La poesia “Non andartene docile in quella buona notte”, letta in questo video da Michele Nigro, è tratta dalla raccolta “Poesie – Dylan Thomas” ed. Einaudi 2002, a cura di Renzo S. Crivelli, traduzione di Ariodante Marianni.
La poesia “Non andartene docile in quella buona notte”, letta in questo video da Michele Nigro, è tratta dalla raccolta “Poesie – Dylan Thomas” ed. Einaudi 2002, a cura di Renzo S. Crivelli, traduzione di Ariodante Marianni.
Adoro arrivare
in città sconosciute
di notte o svegliando albe.
Istanbul a mezzanotte
meravigliandomi per
muezzin insonni da
minareti illuminati
come razzi a Cape Canaveral,
Palermo dal mare
incantato dalle luci di Mondello
dimenticarsi del porto.
Padova alle 5:30, passi solitari
riecheggiano sotto i portici consunti
turbando il sonno a Sant’Antonio.
Ma fuggire, allontanarsi da qui
come un ladro non inseguito
se non da se stesso
che interrompe schemi marci,
passeggiate senza senso
la domenica sera.
Con l’ausilio delle tenebre
finalmente andare, dimenticare
il ghigno del bigotto
mentre passo accanto
a processioni di provincia
credendomi devoto.
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Guidare di notte, d’estate, finestrino aperto sul cielo stellato in alto, e su paesi e borghi illuminati in basso, galleggianti nel buio di valli senz’afa, astronavi di contrada che non decolleranno mai.
Guido piano, guido forte: forse guido un pianoforte; la musica dall’autoradio, come leitmotiv del mio perdermi quasi voluto tra strade senza lampioni, m’incoraggia a sperare in un ritorno verso casa. Sulla faccia un venticello ancora tiepido residuato dal giorno assolato, mentre ascolto la gomma della ruota mordere l’asfalto di una strada scricchiolante e viva al mio passaggio. Rari gruppetti di cartelli stradali con salvifiche informazioni, come oasi arrugginite e impallinate all’orizzonte rivelato dai fanali: il tempo di leggere, fermarsi in mezzo al non traffico, di riconoscere la direzione desiderata, e via! Convinti e solitari: ce la farò nonostante l’errore iniziale. Tutte le strade, anche quelle più “strane”, alla fine ci riportano a casa. E i paesaggi più suggestivi li incontriamo proprio quando sbagliamo strada. O quando allunghiamo. Penso alla critica delle persone precise e puntuali: “ma hai sbagliato strada!”. A cui risponderei con un filosofico: “e chi se ne frega?”. Per fortuna sono solo e sbaglio quanto mi pare.
Complesse acrobazie su asfalti disastrati e abbandonati all’incuria della burocrazia amministrativa, senza navigatori intelligenti o un po’ stupidi, bensì “a naso”, come un tempo, tra incroci deserti e serrate chiacchiere di cicale accaldate. I fari lunghi irriverenti illuminano vegetazioni a bordo strada, gatti appostati “con occhi di bragia” per cacciare topi e lucertole, o schiacciati da auto ipnotizzanti e veloci, e già in putrefazione. Poveri mici abbagliati dalla tecnologia! A volte pigri o saltellanti cani di quartieri campagnoli, volpi raminghe che guadagnano cespugli discreti. Case con luci fioche sulla porta d’entrata, a indicare familiarità, “qui ci abitano esseri umani!”. O per dire a figli nottambuli dove infilare la chiave. Case antiche o moderne, avvolte dall’oscurità, dalla quiete di abitanti dormienti o tramortiti dalle ultime luci blu di camini catodici.
