Archivio per mistero

Giuseppe Lippi, intervista per “Nugae” n.19

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 16 dicembre 2018 by Michele Nigro

Giuseppe Lippi

La triste notizia riguardante la dipartita del grande Giuseppe Lippi, mi induce a riproporre su questo blog un’intervista che rilasciò nel 2009 per la rivista letteraria “Nugae” n.19, l’ultimo del periodico da me diretto: un numero monotematico dedicato a “H. P. Lovecraft e la letteratura dell’orrore”.

Segue uno stralcio:

<<N. I detrattori di Lovecraft accusano lo scrittore americano di razzismo e di scarsa considerazione del mondo femminile. Accuse che trovano riscontro nei racconti del Solitario di Providence. E’ possibile giustificarlo in un certo qual modo, reinterpretarlo o preparare una difesa in suo favore?

L. Non credo ci sia bisogno di alcuna giustificazione, men che meno di difese. Quando avviciniamo gli scrittori di altre epoche storiche (comprese le più recenti) dobbiamo avere la cortesia di misurarli con il metro dei tempi in cui vissero, non il nostro. Nel caso di Lovecraft bisogna riconoscere che è stato anche scrittore razzista, o per meglio dire xenofobo: aveva paura degli stranieri. I suoi personaggi femminili sono evanescenti o negativi, è facilmente dimostrabile, ma una volta detto questo bisogna ricordare che i pregiudizi erano così diffusi nella società del suo tempo che l’atteggiamento di Lovecraft appare del tutto in linea con il sentire comune della cittadinanza bianca. Dopotutto, quello che a lui interessava era l’altro mondo, mentre di questo aveva una concezione essenzialmente letteraria. Certo, come molti autori imbevuti di teorie popolari ha trasmesso idee preconcette quando non infondate, tra cui la supremazia del sangue nordico sulle altre stirpi. Ragionando in questo modo mistico e un po’ fumoso, che gli serviva essenzialmente da difesa, può aver fatto qualche danno: a livello personale, per esempio, ritengo che sia stato Lovecraft a risvegliare il mio timore del diverso (facendomi sentire un alien a mia volta); ma la fascinazione che provo per le sue tematiche “proibite” non ne è scalfita perché la riflessione di Lovecraft sulla paura è più importante dei suoi sgradevoli effetti collaterali. Infine, per saldare il mio debito preciserò che a un lettore giovane la lettura dei suoi racconti migliori non offre solo un conforto in negativo, ma numerosi appigli positivi. Innanzi tutto nel permetterci di trovare in Lovecraft un amico, un confratello spirituale; in secondo luogo, nell’indicarci che nonostante i suoi orrori ― che forse sono semplicemente necessari ― il mondo può essere riconosciuto, esplorato e, in definitiva, apprezzato. Probabilmente non verremo mai a capo del suo mistero, eppure il tentativo va fatto ed è tanto più significativo sul piano umano quanto più l’impresa risulta difficile. Lovecraft è stato un uomo spaventato che ha svolto una ricerca nei meandri della paura: si è immerso nel terrore ed ha osato andare oltre, nel tentativo di superarlo.>>

Per leggere l’intera intervista:

intervista a GIUSEPPE LIPPI (da Nugae n.19)

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Alcune considerazioni su “1978 – 2018: comunicato n.7”

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 22 agosto 2018 by Michele Nigro

Ricevo e con piacere condivido alcune considerazioni elaborate a caldo dall’amico scrittore Carmine Senatore (che dal 1978 in poi, dopo che mi trasferii con la famiglia da Pompei a Battipaglia, fu mio maestro presso le scuole elementari statali “E. De Amicis”) e seguite alla lettura del mio racconto semi-autobiografico “1978 – 2018: comunicato n.7” . Stavolta non è l’insegnante che legge e valuta il “tema” del proprio alunno, ma è l’uomo che a distanza di quarant’anni, attraverso il mio scritto, – proprio come è accaduto a me scrivendolo – rivaluta seppur brevemente un’epoca storica, le sue vicende, i personaggi, il proprio vissuto personale anche dal punto di vista politico. Grazie Carmine per questa tua nota! Michele.

