni che s’impegnano a combatterlo, coloro che s’indignano e indignandosi diffondono le notizie relative all’atto terroristico, lo tengono indirettamente a battesimo.

<<… Siamo or­mai molto al di là dell’ideologia e del po­litico. Dell’energia che alimenta il terrore, nessuna ideologia, nessuna causa, neppure quella islamica, può rendere conto. È una cosa che non mira neppure più a trasformare il mondo, che mira (come le eresie nei tempi antichi) a radi­calizzarlo attraverso il sacrificio, mentre il sistema mira a realizzarlo con la forza. Il terrorismo, come i virus, è dapper­tutto. C’è una perfusione mondiale del terrorismo, che è come l’ombra portata di ogni sistema di dominio, pronto dap­pertutto a uscire dal sonno, come un agente doppio. Non si ha più linea di de­marcazione che permetta di circoscri­verlo, il terrorismo è nel cuore stesso della cultura che lo combatte, e la frattu­ra visibile (e l’odio) che oppone sul piano mondiale gli sfruttati e i sottosvilup­pati al mondo occidentale si congiunge segretamente alla frattura interna al si­stema dominante…>> (pag. 14-15)

L’atto terroristico nasce dal bisogno ‘moderno’ di essere ovunque grazie a un gesto eclatante, di comparire nella realtà di tutti noi per veicolare un messaggio globale e prepotente. Parlo di ‘gesto moderno’ in relazione al suo svuotamento ideologico che è direttamente proporzionale al progresso dei mezzi di comunicazione gestiti da quel sistema che s’intende sconfiggere con l’atto terroristico. Usare i media per colpire il sistema che li ha creati e per restituire al sistema una parte dell’energia negativa: <<… La tattica del modello terroristico consiste nel provocare un eccesso di realtà e nel far crollare il sistema sotto tale eccesso. Tutto il ridicolo della situazione e insieme tutta la violenza mobili­tata dal potere gli si ritorcono contro, perché gli atti terroristici sono insieme lo specchio esorbitante della sua stessa violenza e il modello di una violenza simbolica che gli è vietata, della sola violenza che non possa esercitare: quella della propria morte…>> (pag. 25)

(nella foto: il presunto attentatore di Brindisi ripreso da una telecamera)

I terroristi, ancor prima di accendere la miccia o di schiacciare il telecomando per la detonazione, sanno che in pochi secondi balzeranno agli onori della cronaca e utilizzano le immagini orribili diffuse dai media per raggiungere i propri obiettivi ‘comunicativi’; al tempo stesso il sistema riutilizza altre immagini per identificare gli autori di quei gesti condannati dall’opinione pubblica. L’immagine diventa così fattore patogeno e terapia, mezzo di offesa e di difesa, oggetto terrorizzante e contributo alla giustizia: <<… Di tutte queste peripezie a noi resta soprattutto la visione delle immagini. Dobbiamo conservare questa pregnanza delle immagini, e la loro fascinazione, perché le immagini sono, lo si voglia o no, la nostra scena primaria…>> (pag. 35) E ancora, insiste Baudrillard: <<… Tra le altre armi del sistema che gli hanno ritorto contro, i terroristi hanno sfruttato il tempo reale delle immagini, la diffusione mondiale istantanea di esse. […] Il ruolo dell’immagine è fortemente ambiguo. Perché nell’atto stesso in cui lo esalta, prende l’evento in ostaggio. L’immagine gioca come moltiplicazione all’infinito e, simultaneamente, come diversione e neutralizzazione… L’immagine consuma l’evento, nel senso che lo assorbe e lo dà a consumare.>>

