E come Noodles alla fine del film “C’era una volta in America”, anche noi, a conclusione di un anno, non possiamo fare altro che sfoggiare il classico sorriso inebriato alla “nonostante tutto”, consapevoli che si tratta di un sorriso artificiale ottenuto con “l’aiutino”, stupefatto, inebetito, chimico, nel nostro caso alcolico visti i menù delle feste, di un disincantato sorriso d’ufficio tanto per tirare a campare, illudendoci di aver vinto per il solo fatto di essere ancora vivi. E per molti il traguardo è quello, non di essere “vivi di qualità”. Perché, proprio come per Noodles, ci sono momenti assurdi nella vita in cui il sorriso non può che essere strappato fuori in questo modo, dal sogno, dal fumo che stordisce: le naturali, e reali, vie della felicità non funzionano, anzi non esistono, essendo la felicità un miraggio inventato dal marketing e da alcuni filosofi idealisti. Perché solo l’ironia che tutto mescola può salvarci, insieme al jazz e a un buon whisky; e se la vita è ironica, perché non dovremmo esserlo anche noi?
Non importa se siamo andati a dormire presto la sera o se ci siamo nascosti nel buco del culo del mondo: la vita alla fine ci scova sempre e ci sottopone alle prove scelte da lei, perché quelle che noi vorremmo scegliere non valgono. Troppo facile, saremmo preparati e il gioco della vita – quella autentica – non si gioca con regole e fatti prevedibili, ma con le cadute e la conseguente capacità che ritroviamo in noi di sorridere di esse, soprattutto di noi caduti. Non importa come ci procuriamo tale sorriso: l’importante è riuscire a stiracchiare sul nostro viso un fottuto sorriso da epilogo, stappando champagne e augurandoci cose non desiderate.
La poesia “Non andartene docile in quella buona notte”, letta in questo video da Michele Nigro, è tratta dalla raccolta “Poesie – Dylan Thomas” ed. Einaudi 2002, a cura di Renzo S. Crivelli, traduzione di Ariodante Marianni.
È in distribuzione l’antologia di poeti contemporanei intitolata “Archetipi poetici” (AA.VV.), ideata e curata dal poeta e saggista Francesco Innella. Presente con alcuni miei componimenti, sono in compagnia dei poeti: Andreina Pilia, Vittorio Orlando, Davide Morelli, Elio Parisi, Simona Giorgi, Pier Colonna, Giuliana Campisi, Fabio Paolucci, Pasquale Ferdinando Giuliani Mazzei, e lo stesso Francesco Innella.
Nella sua dotta e interessante Prefazione, la prof.ssa Silvia Siniscalchi, ricercatrice presso l’Università degli Studi di Salerno, entrando nel merito dei singoli autori intervenuti, scrive in riferimento alle mie poesie: <<… Con i successivi componimenti di Michele Nigro, il registro poetico cambia radicalmente: incentrati sulla vuotezza di una società fagocitata dal superfluo, i suoi versi parlano di problematiche e contraddizioni della contemporaneità. Nell’assurdità di un’esistenza prona al sistema consumistico il conflitto tra natura e cultura è descritto al suo estremo confine: il ‘sonno’ dell’uomo contemporaneo, tra le illusioni di spazi alienati e l’odio verso il tempo, troverà infine compimento sui “marciapiedi della storia”…>>
<<… Ebbene questa raccolta, contraddistinta ora dalla libertà del verso, ora dalla crudezza o dal lirismo intimo dei contenuti, ora da atmosfere impalpabili, simili alle rarefazioni sonore di certa musica contemporanea, è certamente la manifestazione di una poesia che mira a esprimere sé stessa senza fini ulteriori né pretese intellettualistiche. Gli autori che la costituiscono sono liberi interpreti di una contemporaneità intrisa di solitudine, precarietà e spaesamento, oppressa dalla “insostenibile leggerezza dell’essere”, dai vuoti bagliori di una società “liquida”, alienata, bisognosa di ritrovare sé stessa, divisa tra il ripiegamento interiore e la volontà di lottare. Da qui, attraverso la poesia, il tentativo di stabilire legami profondi e ‘ontologici’ con oggetti, luoghi, climi e paesaggi ‘crepuscolari’, oppure di denunciare con forza le incongruenze distruttive e insensate della contemporaneità, tra polimetrie e isoritmie, ritmemi, suoni e immagini ricorrenti…>> (dalla Prefazione)
Ricevo e con piacere condivido alcune considerazioni elaborate a caldo dall’amico scrittore Carmine Senatore (che dal 1978 in poi, dopo che mi trasferii con la famiglia da Pompei a Battipaglia, fu mio maestro presso le scuole elementari statali “E. De Amicis”) e seguite alla lettura del mio racconto semi-autobiografico “1978 – 2018: comunicato n.7” . Stavolta non è l’insegnante che legge e valuta il “tema” del proprio alunno, ma è l’uomo che a distanza di quarant’anni, attraverso il mio scritto, – proprio come è accaduto a me scrivendolo – rivaluta seppur brevemente un’epoca storica, le sue vicende, i personaggi, il proprio vissuto personale anche dal punto di vista politico. Grazie Carmine per questa tua nota! Michele.