Guido piano, guido forte: forse guido un pianoforte. I tasti neri della notte si alternano a quelli bianchi di lampioni ordinati che, in attesa del nuovo sole, salvano dalla paura dell’oscuro ignoto, porzioni alternate di strada. Luce-buio, luce-buio, luce-buio… così, per chilometri. Lì dove ci sono, altrimenti ci si arrangia con la lontana luce di luna e stelle. Sotto ognuno di essi si potrebbe addirittura leggere un buon libro, ma non c’è tempo. Se abitassi qui, chissà… mi fermerei a leggere al fresco della strada notturna e deserta, sfruttando l’illuminazione pubblica, godendo del silenzio di zone dimenticate, non dico da Dio ma almeno dal vescovo, e dalla massa balneare che affolla altre strade, altri quartieri, altre città, quelle di mare. Voi, imperterriti frequentatori di terre interne senza porti, vi state perdendo la vita sociale e frizzante della costa, il pullulare tipicamente estivo di occasioni carnali, di carni che non si vendono al supermercato ma che, vive e giovani, odorano di crema abbronzante e sole al sapore di sale.
Intanto, risalendo verso la cima di colline calve per il vento costante, mi imbatto nelle luci rosse intermittenti di instancabili pale eoliche, quelle che prima, da sotto, vedevo piccole come girandole in mano a bambini di fiera: gira, gira, gira… soffia, soffia, soffia, anche di notte il vento catturato da questi mobili alberi meccanici produce energia per la comunità. Segnala, segnala, segnala! Guai se questi lampeggianti non segnalassero a notturni voli d’elicottero la presenza di quest’invenzione umana che di giorno è ben visibile, roteante e a volte sincrona come in un balletto classico. Che gran giramento di… pale, questi draghi metallici con occhi rossi intermittenti e aliti di vento senza fuoco dalle viscere dell’aria. Sì, ma la coda? Creature eleganti e schierate come giganteschi soldati controvento. Eserciti di robot con spade rotanti in servizio permanente effettivo per l’umanità e le sue esigenze energetiche. Come muti danzatori nel vento, su una gamba sola, allenati e disciplinati, muovono braccia grandi e leggiadre sulla cima del mondo.
E io, povero Don Chisciotte della Mancia campana, su un ronzino a scoppio, passando sotto le pale a vento di questa notte di luglio (pale contro cui, a differenza dell’hidalgo spagnolo, non tento nemmeno di combattere), penso a cosa accadrebbe, a me e al mio mezzo, se una di quelle pale – una sola di quelle, enormi e quindi pesanti quanto basta – si staccasse e colpisse con sfortunata precisione l’equide metallico di cui mi servo. Su quella strada in cima alla collina, poco frequentata, ritroverebbero chissà dopo quanto tempo la mia auto schiacciata, forse con i fari ancora funzionanti e illuminanti, dall’unica pala sfuggita alla corolla eolica.
Abbandonando il sicuro centro abitato, dove la festa continua tra vino e salsicce per chi pernotterà lì, sapevo a cosa andavo incontro, quali rischi avrei corso immergendomi nell’oscura periferia del borgo civilizzato e accogliente.
Guido piano, guido forte: forse guido un pianoforte… Perché la scala non musicale di questa strada che non suona, ma risuona di cicaleggi e fuochi d’artificio in lontananza per feste patronali sconosciute, mi riporta lentamente a valle, lì dove abbondano le Autostrade d’Italia: quelle lisce, con la segnaletica dipinta a terra, illuminate a giorno, piene di cartelli, pompe di benzina e bar, di svincoli, di possibilità esistenziali e di scelte geografiche.
Avanti, dunque, oh marmittico Ronzinante! Riportami a casa…
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versione pdf: Guido piano, guido forte…
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(Immagine: “Don Chisciotte contro le pale eoliche”, di Agnese Leone)
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Con l’arrivo dei primi caldi
di notte
dalla finestra aperta
mi raggiungono psicosi da strada.
Uno che vagando tra i vicoli
geme un lamento “mamma! mamma!”
crisi d’astinenza dalla vita
una sirena insonne tra i miei sogni
colpi disperati di campana
schiamazzi da calura
e coltelli facili.
Amo il gelo che tutto acquieta
sotto un velo immobile
molecole indecenti si placano,
cerco l’inverno che zittisce
come severo maestro
i dolori infreddoliti del mondo.