Delegare l’interpretazione della realtà all’immagine significa deresponsabilizzare il pensiero: <<Che ne è allora dell’evento reale, se dappertutto l’immagine, la finzione, il virtuale entrano per perfusione nella realtà? […] Ma la realtà supera veramente la finzione? Se sembra farIo, è perché ne ha assorbito l’energia, di­venendo essa stessa finzione. Si potreb­be quasi dire che la realtà sia gelosa della finzione, che il reale sia geloso dell’im­magine… È una specie di duello tra loro, a chi sarà il più inimmaginabile. […] Perché la realtà è un principio, ed è questo principio che è andato perduto. Realtà e finzione sono inestricabili e il fa­scino dell’attentato è innanzitutto quel­lo dell’immagine. […] In questo caso, quindi, il reale si ag­giunge all’immagine come un premio di terrore, come un brivido in più. […] Questa violenza terroristica non è “reale”. È qualcosa di peggio, in un certo senso: è simbolica. La violenza in sé può essere perfettamente banale e inoffensiva. Solo la vio­lenza simbolica è generatrice di singola­rità. […] Lo spettacolo del terrorismo impone il terrorismo dello spettacolo. E contro questa fascinazione immorale l’ordine politico non può nulla.>> (pag. 36/40)

Eppure l’immagine non è la realtà: ne rappresenta solo il riverbero, l’eco. L’immagine è la traccia più affidabile della realtà, la più vicina, a volte l’unica a disposizione di chi si occupa di memoria e di ricerca della verità, ma è pur sempre un artificio, un’adulterazione della stessa. In base alle immagini separiamo il Bene dal Male, scegliamo da che parte stare, decidiamo contro chi combattere, ma questo non significa che possediamo la verità. E soprattutto: il terrorismo è sempre il risultato di un’azione contro il sistema o è un evento usato dallo stesso sistema per deviare e controllare l’opinione pubblica?

L’attentatore (o gli attentatori) di Brindisi realizza un meccanismo sofisticato per causare dolore e morte, e trascura la presenza di telecamere in grado di identificarlo. Si parla, spesso a sproposito, di “Grande Fratello” e di “deriva orwelliana” ovvero di un abuso della presenza tecnologica capace di effettuare un controllo asfissiante sui membri della società. Quando, in seguito, ci accorgiamo che quella stessa tecnologia può rappresentare un valido aiuto per la giustizia o addirittura un mezzo per salvare le nostre vite, dimentichiamo gli abusi, le proiezioni distopiche, le prepotenze del sistema, le visioni fantascientifiche. Forse il problema non è il controllo in quanto tale, che può risultare paradossalmente ‘utile’: la vera deriva orwelliana è contenuta nell’interpretazione delle immagini affidata ai gestori del sistema, nella loro capacità di disinnescare la realtà e di potenziare l’impatto di determinati atti terroristici per finalità che ignoriamo: <<… Qualsiasi violenza sarebbe loro perdonata se non fosse ripresa e amplifi­cata dai media (“il terrorismo non sareb­be nulla senza i media”). Ma tutto questo è illusorio. Non esiste uso buono dei media, i media fanno parte dell’evento, fanno parte del terrore, e giocano in un senso o nell’altro.>> (pag. 40-41)

In arrivo LE DISTOPIE DI IF7!

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 4 agosto 2011 by Michele Nigro

Lo avevo preannunciato – pregustando l’evento – in un mio post di qualche tempo fa, ma ora è realtà. E’ finalmente uscito il n. 7 di IF contenente, tra gli altri, anche un mio racconto distopico… Quello della ‘distopia’ è un tema a me molto caro e la sezione saggistica sull’argomento si presenta particolarmente succulenta, come si evince dall’annuncio di seguito riportato. Insomma: un numero interessante, da leggere e collezionare.

Doppia soddisfazione per me: nel numero agostano di WIF (Worlds of IF), il supplemento on line della rivista IF, la pubblicazione di un mio (vecchio) ‘cavallo di battaglia’: LA CASA DEL GRANDE FRATELLO. Anche se WIF esce in concomitanza del ‘numero distopico’ della rivista Insolito e Fantastico, non credo ci sia una relazione tra la scelta di questo mio racconto horror (un horror massmediologico?), in cui viene tirato in ballo il ‘Grande Fratello’ orwelliano, e la Distopia analizzata nel n.7 cartaceo di IF. In occasione de “La casa del Grande Fratello”, in realtà, ho sfruttato la componente horror in generale e il cannibalismo in particolare, la presenza ossessiva di un Grande Fratello televisivo (anche se a circuito chiuso), per denunciare il ‘cannibalismo mediatico’ di questa nostra società dell’immagine, per mettere in evidenza (qualora servisse) l’ossessione televisivo-giornalistica del particolare morboso che invade il quotidiano rapporto con l’informazione ‘normale’. Quindi non c’è nulla di distopico, purtroppo: tutto è terribilmente attuale e reale.