Una disamina attenta e lucida dei fatti del 1978. La cattura di Aldo Moro, conclusasi con la sua morte, l’uccisione degli uomini della sua scorta (tra i quali anche un Ricci), le Brigate Rosse e i loro comunicati, si inseriscono nelle vicende personali di un uomo “sconosciuto”, la sua tragica fine dopo la malattia, dopo le speranze e il sogno di diventare poliziotto e allontanarsi dal suo paese, da una vita difficile e forse senza futuro. Il cancro e infine la morte. Clamore per la morte dello statista e silenzio per quella di un uomo qualsiasi, che lasciava la moglie e tre bambini piccoli. Stessa situazione personale… ma quanta diversità nell’opinione pubblica.

Analisi e giustificazioni delle Brigate Rosse per il rapimento e l’assassinio di Moro, la nascita del compromesso storico, la fermezza nella trattativa per liberarlo. Quanti democristiani, quante forze oscure, interne e internazionali, furono contrari alla sua liberazione. Pagine ancora buie, fitte di mistero e che lasciano un’ombra profonda sui fatti di allora.

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Volto di donna

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 23 Maggio 2018 by Michele Nigro

Rosaria Costa Schifani

Isoliamo l’audio. Per un attimo, solo per un attimo, mettiamo da parte le parole struggenti, arrabbiate, diventate “storia nazionale” e ormai parte del nostro immaginario collettivo, pronunciate da Rosaria Costa (nella foto), vedova dell’agente di Polizia Vito Schifani, uno dei componenti della scorta al giudice Giovanni Falcone, ucciso durante la strage di Capaci il 23 maggio 1992. Togliamo il sonoro, “dimentichiamo” la lettera disperata ma decisa letta a Palermo dalla vedova Schifani durante il funerale degli agenti e dei due magistrati, e concentriamoci su questo volto di donna immortalato in una suggestiva foto della giornalista Letizia Battaglia. Leggiamolo; leggiamo le parole non dette…

Quello che vediamo è il volto di una donna ferita, intimamente ferita, anche se la genuina bellezza di giovane madre ventiduenne contrasta l’affiorare di indelebili segni dolorosi: il fuoco disperato è tutto dentro, è un fuoco agitato le cui lingue si manifesteranno nelle parole che in questo caso abbiamo deciso di non riascoltare.

Un “titolo laico” potrebbe essere: Madonna con occhi chiusi, in preghiera o in procinto di leggere su un foglio alcune cose da dire agli uomini della mafia, lì presenti; occhi chiusi e senza lacrime visibili perché già tutte versate, sono finite o riassorbite dalla rabbia. La bocca è semiaperta: quelle labbra stanno per pronunciare parole di perdono ma anche di condanna e di disincanto. Labbra ancora troppo giovani per restare sole; labbra strappate a una vita di coppia appena cominciata. Sono labbra che chiedono giustizia e che sembrano domandarsi “dove è finita quella vita felice promessa ai miei ventidue anni?”. Labbra di mamma che dovrà dare risposte, un giorno, a un figlio appena nato. E ai tanti figli acquisiti che incontrerà in un doveroso cammino appena iniziato.

Ma è anche un volto costretto a dividersi tra luce e ombra, un prima e un dopo lo scoppio di Capaci. Luce e ombra simili alle molte ombre e alle conquistate luci che accompagnano ancora oggi un’esecuzione di mafia diversa da tutte le altre: eclatante, spettacolare, “esagerata”. In quel tritolo mandanti ed esecutori concentrarono tutta la rabbia di una Cupola decapitata, processata, condannata, che aveva giurato di presentare il conto.

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Nostra Signora degli Alieni

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 3 ottobre 2017 by Michele Nigro

È in uscita l’antologia Nostra Signora degli Alieni contenente, tra gli altri, un mio vecchio racconto – “The Padre P.I.O. Show” – scritto durante il periodo in cui leggevo e a volte tentavo di scrivere fantascienza (o, come in questo caso, fantareligione da me ribattezzata all’epoca “rel-fi” ovvero religion fiction) e che sottotitolai ironicamente “un caso di malasantità”. Oggi non mi appartiene più questo tipo di sperimentalismo scritturale legato al genere fantascientifico, perché nel frattempo sono mutate le passioni letterarie, le ricerche e gli esperimenti che ne conseguono, ma è sempre divertente assistere a questi rigurgiti editoriali “postumi”.

La presentazione dell’antologia curata da Walter Catalano e Gian Filippo Pizzo è ufficialmente confermata per DOMENICA 12 NOVEMBRE alle ore 13 alla sala Blu del Pisa Book Festival.

front

“Nostra Signora degli Alieni”

Racconti di fantareligione

a cura di

Walter Catalano e Gian Filippo Pizzo

 

Santi e santità, libri sacri e profani,

miracoli ultraterreni e misteri della fede.