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immagine: Night scene of Nyboder
Harald Rudyard Engman, 1958
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“C’è stato un tempo in cui l’oscurità apriva passaggi verso mondi spaventosi e bellissimi, orribili e affascinanti. Indicibili territori dell’anima, sfiorati con coraggio da attrezzi poveri e spuntati. Dimora della parola non detta, lì dove l’inspiegabile comincia a prendere una qualche forma spiegata. Quando ancora si credeva in un’altra natura. Anticamera poietica all’umana divinità…
Oggi, invece, è tutto così terribilmente illuminato, ordinatamente illogico, uniforme come una piazza assolata in estate. Siamo circondati da un luminoso chiasso che tutto sembra chiarire. Ecco perché odio l’estate, non la stagione ma l’approccio estivo all’esistente.
Lo vedi, all’imbrunire, quel vecchio cancello arrugginito, invaso dalle erbacce e dimenticato dall’uomo?”
“Sì, lo vedo…! Nessuno più lo attraversa ormai. Da decenni. Tra poco lo tramortirà per tutta la notte, fino all’alba, il cono di luce elettrica proveniente da quell’angolo di casa.”
“Lo so, l’osservo tutte le notti. Per te… cosa rappresenta?”
“Per me… è solo… un vecchio cancello arrugginito, invaso dalle erbacce e dimenticato dall’uomo.”
“Osservalo bene con gli occhi dell’ozio. È un cigolante passaggio a nord-ovest, verso terre insensate e vere. È poesia embrionale, che nasce da processi sconosciuti e oscuri, abbandonata tra il chiaroscuro di un lampione di provincia e senza titolo, che attende di essere scritta durante l’eclissi della ragione…”
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(foto M. Nigro, “Me by night” – giugno 2017)
(partenza)
Treni dolenti attesi
su banchine sospese nell’anima
in compagnia di
speranzosi tramonti,
brune sfumature di soli
svaniti ormai dal viso
tra le passate onde,
e musiche solitarie
in cerca di forze nascoste.
Il momento del distacco
da conosciute
quietudini casalinghe,
in bocca sapore di sfida
fino alla città feroce maestra
tra le braccia di un altro
ignoto familiare caos.
Dolce e malinconico
era il calore serale,
illusorio residuo all’orizzonte
sul lucido ferro binario
della sera d’Aprile.
Passaggio di consegne
sul finire del giorno,
coraggiose promesse
in viaggio verso domani.
(sera)
I colori invernali della natura
scolpiti dall’ultimo sole all’imbrunire
mi salutano, muti.
L’eleganza dell’essenza
l’umile bellezza senza gloria,
il silenzio della semplicità.
Trionfa l’anima nera
sui rumori del mondo.
(notte)
Avrò ancora bisogno di
stelle fisse in gelidi cieli,
di aria notturna
prima della partenza d’inverno.
Avrò ancora bisogno di speranza
sul finire dell’anno,
sopravvivenza agli errori.
♦
La trascorsa notte
ho sognato di scrivere una poesia,
parole piacevoli, vere come oggetti
definiti dalla luce del giorno
formavano impavide
– ed erano lì, dico sul serio, e le toccavo! –
quella rara scrittura onirica
eppure così nitida, viva e
splendente nell’oscurità.
Ho sognato di scrivere una poesia,
ma al risveglio
quei segni luminosi
tracciati sulla carta del buio
erano svaniti nella nebbia
dell’oblio mattutino.
Era bella, sì
era bella la mia poesia
e non la ricordo.
Rimane il brivido
divino della creazione,
poetica polluzione,
mi resta solo l’involucro
vuoto e dolce di un sogno
abbandonato dal cosciente
sulla soglia del dì.