Dal blog IF – Insolito e Fantastico

Rivista di fantascienza diretta da Carlo Bordoni:

È in distribuzione il n. 7 di IF Insolito e Fantastico dedicato alle DISTOPIE, le visioni d’incubo di un futuro possibile. In questo numero Romolo Runcini offre una sua definizione inedita del termine “Distopia”, seguita da un saggio su Aldous Huxley, un’anticipazione tratta dal terzo volume de La paura e l’immaginario sociale nella letteratura. Il romanzo industriale, di prossima pubblicazione presso l’editore Liguori di Napoli. Carlo Bordoni propone una lettura sociologica de L’Ultimo degli uomini di Margaret Atwood, mentre Domenico Gallo analizza l’Anthony Burgess dell’Arancia meccanica.
Completano la densa sezione saggistica Giuseppe Panella, Gianfranco de Turris e Riccardo Gramantieri, coprendo un percorso che va da George Orwell a Philip Dick, da H. G. Wells a Doris Lessing, da Evgenj Zamjatin a Ira Levin, passando per il Panopticon di Jeremy Bentham.

E poi i racconti di Errico Passaro, Renato Pestriniero, Gianfilippo Pizzo, Mario Farneti, Michele Nigro.

Completano questo numero un’intervista a Douglas Preston, rassegne e recensioni di Antonio Daniele, Claudio Asciuti, Vito Tripi, Walter Catalano, Carlo Menzinger e altri.

La copertina è illustrata, come sempre favolosamente, da Franco Brambilla con una tavola per “Next”. Un altro numero da non perdere!

Intanto è on line WIF, ovvero Worlds of If (http://wif2.blogspot.com), il supplemento digitale che propone anticipazioni e tanta narrativa da leggere in questa estate fantastica assieme alla rivista.

IF è distribuita principalmente in abbonamento postale. Ogni copia 128 pagine illustrate al prezzo di 8,00 euro. La campagna abbonamenti è ancora in corso: solo 30,00 euro per quattro numeri. Ai nuovi abbonati (e a quanti rinnovano) è riservata una copia omaggio del romanzo di Carlo Bordoni, “In nome del padre” (Baroni editore, 2001).

La casa del Grande Fratello

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 17 novembre 2010 by Michele Nigro

<<… Un contatto per poter confessare in modo filiale e sinistro le proprie indicibili colpe in nome della beltà, le vezzeggiate vanità ostentate, le scaltre competizioni offerte sull’altare del successo, la facilità del vivere, l’ignoranza come valore, la ricchezza che deriva dal corpo, i libri spavaldamente snobbati, la macchinosa furbizia insita nei giochi dell’immagine, la goliardica sicurezza nei confronti del mondo brutto, i calendari… Come in un’orrida sindrome di Stoccolma che precede l’oblio della morte.

E sì, perché questo era ciò che esigeva l’altro lato dello specchio: la distruzione della personalità mediatica, prima ancora del corpo. Un pentimento registrato su cassetta e imposto con il terrore derivante da un insopportabile silenzio, interrotto solo da agghiaccianti grida di dolore. L’esame di coscienza derivante dalla consapevolezza della fine esigeva tempi interiori non influenzabili dal regista occulto.

Un contatto con il proprio ego, riflettente, a senso unico e senza risposte confortanti, prima di rivolgere la propria violenta disperazione verso la fonte dell’orgoglio fisico o verso i compagni di quel viaggio allucinante.

Essere stati nominati. Ma da se stessi.>>

tratto dal racconto La casa del Grande Fratello

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