Seconda edizione (ebook e cartaceo) dedicata, tra gli altri, ai lavoratori Amazon di Piacenza, “Call Center – reloaded” è un racconto social fantasy pubblicato in prima edizione nel 2013: alcune scomode verità socio-economiche e culturali riguardanti i nostri tempi, evolvono in una specie di realismo magico lovecraftiano crudele e inesorabile. Partendo da temi caldi quali il lavoro, la precarietà, la mancanza di sicurezza economica in un futuro nebbioso, l’Autore cerca di descrivere la condizione ambigua dell’uomo moderno e ne approfitta per toccare il cuore dell’inganno consumistico: il lavoro è diventato un prodotto e i lavoratori-consumatori sono dei complici più o meno consapevoli. La “liquidità baumaniana” ha preso il sopravvento in ogni settore. L’informazione carpita dai “profili”, la conoscenza dei desideri, diventano risorse preziose per un Sistema che non lascia scampo. La libertà è un’utopia luminosa ma per conoscere la verità (e quindi riscattarsi dalle regole del Sistema) bisogna avere il coraggio di scendere in zone oscure, di sé stessi e del mondo lavorativo disumanizzato. E incontrare il “mostro”…
Archivio per inner space
Illuminismo
Posted in nigrologia with tags analisi, analogie, arcaico, archeopsiche, archetipo, consapevolezza, controcorrente, creatività, creazione, decadimento, dialogo, dimenticanza, divino, dolore, esistenza, estate, evoluzione, filosofia, inner space, interiore, interiorità, istinto, luce, mente, natura umana, notte, notturno, oscurità, parole, passaggio, pensiero, poesia, poet, poeta, poetica, poetry, poietico, primordiale, processo, psicologia, ragione, ricerca, riflessione, ritorno, scrittura, scrivere, sensi, silenzio, solitudine, sperimentalismo, spirito, spiritualità, visione, vita on 21 giugno 2017 by Michele Nigro“C’è stato un tempo in cui l’oscurità apriva passaggi verso mondi spaventosi e bellissimi, orribili e affascinanti. Indicibili territori dell’anima, sfiorati con coraggio da attrezzi poveri e spuntati. Dimora della parola non detta, lì dove l’inspiegabile comincia a prendere una qualche forma spiegata. Quando ancora si credeva in un’altra natura. Anticamera poietica all’umana divinità…
Oggi, invece, è tutto così terribilmente illuminato, ordinatamente illogico, uniforme come una piazza assolata in estate. Siamo circondati da un luminoso chiasso che tutto sembra chiarire. Ecco perché odio l’estate, non la stagione ma l’approccio estivo all’esistente.
Lo vedi, all’imbrunire, quel vecchio cancello arrugginito, invaso dalle erbacce e dimenticato dall’uomo?”
“Sì, lo vedo…! Nessuno più lo attraversa ormai. Da decenni. Tra poco lo tramortirà per tutta la notte, fino all’alba, il cono di luce elettrica proveniente da quell’angolo di casa.”
“Lo so, l’osservo tutte le notti. Per te… cosa rappresenta?”
“Per me… è solo… un vecchio cancello arrugginito, invaso dalle erbacce e dimenticato dall’uomo.”
“Osservalo bene con gli occhi dell’ozio. È un cigolante passaggio a nord-ovest, verso terre insensate e vere. È poesia embrionale, che nasce da processi sconosciuti e oscuri, abbandonata tra il chiaroscuro di un lampione di provincia e senza titolo, che attende di essere scritta durante l’eclissi della ragione…”
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(foto M. Nigro, “Me by night” – giugno 2017)
Il viaggio, tra localismo ed esotismo
Posted in nigrologia with tags abitudine, analogie, antico, appartenenza, archeologia, avventura, casa, comportamento, conoscenza, consapevolezza, cultura, distanza, diversità, equilibrio, esotico, esotismo, esperienza, esplorazione spaziale, filosofia, geografia, globalizzazione, inner space, internazionale, internet, libertà, lontananza, luogo, mondo, movimento, nazionalismo, omologazione, Palermo, partenza, passato, provincialismo, psicologia, ricerca, sapienza, scoperta, società, storia, tempo, turismo, viaggiatore, viaggio, visione, web, zona on 1 Maggio 2017 by Michele Nigro♦
versione pdf: Il viaggio, tra localismo ed esotismo
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Intorno al viaggiare vi è in atto da tempo una guerra non dichiarata: quella tra visione localistica ed esotica del movimento conoscitivo compiuto dal viaggiatore. I localisti, cugini non troppo lontani dei selecercatisti, tendono a concentrarsi solo ed esclusivamente sulle bellezze locali, a frequentare luoghi dove non è richiesto alcuno sforzo linguistico per farsi comprendere dalle popolazioni “indigene”, a sviluppare in maniera anacronistica lo slogan di fascistissima memoria “Preferite il prodotto italiano” anche in ambito turistico. Gli esotisti, dal canto loro, prediligono una fuga dalla realtà, una letteratura d’evasione in movimento, sono affetti da un’esterofilia curata male e che ha origini antiche: la frammentazione linguistica pre- (e direi anche post-) unitaria; la disomogeneità geopolitica che ha reso difficile la vita ai “fratelli d’Italia”; i tanti, troppi secoli vissuti in qualità di colonizzati da chiunque si trovasse a passare per la penisola. Nonostante il tricolore calcistico, estero è bello, estero è meglio: ancora una volta siam pronti alla morte culturale e identitaria.