A opera di alcuni fra i più noti autori italiani di fantascienza.

 

Il Paradiso, l’Inferno e altre ipotesi sull’Aldilà. La Chiesa come Potere Temporale che estende il suo dominio oltre la Terra e oltre il Tempo, ma anche la Chiesa come Potere Spirituale che colonizza altri pianeti affrontando nuovi problemi esistenziali. Nuove scoperte scientifiche che mettono in crisi la Fede.

Questo e altro in una antologia che coniuga fantasia, teologia, religione, riflessioni sul futuro, senza tuttavia dimenticare la giusta dose di azione e avventura.

Testi di Donato Altomare, Vincenzo Bosica, Denise Bresci, Andrea Carlo Cappi, Stefano Carducci e Alessandro Fambrini, Vittorio Catani, Francesco Grasso, Roberto Guarnieri, Lukha B. Kremo, Alessandro Morbidelli, Michele Nigro, Pierfrancesco Prosperi, Franco Ricciardiello, Michele Tetro.

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I Ragazzi di via Panisperna

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 3 aprile 2017 by Michele Nigro

versione pdf: I Ragazzi di via Panisperna

Film lunghissimo, mai noioso. Nell’incipit viene descritto lo “scherzo” in stile futurista da parte di un gruppo di studenti di Fisica ai danni del “vecchio” Guglielmo Marconi, visto ormai come la personificazione di una forma di “passatismo scientifico” che non lascia spazio alle nuove scienze, alle nuove idee appena sognate e non ancora dimostrate, ai suoi giovani e scalpitanti protagonisti. Siamo in piena era fascista, il sapere e le scoperte scientifiche devono assecondare i sogni di gloria dell’uomo solo al comando e del suo impero, non c’è spazio per le farneticazioni teoriche. Eppure, invece di essere puniti dal preside Corbino, gli irriverenti goliardi vengono incoraggiati a proseguire sulla nuova strada e coordinati nelle ricerche dal professore Enrico Fermi firmeranno importanti scoperte nel campo della fisica nucleare. Accanto a Emilio Segrè, Bruno Pontecorvo, Edoardo Amaldi, si distingue per genialità e sensibilità (scambiata dalla maggior parte dei conoscenti per fragilità) la figura “misteriosa e unica” di Ettore Majorana. Due tipologie umane, due caratteri scientifici, due linee parallele che, contrariamente a quanto stabilito dall’assioma geometrico, s’incontrano spesso per poi separarsi, ma è un avvicinarsi asintotico: Majorana, pur contribuendo alle scoperte e spesso anticipandole senza tuttavia renderle pubbliche, non si integrerà mai del tutto all’entusiasmo scientifico del gruppo, ne resterà sempre ai margini.

Dal film, che segue giustamente la trama storica dei traguardi scientifici caratterizzanti un’epoca gloriosa della ricerca scientifica italiana (passando dalla radio di Marconi alla radioattività di Fermi!), emerge soprattutto la particolarità psicologica di Ettore Majorana, e non solo per il misterioso epilogo della sua storia personale quanto piuttosto perché rappresentò uno scomodo “mezzo di contrasto” scientifico e di pensiero non solo all’interno del gruppo di scienziati di via Panisperna ma anche nei confronti di un intero periodo storico delicato.

Nel film di Gianni Amelio bene è evidenziato il disagio esistenziale di Majorana che convive e spesso si scontra con il pragmatismo di Fermi e gli altri ricercatori: ma non si tratta di un disagio invalidante, anzi; l’essere un tipo silenzioso, la voglia di solitudine, le oscillazioni caratteriali, il suo schermirsi dai sentimenti, distraggono l’interlocutore dal suo essere invece un intelligente anticipatore. Un’anticipazione che non si manifesta solo attraverso una straordinaria velocità di calcolo matematico ma anche per mezzo di una visione del mondo che lo rende inevitabilmente un emarginato. Un'”emarginazione geniale” che, nonostante tutto, lo condurrà in Germania al fianco di Heisenberg… Il suo essere un critico anticipatore ebbe per alcuni il sapore dello sberleffo: i traguardi di Fermi e dei ragazzi di via Panisperna – la scoperta sbandierata degli elementi Ausonio ed Esperio, fin dalla scelta dei nomi, denunciava un’autoreferenzialità tipica del regime fascista e un entusiasmo scientista non supportato da una visione d’insieme lungimirante – furono in un certo qual modo tenuti a debita distanza dallo stesso Majorana, forse perché lo scienziato siciliano aveva già preconizzato il loro maldestro utilizzo per scopi bellici (come a breve distanza di tempo sarebbe avvenuto!).