…
Una disamina attenta e lucida dei fatti del 1978. La cattura di Aldo Moro, conclusasi con la sua morte, l’uccisione degli uomini della sua scorta (tra i quali anche un Ricci), le Brigate Rosse e i loro comunicati, si inseriscono nelle vicende personali di un uomo “sconosciuto”, la sua tragica fine dopo la malattia, dopo le speranze e il sogno di diventare poliziotto e allontanarsi dal suo paese, da una vita difficile e forse senza futuro. Il cancro e infine la morte. Clamore per la morte dello statista e silenzio per quella di un uomo qualsiasi, che lasciava la moglie e tre bambini piccoli. Stessa situazione personale… ma quanta diversità nell’opinione pubblica.
Analisi e giustificazioni delle Brigate Rosse per il rapimento e l’assassinio di Moro, la nascita del compromesso storico, la fermezza nella trattativa per liberarlo. Quanti democristiani, quante forze oscure, interne e internazionali, furono contrari alla sua liberazione. Pagine ancora buie, fitte di mistero e che lasciano un’ombra profonda sui fatti di allora.
Ne preannunciavo l’uscita qui; ho finalmente tra le mani la mia copia del n.9 di “Frequenze Poetiche” contenente uno scritto a me particolarmente caro – “1978 – 2018: comunicato n.7” – in cui la cronaca nazionale s’intreccia, volutamente e a distanza di quarant’anni, con quella personale: un’ibridazione tra il rapimento e la morte di Aldo Moro e la malattia e la morte di mio padre (Nigro Ermanno), fatti avvenuti entrambi nel 1978. Una sovrapposizione forzata tra eventi separati da una differenza abissale per importanza storica; una contaminazione tra storia pubblica e storia privata, tra comunicati “rivoluzionari” diventati documenti storici e i ricordi individuali della micro-storia, seguendo una logica narrativa oscillante tra fenomeni ideologici appartenenti al passato e questioni sociali ed economiche presenti, ancora irrisolte, che si ripropongono circolarmente…
Guidare di notte, d’estate, finestrino aperto sul cielo stellato in alto, e su paesi e borghi illuminati in basso, galleggianti nel buio di valli senz’afa, astronavi di contrada che non decolleranno mai.
Guido piano, guido forte: forse guido un pianoforte; la musica dall’autoradio, come leitmotiv del mio perdermi quasi voluto tra strade senza lampioni, m’incoraggia a sperare in un ritorno verso casa. Sulla faccia un venticello ancora tiepido residuato dal giorno assolato, mentre ascolto la gomma della ruota mordere l’asfalto di una strada scricchiolante e viva al mio passaggio. Rari gruppetti di cartelli stradali con salvifiche informazioni, come oasi arrugginite e impallinate all’orizzonte rivelato dai fanali: il tempo di leggere, fermarsi in mezzo al non traffico, di riconoscere la direzione desiderata, e via! Convinti e solitari: ce la farò nonostante l’errore iniziale. Tutte le strade, anche quelle più “strane”, alla fine ci riportano a casa. Ei paesaggi più suggestivi li incontriamo proprio quando sbagliamo strada. O quando allunghiamo. Penso alla critica delle persone precise e puntuali: “ma hai sbagliato strada!”. A cui risponderei con un filosofico: “e chi se ne frega?”. Per fortuna sono solo e sbaglio quanto mi pare.