L’ideale, come sappiamo, sta nel mezzo: occorrerebbe un approccio anarco-individualista per liberarsi dalle catene delle due fazioni. Non appartenere a nessun luogo ma essere ovunque, e al contempo abitare il tutto senza trascurare il particolare, conoscere il locale e il lontano da noi, apprendere “La distinzione / e la lontananza” (cit.), integrarli in un discorso sapienziale a chilometro zero. Evitare il viaggio vissuto come mero spostamento fisico, ma al tempo stesso non trincerarsi dietro a pigrizie culturali anchilosanti. Non concentrarsi né sul dito, né sulla Luna, ma sul gioco di sovrapposizione tra oggetti distanti che mai s’incontreranno, se non nell’immaginazione di chi crea analogie. E si scorge in questa pratica un profondo senso di libertà: l’unica possibile, in grado di sconfiggere la nostra limitatezza, il nostro essere finiti in quanto umani e confinati in un arco temporale insignificante.
Perché vi può essere tanto esotismo anche nelle cose locali, si può andare lontano restando in zona, così come ci può capitare di recuperare il nostro senso di appartenenza viaggiando in luoghi impensati, proprio mentre cerchiamo di dimenticare il punto di partenza e la nostra quotidianità. La filosofia low cost del facile spostamento ha azzerato la lentezza dell’avvicinamento, un tempo prerogativa di camminatori, naviganti e pensatori perdigiorno. Il web, la rete, non ha unito il mondo, lo ha solo omologato e reso l’ingresso a stanze lontane più rapido e facile. Ed è una grande comodità tutto questo! Nulla da eccepire… Le parti che compongono il mondo fisico e quello conoscitivo sono già in connessione da secoli, ma lo abbiamo dimenticato perché nel frattempo la conoscenza analogica è stata sostituita da quella digitale, più veloce ed efficace, che ha appiattito o sotterrato certi percorsi umani divenuti pura archeologia. La rete ha incentivato l’esotismo sì, ma quello errato: ci si illude di essere andati fuori ma in realtà siamo rimasti fermi nella casella iniziale del gioco, perché certe scoperte si compiono sulle lunghe distanze, quelle vere, e a distanza di tempo. Solo in fase di ritorno, come accade in vecchiaia dopo una vita di strade battute, ritornando a essere localisti senza perdere gli odori del mondo acquisiti nel corso di numerosi viaggi, si realizza il confronto che istruisce. Lo sguardo di un localista che è stato esotista e ha viaggiato con saggezza, sarà sempre più ampio e ricco della visione limitata di chi si rinchiude nella roccaforte della valorizzazione dei prodotti tipici locali.
The Giver – Il mondo di Jonas
Posted in nigrologia with tags 1984, amore, analogie, atarassia, bellezza, cambiamento, cinema, cinematografia, consapevolezza, contaminazione, controllo, critica televisiva, distopia, dittatura, emozione, equilibrio, esistenza, eugenetica, eutanasia, evoluzione, fantascienza, fantascienza sociologica, film, fuga, futuro, generi letterari, George Orwell, ibridazione, inner space, interiorità, istinto, liberazione, libero arbitrio, libertà, libri, lotta, memoria, pace, politica, popolo, post apocalittico, potere, psicologia, quest, recensione, ricerca, ricordi, rivoluzione, romanzo, sci-fi, science fiction, sentimento, sf, sistema, società, storia, umanità on 11 aprile 2017 by Michele Nigroversione pdf: The Giver – Il mondo di Jonas
Una delle caratteristiche più frequenti nei recenti film di genere fantascientifico è senza alcun dubbio il processo di ibridazione da cui nascono: l’originalità, sempre più rara, è stata sostituita da più sicuri incroci tra porzioni di precedenti pellicole di successo (anche di generi differenti), come in una sorta di grande esperimento di ingegneria genetica adattata alla cinematografia. Lungi da me il voler giudicare come negativa questa tecnica d’ibridazione, che nella maggior parte dei casi fornisce risultati gradevoli, sarebbe tuttavia interessante analizzarne – in altra sede e in maniera più approfondita – l’origine, gli obiettivi, le tecniche narrative che utilizza per rendere credibile il risultato finale: si tratta di mancanza di idee come accennavo all’inizio? Voglia di “contaminazione” tra generi? Sperimentalismo transmediale libro-film? Sta di fatto che questi film derivano quasi sempre da altrettanti romanzi, quindi l’ibridazione avviene a monte. È letteraria.