♦
(immagine: “Nocturno”
Isabel Quintanilla, 1998-99)
Rosario Carello, nella prefazione a “Poesie perdute”, non usa mezzi termini: nella poesia di Roberto Miglino Gatto vi sono la stessa ansia, inquietudine e insoddisfazione presenti nei versi di quelli che un tempo furono definiti “poeti maledetti”. Squarci di vita folle; esistenzialismi registrati senza aspettarsi niente in cambio, né aiuti né condanne; “urli” degni di Ginsberg anche se meno rabbiosi e più rassegnati: appare scontato il passaggio da Rimbaud, Baudelaire, Verlaine ai poeti e romanzieri della cosiddetta beat generation impregnati di strada e di notti con sfumature situazioniste a esistere in giro (Guy Debord docet!), senza meta e speranza. Quelle di Gatto sono poesie fatte di attimi sensoriali mai fini a se stessi, che preparano il terreno a condizioni dell’anima, a interiorità disperate che forse non cercano più neanche una risposta, ma si limitano a fissare un vissuto scellerato.
… di puttana in puttana
così come vado con loro
tornerei indietro di decennio in decennio
fino ad arrivare ad un primitivismo ottuso
di selvaggio e incoscienza d’animale…
C’è bisogno di recuperare il piglio ancestrale dell’esistenza per salvarsi dal presente doloroso: ricercare una propria origine primitiva attraverso bassi istinti animaleschi, catartici e liberatori.
… Notte
e fuochi accesi
sulle strade
nero asfalto
ruvido
e tu fanciulla
al mio fianco…
Un culto, anch’esso maledetto, della strada notturna che libera e condanna al tempo stesso: i riti sessuali con donne sconosciute e selvagge; la disperazione del viandante; la degenerazione, innominabile compagna di cammino verso la dannazione…
… falsi gemiti di piacere
di notti, che vanno via.
È una poesia ricca di sensualità e di sessualità: disseminata di orgasmi, letti disfatti, piccoli seni da baciare o mordere, labbra, capelli biondi, femmine in calore… Sesso disperato, salvifico, compulsivo; sesso rubato, pagato; sprazzi di sesso cercati per noia o per ingordigia lungo i margini esterni della notte e della ragione. Sesso senza nome come a volersi fottere il mondo intero, prima che il mondo fotta il poeta; altre volte è un sesso con nome (<<… questa notte / cerchiamo un po’ d’amore […] Vada per Eva lo fa con passione>>). È un sesso preliminare o sostitutivo di una fuga solo immaginata o irrealizzabile.
Andrò via di qui
[…]
Questa città non mi dà niente
dimenticherò questa strada
dimenticherò quel bar
dimenticherò tutto di me
anche il tuo sorriso…
La notte è sempre presente: testimone fedele di gesti inconfessabili, di ubriacature, di dannazioni e di tristi solitudini a un certo punto non più confortate da “compagni” funzionanti come in passato.
… notte solitudine
[…]
… questa bottiglia non serve
mi tormenta questa bottiglia
mi tormenti tu che non ci sei.
Momenti di perdizione che lasciano spazio alla coltivazione di una fede bizzarra, a strane “preghiere” di fortuna pensate dopo una difficile notte. In questa melma c’è il tempo e la forza di aggrapparsi a Dio e di dire:
… Ti ringrazio Gesù Santo
che mi hai tirato fuori dalla fossa…
[…]
Ora fa’ che non mi perda più.
E quasi come a voler portare il figlio di Dio dalla propria parte, dissacrandolo o amandolo in modo inconsueto:
Ti ho visto
Gesù benedetto
a bere un po’ di vino
e anche tu
al Vico delle Nevi
a cercare un po’ d’amore.
Stanche membra
di vino ebbre e di strada,
echi d’avi senza gloria
mi precedono nel sogno,
verso contrario alle mode
chi narrerà questi silenzi?
Se potessi respirare
la muta voce pulsante
di tutte le stelle
nella solitaria notte,
la storia umana
colorata e caduca
diverrebbe un umile
nulla
perso nel tempo.
♦
"Cancella spesso, se vuoi scrivere cose che siano degne d'essere lette." (Orazio)
la poesia è la fioritura del pensiero - il miosotide non fa ombra alla rosa, ciascuno la sua bellezza
quasi un litblog di Michele Nigro
"Un libro deve essere un'ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi"
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Amo leggere, amo camminare e amo fare le due cose insieme (non è così difficile come sembra)
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