Complesse acrobazie su asfalti disastrati e abbandonati all’incuria della burocrazia amministrativa, senza navigatori intelligenti o un po’ stupidi, bensì “a naso”, come un tempo, tra incroci deserti e serrate chiacchiere di cicale accaldate. I fari lunghi irriverenti illuminano vegetazioni a bordo strada, gatti appostati “con occhi di bragia” per cacciare topi e lucertole, o schiacciati da auto ipnotizzanti e veloci, e già in putrefazione. Poveri mici abbagliati dalla tecnologia! A volte pigri o saltellanti cani di quartieri campagnoli, volpi raminghe che guadagnano cespugli discreti. Case con luci fioche sulla porta d’entrata, a indicare familiarità, “qui ci abitano esseri umani!”. O per dire a figli nottambuli dove infilare la chiave. Case antiche o moderne, avvolte dall’oscurità, dalla quiete di abitanti dormienti o tramortiti dalle ultime luci blu di camini catodici.
Guido piano, guido forte: forse guido un pianoforte. I tasti neri della notte si alternano a quelli bianchi di lampioni ordinati che, in attesa del nuovo sole, salvano dalla paura dell’oscuro ignoto, porzioni alternate di strada. Luce-buio, luce-buio, luce-buio… così, per chilometri. Lì dove ci sono, altrimenti ci si arrangia con la lontana luce di luna e stelle. Sotto ognuno di essi si potrebbe addirittura leggere un buon libro, ma non c’è tempo. Se abitassi qui, chissà… mi fermerei a leggere al fresco della strada notturna e deserta, sfruttando l’illuminazione pubblica, godendo del silenzio di zone dimenticate, non dico da Dio ma almeno dal vescovo, e dalla massa balneare che affolla altre strade, altri quartieri, altre città, quelle di mare. Voi, imperterriti frequentatori di terre interne senza porti, vi state perdendo la vita sociale e frizzante della costa, il pullulare tipicamente estivo di occasioni carnali, di carni che non si vendono al supermercato ma che, vive e giovani, odorano di crema abbronzante e sole al sapore di sale.
Intanto, risalendo verso la cima di colline calve per il vento costante, mi imbatto nelle luci rosse intermittenti di instancabili pale eoliche, quelle che prima, da sotto, vedevo piccole come girandole in mano a bambini di fiera: gira, gira, gira… soffia, soffia, soffia, anche di notte il vento catturato da questi mobili alberi meccanici produce energia per la comunità. Segnala, segnala, segnala! Guai se questi lampeggianti non segnalassero a notturni voli d’elicottero la presenza di quest’invenzione umana che di giorno è ben visibile, roteante e a volte sincrona come in un balletto classico. Che gran giramento di… pale, questi draghi metallici con occhi rossi intermittenti e aliti di vento senza fuoco dalle viscere dell’aria. Sì, ma la coda? Creature eleganti e schierate come giganteschi soldati controvento. Eserciti di robot con spade rotanti in servizio permanente effettivo per l’umanità e le sue esigenze energetiche. Come muti danzatori nel vento, su una gamba sola, allenati e disciplinati, muovono braccia grandi e leggiadre sulla cima del mondo.
E io, povero Don Chisciotte della Mancia campana, su un ronzino a scoppio, passando sotto le pale a vento di questa notte di luglio (pale contro cui, a differenza dell’hidalgo spagnolo, non tento nemmeno di combattere), penso a cosa accadrebbe, a me e al mio mezzo, se una di quelle pale – una sola di quelle, enormi e quindi pesanti quanto basta – si staccasse e colpisse con sfortunata precisione l’equide metallico di cui mi servo. Su quella strada in cima alla collina, poco frequentata, ritroverebbero chissà dopo quanto tempo la mia auto schiacciata, forse con i fari ancora funzionanti e illuminanti, dall’unica pala sfuggita alla corolla eolica.
Abbandonando il sicuro centro abitato, dove la festa continua tra vino e salsicce per chi pernotterà lì, sapevo a cosa andavo incontro, quali rischi avrei corso immergendomi nell’oscura periferia del borgo civilizzato e accogliente.
Guido piano, guido forte: forse guido un pianoforte… Perché la scala non musicale di questa strada che non suona, ma risuona di cicaleggi e fuochi d’artificio in lontananza per feste patronali sconosciute, mi riporta lentamente a valle, lì dove abbondano le Autostrade d’Italia: quelle lisce, con la segnaletica dipinta a terra, illuminate a giorno, piene di cartelli, pompe di benzina e bar, di svincoli, di possibilità esistenziali e di scelte geografiche.
Avanti, dunque, oh marmittico Ronzinante! Riportami a casa…
Finì così, all’alba
di un’estate indecisa,
la nostra sinistra
adolescenza
romantica e sognatrice
di zaini su strade d’idee
e mondi da costruire.