Non sfugge a tale fenomenologia il film intitolato The Giver – Il mondo di Jonas (tratto dal romanzo The Giver – Il donatore di Lois Lowry): l’accostamento più facile da fare sarebbe quello con il film Hunger Games, ma scavando in profondità è interessante rilevare quante altre analogie meritano di essere scoperte e analizzate. La storia contenuta nel film di Phillip Noyce ha letteralmente “rubato” l’idea della riscoperta dei colori (e delle emozioni) a un altro grande film sottovalutato: Pleasantville. L’assegnazione di mansioni al compimento del 18° anno d’età assomiglia alla divisione in fazioni presente nel romanzo Divergent di Veronica Roth (dal momento che il romanzo della Roth è del 2011, mentre quello di Lowry è del 1993, sarebbe il film Divergent ad avere un “debito” con The Giver – Il mondo di Jonas; anche se entrambi i film sono del 2014!). L’estirpazione delle emozioni dall’animo umano è un chiaro riferimento al film Equilibrium di Kurt Wimmer; la società quasi apatica, senza classi e senza memoria di The Giver ricorda un po’ quella degli Eloi di H. G. Wells; l’iniezione mattutina per debellare gli impulsi sessuali e sentimentali è l’equivalente, in termini di controllo sociale, dell’assunzione di soma ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley; l’amore controllato (e inibito) tra uomo e donna non può non rievocare il rapporto proibito tra Winston e Julia nel celebre romanzo 1984 di George Orwell. Per non parlare della deriva eugenetica, presente in numerose opere letterarie e cinematografiche fantascientifiche. Interessante il riferimento antiabortista (i bambini non conformi allo standard vengono “congedati”: un modo pulito per dire uccisi) e quindi antispartano contenuto nel messaggio filmico. Riferimento che potrebbe essere esteso anche al tema delicato e attuale dell’eutanasia: quando una società legifera sulla nascita, sulla morte e sui sentimenti ed emozioni contenuti nell’intervallo di tempo compreso tra questi due momenti, può definirsi libera? Sembrerebbe chiedersi la voce narrante di questa storia. Anche se, come accade nella realtà, non è la condizione esistenziale in sé ma la necessaria presa di coscienza a fare la differenza in termini di azioni da intraprendere.
L’idea di una società distopica “con il trucco” non è originalissima: nella maggior parte dei casi si tratta di società post-apocalittiche, perché deve esserci sempre un evento passato sconvolgente – una guerra, un’epidemia, una quasi estinzione – per far cambiare rotta all’umanità e per farle scegliere un nuovo inizio basato su scelte radicali applicate da un’oligarchia. Come a voler dire: “abbiamo sbagliato, è vero, ma da oggi in poi si riga dritto, con nuove regole e guai a chi sgarra!” Innumerevoli sono gli esempi, fantascientifici e non, letterari e cinematografici, di società apparentemente perfette ma che nascondono regole di vita disumane e innaturali: The Island film di Michael Bay, L’uomo che fuggì dal futuro (THX 1138) di George Lucas, La penultima verità (The Penultimate Truth) romanzo di Philip K. Dick, The Truman Show film di Peter Weir, La fuga di Logan (Logan’s Run) film di Michael Anderson, La possibilità di un’isola romanzo di Michel Houellebecq… ecc. Continuate voi: sono sicuro che avete almeno un titolo di film o di romanzo da aggiungere all’elenco!