Se fossero stati gli americani a realizzare il film, sicuramente avrebbero aggiunto qualche effetto speciale mirabolante per meglio sottolineare gli argomenti di fisica atomica: invece vi è una scena importante, nella sua estrema semplicità, che vale l’intera pellicola anche senza il supporto di effetti; quella in cui un Majorana sconvolto e paranoico spiega a uno studente impaurito, sorpreso a mettere ordine nell’aula del dipartimento di Fisica, che nel nucleo non vi sono protoni ed elettroni – come affermato dallo stesso Fermi – bensì protoni e delle non ancora definite “particelle fantasma” (ovvero i “protoni neutri”)… E poi, mostrando allo studente la punta di una matita, afferma che se la punta è il nucleo dell’atomo, bisogna immaginarsi l’intera aula occupata dagli elettroni orbitanti e non più relegati all’interno del nucleo. Le capacità visionarie di Majorana, corroborate dal calcolo matematico, sembrerebbero non voler contribuire al successo di Fermi ma sono volutamente tenute a freno: più volte nel film il personaggio di Ettore Majorana dà fuoco ai propri preziosi appunti contenenti formule matematiche in grado di dimostrare in anticipo teorie fisiche importanti a cui i suoi amici di via Panisperna giungeranno col solito distacco temporale; come a voler tacere pur sapendo, per paura di dare forma concreta alla propria consapevolezza matematica.

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Analogico

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 23 marzo 2017 by Michele Nigro

Una rinnovata

infanzia analogica

ho sognato,

racconti a corto raggio

sapienze locali

su panchine sconnesse,

un segnale scorticato

come acqua piovana

riscopre terreni ignoranti.

 

Parole dette in faccia

saliva schizzata e

contatti umani,

segugi fiutano fatti

domande da strada

e notizie lente

che vanno a vapore

metro dopo metro,

a rivivere

velocità preindustriali,

fantasie forzate

dal non visto luminoso

al di là della collina.

 

Ritornerà il mistero perduto

e avrà il sapore ingenuo

delle dolci sere di primavera

sprecate in provincia.

immagine:

Martin Lewis (1881-1962),

Relics (Speakeasy Corner)

(M.74) Drypoint, 1928

Borges e “L’invenzione della poesia”

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 10 luglio 2016 by Michele Nigro

cover

L’enigma della poesia

Nell’apprestarmi a scrivere questa breve, istintiva e poco curata recensione all’e-book delle lezioni americane di Borges, per nostra fortuna pubblicato dopo un meticoloso lavoro di recupero di un’esperienza pubblica registrata e poi dimenticata per anni nell’angolo polveroso di una biblioteca, prendo in prestito il titolo di uno dei “capitoli” che lo compongono. La poesia, nonostante le innumerevoli definizioni fornite nel corso della storia letteraria e umana, è e resta un fenomeno prevalentemente e meravigliosamente enigmatico. L’umiltà con cui Borges affronta in queste sue lezioni il “problema” dell’origine della poesia, è sintomatico dell’impossibilità di definire un processo tutto sommato “magico”. Poesia è passione e gioia, prima di tutto, prima di ogni definizione accademica; la poesia è un mistero che accade e non accade mai nello stesso modo perché cambiamo noi, il nostro linguaggio nel corso della nostra esistenza e il linguaggio da individuo a individuo, da nazione a nazione, e aggiungo io da evoluzione neurologica a evoluzione neurologica… Ma la bellezza è in agguato intorno a noi e quindi la poesia non finirà mai; ci saranno sempre uomini e donne capaci di condensarla in versi seguendo i suggerimenti della propria sensibilità. Dove per sensibilità non s’intende una certa “delicatezza d’animo” (che può sconfinare nella banalità retorica, come nel caso della famigerata rima “cuore / amore”) ma la capacità di analizzare la realtà esterna e soprattutto quella propria interiore seguendo un canone individuale unico e irripetibile. La chiave di questo mistero alchemico possiamo trovarla nella metafora: vero comune denominatore dell’invenzione poetica.