Ora che siamo adulti stanchi
neri di rabbia e disincanto
cerchiamo risposte brevi
al tramonto di una crisi eterna.
Ma tu, nel dubbio
in attesa di un nuovo sol dell’avvenire
non smettere di ammirare le mie gambe
pronte ad andare.
Isoliamo l’audio. Per un attimo, solo per un attimo, mettiamo da parte le parole struggenti, arrabbiate, diventate “storia nazionale” e ormai parte del nostro immaginario collettivo, pronunciate da Rosaria Costa (nella foto), vedova dell’agente di Polizia Vito Schifani, uno dei componenti della scorta al giudice Giovanni Falcone, ucciso durante la strage di Capaci il 23 maggio 1992. Togliamo il sonoro, “dimentichiamo” la lettera disperata ma decisa letta a Palermo dalla vedova Schifani durante il funerale degli agenti e dei due magistrati, e concentriamoci su questo volto di donna immortalato in una suggestiva foto della giornalista Letizia Battaglia. Leggiamolo; leggiamo le parole non dette…
Quello che vediamo è il volto di una donna ferita, intimamente ferita, anche se la genuina bellezza di giovane madre ventiduenne contrasta l’affiorare di indelebili segni dolorosi: il fuoco disperato è tutto dentro, è un fuoco agitato le cui lingue si manifesteranno nelle parole che in questo caso abbiamo deciso di non riascoltare.
Un “titolo laico” potrebbe essere: Madonna con occhi chiusi, in preghiera o in procinto di leggere su un foglio alcune cose da dire agli uomini della mafia, lì presenti; occhi chiusi e senza lacrime visibili perché già tutte versate, sono finite o riassorbite dalla rabbia. La bocca è semiaperta: quelle labbra stanno per pronunciare parole di perdono ma anche di condanna e di disincanto. Labbra ancora troppo giovani per restare sole; labbra strappate a una vita di coppia appena cominciata. Sono labbra che chiedono giustizia e che sembrano domandarsi “dove è finita quella vita felice promessa ai miei ventidue anni?”. Labbra di mamma che dovrà dare risposte, un giorno, a un figlio appena nato. E ai tanti figli acquisiti che incontrerà in un doveroso cammino appena iniziato.
Ma è anche un volto costretto a dividersi tra luce e ombra, un prima e un dopo lo scoppio di Capaci. Luce e ombra simili alle molte ombre e alle conquistate luci che accompagnano ancora oggi un’esecuzione di mafia diversa da tutte le altre: eclatante, spettacolare, “esagerata”. In quel tritolo mandanti ed esecutori concentrarono tutta la rabbia di una Cupola decapitata, processata, condannata, che aveva giurato di presentare il conto.
Michele Nigro alias Nigricante, il reloaded per il racconto “Call Center” e in edizione cartacea. Una metafora attualissima sul destino socioeconomico e psicosociale del nostro tempo, tra avvento irreversibile della robotica e dell’automazione, e il suo impatto reale nel mercato del lavoro non attrezzato per pilotare la mutazione in atto. A ruota libera, che ne pensi?
Non è attrezzato perché mancano (ancora?) le basi per una definizione seria e politicamente strutturata del lavoro stesso in quest’epoca di cambiamenti: così facendo il tutto viene delegato agli squali del pseudoliberismo economico. L’ideologia è scomparsa, la politica offre soluzioni da “paghetta” settimanale giusto per restare a galla dal punto di vista elettorale. Gli unici ad avere le idee chiare su come sfruttare i lavoratori sono gli aguzzini aziendali che masticano risorse umane, delocalizzano, licenziano, assumono facendo firmare contratti in bianco… Fanno i loro comodi indisturbati: e siamo arrivati ai braccialetti di Amazon per sapere quante volte vai a pisciare! Quale sarà il prossimo stadio dell’automazione e dell’efficientismo? E noi glielo lasceremo fare per esigenze impellenti? È solo il mercato del lavoro ad essere impreparato o è impreparato anche il sistema politico che dovrebbe regolamentarlo, proteggendo i cittadini che a quel sistema dà energia nelle urne? Da qui il voto di protesta dello scorso 4 marzo…
"Poesie minori Pensieri minimi"
sottotitolo: "materiali di risulta"
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ATTENZIONE: i formati MOBI-KINDLE, EPUB, AZW3, LIT,
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via e-mail direttamente all'Autore:
mikevelox@alice.it
"CALL CENTER - reloaded"
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L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
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