Aperto di notte (Nattåpent), di Rolf Jacobsen
Posted in nigrologia with tags ecologia, energia, evoluzione, geografia, inner space, interiorità, involuzione, libertà, lotta, metrica, modernismo, modernità, natura, nazismo, omologazione, pessimismo, poesia, poeta, poetica, primordiale, progresso, proteste, raccolta, recensione, rivoluzione, scientismo, silenzio, società, solitudine, sviluppo, tecnologia, territorio, traduzione, umanità, velocità on 11 gennaio 2017 by Michele NigroPotremmo definire Rolf Jacobsen come “poeta ecologista”? Sì, ma sarebbe una definizione limitante. La sua critica nei confronti della moderna cultura tecnologica rappresenta solo l’aspetto socio-politico e culturale di una “protesta” che punta il dito verso un’involuzione di pensiero dell’umanità, causa di una perdita di valori scambiata per progresso. Scrivono nell’Introduzione all’edizione di LucidaMente (inEdition) di Nattåpent i traduttori Randi Langen Moen e Christer Arkefors: “Apparentemente canta l’evoluzione tecnologica, le costruzioni moderne, ma più che altro immette queste cose nuove nella sua immagine globale del mondo […] e cerca in esse bellezze e poesia tutt’altro che evidenti. Non è un segno di compiacenza da parte del Poeta ma l’espressione di una profonda paura nel suo animo: dove ci sta portando la tecnologia?” Solo una poetica del mondo potrà salvarci: nonostante le tante brutture concepite in nome di un necessario sviluppo, il Poeta c’invita con insistenza a cercare e a cercare ancora il vero senso e la vera bellezza di questo pianeta trascurato dai suoi stessi abitanti. Jacobsen diventa così poeta geografo e utilizza i luoghi del pianeta come se fossero i tratti somatici di un essere vivente, i suoi monti, le sue valli e le pianure, le ore di luce e di buio, come elementi esistenziali; perché – sempre dall’Introduzione – “… i due mondi che Jacobsen esplora [sono] quello esterno del pianeta Terra e quello interiore dell’uomo”.
Alla sua visione ottimistica del mondo, che in alcuni componimenti sembrerebbe assumere un respiro whitmaniano, all’entusiasmo nel farne parte e alla voglia di conoscerlo, alterna una certa prudenza critica nei confronti dell’evoluzione umana in chiave tecnocratica, come nella poesia O.K. – O.K.: “Ma la svolta seguente del nostro cammin / mi ha reso più pensieroso. Visto dal cielo tutto diventa piccolo / e un po’ spregevole.” E in Mai prima, riprendendo il tema dei rumori che permeano la nostra quotidianità (già affrontato in Jam – Jam) e che rappresentano un’occasione di fuga dalla sensazione di angoscia dell’uomo moderno: “Mai prima / si son dovute gridare le parole così forte / […] per far scomparire i pensieri e renderci innocui.”
Il Poeta non è critico a prescindere nei confronti della tecnologia: sono le modalità d’utilizzo e gli scopi reconditi a generare in lui una forte perplessità. Unica soluzione è continuare a decantare le bellezze del creato e i suoi lenti processi naturali da contrapporre alle moderne ed esasperanti velocità umane (Coralli); descrivere l’unicità dei paesaggi norvegesi (Nord); combattere l’omologazione e la solitudine nella moltitudine: “No, non fermate le proteste, / la forza di volontà oppure la rabbia. / Ma fate qualcosa contro la solitudine, / il gelo e la noia nel cuore” (Pressione assiale – insufficienza cardiaca).
E Rolf Jacobsen riuscì ad andare controcorrente prima di tutto con il suo modo unico di fare poesia; ancora dall’Introduzione: “Tralasciando la metrica tradizionale, Jacobsen riesce a trovare lirica nel bitume della città, nei binari della ferrovia.” E in seguito: “Rolf Jacobsen rappresenta il modernismo scandinavo, in cui una caratteristica fondamentale è la libera forma poetica dal punto di vista della metrica.”
Sebbene impegnato “sul campo” – le poesie Mai prima e Ascolta, piccolo mio scritte rispettivamente per la protesta degli artisti del 1984 e per il referendum nucleare in Svezia nel 1980 – Jacobsen non dimentica mai di coltivare la propria interiorità, di combattere per se stesso, per difendere quei valori vissuti in prima persona e minacciati dalla modernità, per riscoprire la naturalità e le peculiarità della propria terra (Jacobsen “bioregionalista scandinavo” come il poeta americano James Koller?); perché come scrive nella poesia Il paese diverso: “I tempi sono cattivi, la quotidianità vuole il suo tra-tran. / Strade affollate, sudare sangue, assilli.”
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Antropico
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di sperdute contrade
non distrae la ricerca
del segno arcaico.
Un motore a scoppio
s’alterna alla pietra
muta testimone
o miliare muschiata,
al ronzio d’insetti
e al tonfo di frutti maturi
come questioni lasciate cadere.
Sincronia tra passi e cuore
su asfalti di campagna,
i pensieri metropolitani
diluiti da elementi naturali
attendono le piogge d’autunno.
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(foto M. Nigro)
Respiro stellare
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di vino ebbre e di strada,
echi d’avi senza gloria
mi precedono nel sogno,
verso contrario alle mode
chi narrerà questi silenzi?
Se potessi respirare
la muta voce pulsante
di tutte le stelle
nella solitaria notte,
la storia umana
colorata e caduca
diverrebbe un umile
nulla
perso nel tempo.
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