Borges, inoltre, auspica un ritorno alla poesia epica, grande assente nella letteratura contemporanea: c’è bisogno di raccontare non più attraverso il romanzo, strumento ormai decadente e spuntato nonostante le combinazioni e le contaminazioni esistenti sul mercato, ma riscoprendo l’epica come forma letteraria diversa ovviamente dalla prosa e soprattutto come occasione per riavvicinarsi alla figura dell’eroe e ai valori che egli porta in sé. Oggi l’eroe non è nient’altro che il narratore-romanziere che si presenta al lettore sotto mentite spoglie! Un tempo la narrazione di un racconto e la declamazione poetica non erano cose separate ma “alleate” nel raccontare storie; storie che sarebbero diventate eterne e non d’evasione. Borges dichiara in queste lezioni di credere in un ritorno dell’epica: e sarà il poeta il vero artefice di questo ritorno nel momento in cui si riscoprirà narratore e cantore al contempo, come accadeva in passato.

La magia della parola si manifesta attraverso il suono e il ritmo: la musica della poesia apre canali inconsci nel lettore e il “tradimento” di questa musicalità riaccende l’annoso problema della traduzione letterale e dell’autonomia del traduttore.

La poesia non è solo “parole” ma è melodia: un intreccio di suoni e di pause che si dipana nel tempo: le stesse parole che usiamo nella quotidianità possono diventare, nella poesia e grazie al poeta, elementi magici. La poesia riporta il linguaggio alla sua fonte originaria: in questo ritorno alle origini non c’è spazio per il significato, che diventa così fattore secondario rispetto alla bellezza avvertita istintivamente. Sentire e poi, forse, pensare e cercare un significato; il perché delle intenzioni del poeta. Borges non istiga all’inutile nonsense di certi sperimentalismi esasperanti ed esasperati, ma c’invita a ricercare quel senso proveniente dalla bellezza percepita a un livello intimo e primordiale, a seguire il ritmo delle parole, la loro musica; a lasciarci influenzare dalla capacità di persuasione del poeta e non dalla sua puntualità nello spiegarsi. La poesia non spiega e le metafore non hanno bisogno di essere credute.

Altro mito da sfatare – avverte Borges – è quello riguardante la presunta facilità del verso libero: la libertà non deve mai essere confusa con una sorta di “libertinismo” poetico, e la disciplina richiesta dal verso libero non riguarda noiose questioni metriche bensì la fedeltà alla propria immaginazione che non deve mai essere offesa da inutili fioriture. Non smettere mai di credere nell’idea profonda che c’è dietro al racconto poetico e restare fedeli a questo concetto è più arduo che cercare rime. Ignorare con coraggio la storia della letteratura, che a volte può essere dannosa, e puntare tutto sull’eternità della bellezza che non può essere storicizzata. Non credere nell’espressione bensì nell’allusione delle parole; “sentire” e non “capire” mentre si scrive.

Dimenticare se stessi e seguire la musica che alberga nelle parole.

Logiche autunnali

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“Lungo il transito dell’apparente dualità
la pioggia di settembre
risveglia i vuoti della mia stanza”

(“Nomadi”, Juri Camisasca)

 

Logiche autunnali

La gioia perversa del declino

Che cos’è l’autunno se non un’anti-primavera, una meta-stagione, un video reverse della natura, un’idea per canzoni e poesie, l’attesa gioiosamente malsana di un periodo sospeso senza energia e senza speranza, il movimento rallentato verso l’angolo spento di un ciclico andare?

Le ingenue illusioni primaverili e le forzate previsioni generate da un ottimismo solare lasciano il posto a un’assoluta e salvifica mancanza di pretese, non priva di fede: si attende il nulla con fiducia, il letargo dell’iniziativa con un’operosa umiltà, la contemplazione di un’apparente morte stagionale che invece è vita, sobria e sfornita di annunci vacanzieri.

Veni l’autunnu
scura cchiù prestu
l’albiri peddunu i fogghi
e accumincia ‘a scola [1]

Vi può essere felicità nell’immagine statica di muti rami spogli?

Mentre la primavera è un tempo durante il quale il corpo e la mente si preparano all’azione indispensabile e vincente, alla sensualità che previene i rimpianti per le occasioni perse, citate ne “Le passanti” di Fabrizio De André, l’autunno è la stagione del libero arbitrio, dell’atarassia e del disincanto: si può scegliere di seguire l’assopimento pre-letargico dettato dal momento o coltivare una non richiesta intraprendenza fuori tempo.

