
Nel cuore della mia incontenibile Napoli vi è un luogo, un po’ vico e un po’ leggenda, dove ognuno trova ciò che vuole. Il suo nome è Duchesca. Non chiedetemi quali sono i suoi confini nella città e quali oggetti si vendono, perché domani potrebbe essere già troppo tardi per aggiornarsi su ciò che hanno da proporvi. La Duchesca, più che un luogo, è una condizione mentale e solo chi ha la forza di cercare può affrontare la marea di proposte che sgorga dai meandri di questo mercato vivente.
Alle spalle di un Garibaldi indifferente che rimugina sull’unità d’Italia, sorgono disseminate le bancarelle della Duchesca ricoperte di scarpe vendute per niente, mutande, calzini, camicie improponibili, pantaloni e lampadari. E poi pentole, fiori finti, ‘pezze americane’, ferraglie e con un po’ di fortuna dischi volanti e souvenir dell’area 51 nel deserto del Nevada.
Garibaldi guarda troppo lontano per accorgersi che al suo piedistallo i disoccupati hanno appeso anche uno striscione rosso contenente la parola “… lavoro…” e che ogni giorno, quegli stessi disoccupati, bloccano una strada di Napoli per protestare contro non si sa più bene chi! Ormai…
La Duchesca risponde alla protesta con la solita e inflazionata inventiva napoletana che da secoli sfama, e forse vizia, milioni di persone…
E come sempre il tutto accade alle spalle di qualche governante: non importa se francese, spagnolo, garibaldino, monarchico o repubblicano. La gente conosce una sola parola e un solo imperativo: ‘campare’.
La Duchesca non è un luogo ‘nobile’ come il nome potrebbe far credere ai più superficiali. É una galassia di popolazioni che propone di tutto: austeri russi con il loro catalogo di residuati d’oltrecortina; polacchi che cercano di venderti vecchi cimeli sotto forma di orologi da polso prodotti nell’ex Unione Sovietica durante la Guerra Fredda; un vecchietto espone una serie di autoradio con ancora attaccati i fili elettrici delle macchine da cui sono stati ‘prelevati’, senza la necessaria benedizione del proprietario; un ucraino vende scarponi da montagna rigorosamente neri e lucidi (forse trafugati a qualche morto) e un venditore di videocassette che cerca di convincere un pensionato, con la giacca consunta e la borsa da impiegato del catasto, a comprarsi l’ultimo film porno con la focosa donnina di turno. Più in là, un marocchino che parla un perfetto napoletano presenta i suoi prodotti esotici ad alcune casalinghe curiose. Ma i super organizzati del quartiere sono e restano sicuramente i cinesi: insegne luminose con ideogrammi indicano l’entrata dei loro punti vendita dove abbondano i principali ingredienti della tradizione gastronomica cinese. In questa “China Town partenopea” ti senti lontano da casa, ma in realtà sei a due passi dalla stazione ferroviaria di Napoli Centrale.
Francesco Costa non poteva trovare titolo più giusto per il suo romanzo: “Non vedrò mai Calcutta”. Non c’è bisogno, infatti, di viaggiare perché a Napoli c’è tutto il mondo!
Come ‘militari del sesso’ in libera uscita, alcune prostitute di colore cercano tra le bancarelle un attimo per sé stesse… Prima che la notte cali inesorabilmente per ridestare i doveri della loro schiavitù.
La Duchesca non è un mercato: è di più.
Le sue diramazioni penetrano nel tessuto del quartiere rendendolo vivo, pullulante di idee, di ‘mbruogl, di calore umano e di partecipazione. La libertà di chi sopravvive contro la prigionia di chi vuole rispettare le regole: questa è la sfida lanciata dalla Duchesca verso il mondo globalizzato dalla volontà di pochi potenti.
Nei vicoli più stretti le bancarelle tappezzano il cammino rendendolo ovattato e caldo come in una enorme vagina sociale. Ti stringi alla gente e con una mano controlli il portafogli. Ma nonostante tutto cammini e cerchi. Cosa? Non si sa.
La solidarietà tra i venditori ambulanti è un esempio di patto sociale che è stipulato nel quotidiano e nel senso di appartenenza al quartiere e alle sue esigenze. Non c’è menefreghismo tra queste viuzze, ma un’energia empatica avvolge le urla dei venditori per richiamare il cliente e per far sapere al quartiere, e se serve al mondo intero, che ci sono anche loro.
Un fiume di gente chiede, si ferma, prova, discute, parla, propone, paga, conta il resto, apre la busta per ammirare l’acquisto, confronta, conforta, solidarizza, esige, prenota, soppesa, si consiglia, ripassa, indifferentemente legge i prezzi, dissente, osteggia, maneggia, corteggia, sentenzia, preme, guarda, medita, si indispone, oculatamente deprezza, disprezza, apprezza, e intanto tocca, ritocca, mette in bocca, sghignazza, chiede ancora, presiede, saluta, risaluta, fugge – “vac’ e press!” – fa l’occhiolino, ti plagia, si adagia e con maestria ti vende, ti assicura, ti garantisce, ti ripaga, ti ascolta, ti vuole bene e ti tradisce.
“Prego, prego!”; “Capo, che v’ serv?”; “Pruvatavelle: si nun v’ piace, j ccà stong!”; “Almen nù cafè?!”; “L’ultimo dei Dip Parpòll? Circat i Let Zeppelìn? M’ rispiac juagliò: cà nun vennimm suppost!”; “Cing euri! Sùl cing euri!”; “Che vulit: ricit a me!”; “Gennarì, sient a stù signor!”
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