La sorpresa che possiamo offrire a noi stessi consiste nel traslare una vitalità scontata e pubblicizzata – silenziosamente ma con piglio inesorabile, mentre le foglie cominciano a cadere preannunciando la periodica fine di un necessario slancio riproduttivo – dall’epoca della linfa bollente a quella del freddo esistenziale che nasconde gallerie di ghiaccio percorse a sorpresa dall’aria calda di un’insospettabile passione. La scelta, compiuta in una fase durante la quale – a differenza dell’estate – nessuno pretende niente dagli altri, è più autentica, non sottoposta a pressioni dogmatiche travestite da favorevoli previsioni del tempo che inducono all’impresa.

Ho tentato di vivere ad oltranza

superando la capacità genetica a gioire

ricevuta in eredità dal caso

ma era ridicolo quello strafare inquieto

con cui tradivo la mia natura silente.

Scelsi uno sguardo corrucciato a coprire

la felice verità invisibile agli occhi dell’ovvio,

sviando il giudizio di masse superflue

con rari sorrisi come caramelle per stolti. [2]

L’uomo autunnale, lasciandosi forgiare dal silenzio che ama e cerca, pregusta la landa gelida del futuro imminente di cui sarà protagonista incontrastato il Generale di napoleonica memoria: egli, l’uomo dell’equinozio d’autunno, sorride dinanzi allo schermo grigio e uggioso dell’inverno intravisto all’orizzonte, lì dove altri rabbrividiscono, s’intristiscono, foto-deprimendo il loro ego, rifugiandosi in un nuovo e lontano miraggio primaverile, prigionieri di un ciclo meteorologico senza fine (nonostante, a dire di qualche cittadino non avvezzo alla campagna, non ci siano più le mezze…).

L’autunnalità non è mai stata solo una condizione meteorologica: perché, come recita il titolo di una canzoncina di Dear Jack, “La pioggia è uno stato d’animo”. È realmente autunno solo quando è autunno in te! Ci siamo convinti del fatto che siano le intemperie a influenzare la nostra interiorità emotiva – il che per alcuni, i meteoropatici ad esempio, e nella fattispecie i cosiddetti “depressi invernali” affetti da SAD (Seasonal Affective Disorder), è anche vero – mentre invece è esatto il contrario: vi può essere una “felicità perversa” (perversa per i discepoli della Dea Melanina) in un giorno senza sole, nel rumore della pioggia (“… Odi? La pioggia cade/su la solitaria/verdura/con un crepitío che dura/e varia nell’aria/secondo le fronde/più rade, men rade…” [3]), in un bosco innevato, nei lampi notturni come flash provenienti dalla macchina fotografica di un dio pronto a immortalare l’umana caducità, nell’impari lotta metropolitana a suon di soffiatori e rastrelli contro le feuilles mortes [4] simili a pensieri rinsecchiti raccolti alla fine di un’estate, nel vento forte che prepotentemente s’incunea nelle narici al punto da farci pensare – in preda a un inebriante senso di rianimazione – di non aver mai respirato fino ad allora… Felicità per un peggioramento del meteo che non metta a rischio, sia chiaro, l’incolumità degli abitanti di un territorio, come accade troppo spesso a causa di una trasandatezza amministrativa che sfocia in un dissesto idrogeologico mortale!

Vuoi mettere una giornata uggiosa

nuvole nere in cielo

minacciose e severe come matrigne

con la solare prevedibilità dell’io estivo?

Vorresti paragonare i misterici scrigni

e le magiche elucubrazioni

di un pomeriggio desolato e grigio

con i vortici popolosi delle feste?

“Datemi un temporale

una biblioteca

un gatto nero

… e vi trasmuterò il mondo!”

Un’acquosa aria elettrica

m’invita ad esplorare

i cauti incubi del quotidiano.

Vi ho mai parlato dei danni

che i raggi solari dell’ingenuo

mi causano sulla pelle dell’anima?

Lo spirito casalingo del fuoco

illumina i sapienti libri eterni,

lontano dai percorsi consueti

di un borghese “dì di festa”.

E speriamo che piova ancora. [5]

L’uomo delle solitarie passeggiate su strade di foglie morte ricerca la vita in quei luoghi in cui la maggioranza dei suoi simili ha smesso di cercarla, perché così è stato insegnato loro dal pratico buonsenso di un immaginario collettivo limitato.

E mi piaceva camminare solo
per sentieri ombrosi di montagna,
nel mese in cui le foglie cambiano colore,
prima di addormentarmi all’ombra del destino… [6]

La soddisfazione derivante da un’apparente stabilità esistenziale e la voglia di intraprendere un nuovo cammino a volte sono incompatibili: per cominciare una ricerca (fosse anche solo una quest vissuta nella nostra mente!) occorre avere il coraggio di mettersi in discussione, abbandonando le proprie comode certezze:

No, cosa sono adesso non lo so,
sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso.
No, cosa sono adesso non lo so,
sono solo, solo il suono del mio passo. [7]

E l’inizio di un autunno è il momento propizio per entrare in crisi (dal latino crĭsis, dal greco κρίσις – krísis: “decisione”, “scelta”, “giudizio”, “separazione”…) perché:

Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull’età,
dopo l’estate porta il dono usato della perplessità…
Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità,
come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità… [8]

Un’esistenza rallentata ma rigogliosa pullula nei silenziosi sottoboschi tramortiti dai primi freddi mattini, compagni di soli pallidi e senza gloria che attendono di prevalere sulle nebbie come il sole di Austerlitz.

Non fa promesse l’autunno: esso semplicemente è, prendere o lasciare (ma lasciare per andare dove? Ai Caraibi, come quelli che inseguono l’estate per paura del freddo e del fisco?); immobile come la natura in pausa sul bordo nuvoloso dell’inverno; deciso preparatore atletico per tempi duri; severo come chi ha l’ingrato compito di annunciare ai presenti che la festa è finita.

L’autunno è un “tipo serio”, tempo assertivo nonostante il suo essere congiunzione, ma dotato di dolcezza e di comprensione infinite: ti lascia prendere le ultime cose da terra, ti attende sull’uscio, ti fa preparare le valigie con calma, senza la nevrosi dei viaggi estivi, mentre ti illustra con voce sussurrata il programma per i mesi successivi, ovvero mentre ti rivela che in realtà non c’è alcun programma, perché la vocazione dell’autunno è quella di essere zona sospesa dell’andare pubblico, angolo privilegiato per la riflessione che precede il cristallizzarsi degli intenti, attimo transitorio – e non ancora del tutto incantato – verso il gelo definitivo, nel corso del quale prendere le ultime decisioni sfuggite all’afoso caos agostano.

Sembra che ti metta fretta con la sua presenza: l’anno in fin dei conti è agli sgoccioli; ma l’autunno ti lascia libero dinanzi all’inesorabilità del nulla e della morte. Vuole che l’incontro tra te e l’infinito sia onesto e concreto, voluto anche se inevitabile; disintossica il ritmo della vita dalle frivolezze estive per far compiere all’uomo la sua scelta in maniera meditata ed equilibrata.

L’estate sta finendo e un anno se ne va,
sto diventando grande: lo sai che non mi va [9]

In realtà è bello invecchiare (“…Viva la Gioventù,/che fortunatamente passa,/senza troppi problemi…” [10]); o meglio: è bello raggiungere un’età – diversa per ognuno – in cui saggezza e possibilità di azione, esperienza e progettualità, siano in perfetto equilibrio. Saper convertire il “diventare grandi” da condizione opprimente a ottima opportunità, questo è o dovrebbe essere l’obiettivo del crescere. La fine dell’estate non deve essere vissuta come una feroce deprivazione da parte del tempo, bensì come una parentesi durante la quale analizzare in piena libertà e serenità il cammino compiuto, per raccogliersi in vista di nuove possibilità. E l’autunno, che segue questa fine, è il periodo ideale – più della primavera – per ricominciare: come accade durante l’imbrunire (… clemente è l’imbrunire/balsamo serale per animi piagati… [11]), è il momento in cui, liberati dalla morsa dei raggi solari, ci si confida di più, mimetizzati dalla semioscurità.

Poche le cose che restano alla fine di un’estate
La quiete dei colori autunnali si rifletterà sulle strade e sugli umori
Come il dolce malessere dopo un addio. [12]

Le carni espanse e sguaiate, cotte al sole dell’assurdo, rientrano nei ranghi di un’estetica composta; la mente spiaggiata su orizzonti impropri si ricompone pian piano, cercando pensieri semplici e familiari. L’umanità reduce dai flussi migratori del consumismo (in antitesi scaramantica a quelli recenti per disperazione, fame e guerre), spinta da paure ancestrali riproposte dalla saltuaria consapevolezza della sua precarietà su questo pianeta, comincia a trasformare e conservare i frutti raccolti dall’edulcorato entusiasmo estivo. L’uomo-conserva, adoperando barattoli e cotture prolungate, batte in ritirata accampandosi tra le mensole di una dispensa interiore, mentre l’uomo autunnale avanza con vitalità e passo coraggioso sotto le prime dolci piogge, come se si apprestasse a vivere l’occasione irripetibile e fanciullesca di una gelida estate.

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“Hikikomori” su Storie Bizzarre 1.4

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 3 ottobre 2014 by Michele Nigro

Un mio vecchio cavallo di battaglia, il racconto “Hikikomori: anno 2032”, un po’ scartavetrato, riparato e con qualche impercettibile colpo di pialla qua e là… ma sostanzialmente “lui”, per questo nuovo numero del quasi mensile SB, al secondo anno di vita e diretto da Salvatore Russo. Complimenti allo Staff e al copertinista Paride Bertolin.

Per sfogliare, leggere, scaricare SB sul tuo pc, clicca qui!

SB Storie Bizzarre SB 1

Alta fedeltà

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 1 Maggio 2014 by Michele Nigro

ad Hachikō

Ripetizione costante nel tempo

di uno schema d’amore casuale,

breccia tra inutili parole umane.

Legami inscindibili, senza prezzo

riaffiorano linguaggi dimenticati dell’anima,

solide scelte istintive

nel cieco caos di un’esistenza effimera.

Orologio interiore, consuetudine puntuale

scritta in muti codici primordiali,

un’irragionevole speranza combatte

contro l’evidenza del destino.

Il grazie infinito tra le specie

resistente alle stagioni e agli umori

obbedisce a ordini invisibili, spezzati solo dalla morte.

Un’incrollabile fede animale, insegnamento antico e vivo

fa vibrare le corde ancestrali dell’uomo culturale

da secoli sepolte sotto strati gloriosi di quotidiana banalità.

Hachiko

Hachikō

Embrionale

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 16 aprile 2014 by Michele Nigro

matrix-pod

Affascinante è la vista

affacciati alla finestra della giovinezza,

romantica l’atmosfera

all’inizio di una strada da affrontare.

Il cielo stellato e il mistero dei corpi celesti

l’aria fresca durante una notte di cammino

quando le fioche luci di un lontano cimitero

non fanno paura

il sentirsi parte di un progetto superiore

come abbracciati da una coperta non richiesta.

E infine la realtà, non cruda ma ancora troppo al sangue

il vuoto dopo l’esperienza ricercata,

l’inadeguatezza di un corpo desideroso d’invecchiare,

il silenzio di un’iniziativa poco usata.

Rinculare per saltare ¹

per riassaporare un nuovo inizio,

ritirarsi dalla scena di un destino evolutivo

senza essere sconfitti o vigliacchi

tendendo a livelli superiori di esistenza

tra l’incomprensione delle forme adulte.

Despecializzarsi e ringiovanire

evitare vicoli ciechi ed estinzioni

memorie nostalgiche

e comode sovrastrutture religiose.

Sbadiglia il koala che sopravvive in me,

ma la data dell’involuzione è già decisa:

embrionale sarà la ripartenza.

¹ Rinculare per saltare è il titolo di uno dei paragrafi del cap. XII, Ancora l’evoluzione: disfare e rifare, del saggio di Arthur Koestler “Il Fantasma dentro la macchina” (titolo originale ThGhost in the Machine – 1967)

Emma Saponaro

"Cancella spesso, se vuoi scrivere cose che siano degne d'essere lette." (Orazio)

il giardino dei poeti

la poesia è la fioritura del pensiero - il miosotide non fa ombra alla rosa, ciascuno la sua bellezza

Pomeriggi perduti

quasi un litblog di Michele Nigro

Mille Splendidi Libri e non solo

"Un libro deve essere un'ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi"

Poetarum Silva

- Nie wieder Zensur in der Kunst -

Leggo e cammino

Amo leggere, amo camminare e amo fare le due cose insieme (non è così difficile come sembra)

Maria Pina Ciancio

Quaderno di poesia on-line

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L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.

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