Questo libricino di Franco Battiato rappresenta la raccolta di tutti i testi ascoltati nell’omonimo documentario in dvd: rileggere con i propri occhi quello che è stato ‘detto’, però, ha un altro effetto. Pur essendo un libro semplice, essenziale e strutturato in maniera elementare, “Attraversando il bardo” (sottotitolo: “Sguardi sull’aldilà”) sorvola un argomento potentissimo e che riguarda ogni essere vivente, e in particolar modo l’essere vivente cosciente: la morte. Al di là delle credenze religiose, degli approcci filosofici, della predisposizione all’esoterismo, del proprio essere atei, agnostici o credenti, quello che colpisce di questo libro/documentario è il coraggio dimostrato nell’accostare, sul versante escatologico, due mondi tenuti separati troppo a lungo: quello della spiritualità e quello della scienza. Un certo tipo di ricerca ‘trasversale’ esiste da tempo: da decenni un manipolo di “fisici hippie” (per dirla alla Kaiser David) e di uomini in cerca di Dio, tentano di percorrere un cammino comune non minato da antichi pregiudizi scolastici e ciechi dogmatismi. Quello che religioni e filosofie hanno cercato di descrivere nei secoli passati, oggi la scienza – e in particolar modo la fisica quantistica, anche grazie ai progressi compiuti in ambito sperimentale – comincia a spiegarlo, adoperando modelli plausibili confortati da dati scientifici, superando un atavico pudore dettato dalla delicatezza dell’argomento che sembrava essere dominio assoluto dei presbiteri o, molto peggio, dei maghi. Anche se il linguaggio usato in ambito religioso per descrivere determinati fenomeni conserva un’impronta che in molti definirebbero “fantasiosa” (perché nel corso di certi periodi storici la rappresentazione sintetica – diciamo pure “artistica” – di antiche saggezze era molto più efficace di una loro incompleta spiegazione scientifica), e non poteva essere diversamente dal momento che in passato occorreva comunicare importanti verità a un’umanità non istruita e non avendo a disposizione dati sperimentali, ci si rende conto che molto sta cambiando: l’accesso a certe tematiche scientifiche è stato facilitato in questi ultimi tempi e quindi risulta più agevole parlare liberamente di “fisica dell’immortalità”.
Ma il cammino è ancora lungo; come ho scritto in un mio post dedicato all’opera “Telesio” di Battiato e alla teoria dell’universo ologramma: <<… Da tempo si stanno ponendo le basi, seppure in forma esoterica, per lo sviluppo di una “spiritualità quantistica”, nonostante le varie religioni di stato, prima fra tutte quella cattolica, abbiano scoraggiato e continuino a scoraggiare i propri fedeli nel compiere ricerche spirituali scomode e alternative, forse perché impaurite dalla prospettiva di perdere un potere di mediazione escogitato per soddisfare delle esigenze di natura politica ed economica. L’invenzione dell’eresia (compresa quella scientifica) è servita e serve tuttora a difendere un vacuo ritualismo che non fa progredire l’umanità di un millimetro e che solo in rari casi è collegabile a piani d’interpretazione superiore, non confondibili con un “sacro magico” fatto di improbabili interventi divini. Non a caso i cosiddetti mistici, catalogati frettolosamente come santi o nella peggiore delle ipotesi come “pazzi”, sono una rarità in tutte le religioni e dovrebbero invece rappresentare l’occasione per una vera evoluzione spirituale e scientifica. Sugli altari delle chiese, durante le celebrazioni, insieme alle sacre scritture bisognerebbe leggere anche brani tratti da testi di fisica quantistica. Forse il Dio che abbiamo imparato ad antropomorfizzare nel corso dei secoli (incolpandolo di non intervenire in sciagure umane che non capiamo) è quell’ordine implicito così difficile da raggiungere e persino da intuire. L’ingerenza basata su dogmi incancreniti, però, è più conveniente della ricerca di una verità che trascende le organizzazioni religiose. Se la ricerca fosse orientata verso livelli alti, le guerre, gli odi interreligiosi, la difesa di certi principi non negoziabili, persino le quotidiane questioni di orgoglio nelle quali ci perdiamo, diventerebbero scorie: ma la storia, anche quella privata, c’insegna che non sempre le cose vanno così…>>
“Attraversando il bardo” è un’opera che dona serenità: la consapevolezza di possedere una mente che “non ha inizio” (e che di conseguenza non ha un termine), che siamo in interazione col tutto, che la morte non è la fine ma un’opportunità straordinaria di conoscenza ed è una festa per l’anima, sono verità che la nostra cultura materialistica da sempre mantiene a una certa distanza, e che al contrario potrebbero donarci già in vita un’autentica pace interiore. Serenità e pace non illusorie o instillate per fede, ma derivanti da una nuova coscienza.
Dobbiamo riversarci interamente fuori di noi, per essere“
(dal Primo Atto)
Si legge nel Manifesto del Connettivismo: <<Noi crediamo che il mistero dell’universo sia codificato in una chiave inafferrabile e indistruttibile: l’ologramma. Il principio olografico, il modello olonomico della mente e l’olomovimento: dalla struttura della realtà ai nostri schemi di senso la percezione conosce un solo paradigma, che racchiude le istanze della relatività e dell’indeterminazione.>> Il poliedrico musicista siciliano Franco Battiato grazie al suo Telesio, opera lirica in due atti e un epilogo dal libretto originale del filosofo Manlio Sgalambro, dimostra di aver rielaborato in forma teatrale un paradigma non più confinato in ambito teorico e scientifico ma fruibile a livello pratico, adattandolo a una ben precisa esigenza artistica. L’assenza fisica degli attori sulla scena, sostituiti da proiezioni olografiche preregistrate, realizza la relatività della percezione, sorprendendo i puristi dell’unicità del momento recitativo incarnato dalla presenza, ogni sera diversa e irripetibile, di persone reali.
Ma che cosa significa essere reali? Battiato non sceglie a caso l’olografia per rappresentare scenicamente la vita e il pensiero del filosofo cosentino Bernardino Telesio, XVI secolo, che, criticando la fisica aristotelica basata su principi universali come materia, forma, sostanza, tentò di far capire ai suoi coevi la funzione principale svolta dalla percezione sensoriale nella spiegazione dei principi primi che sono alla base degli eventi naturali.
Telesio non conosceva l’olografia e non aveva a disposizione la meccanica quantistica. I sensi possono essere più importanti di una spiegazione metafisica: e quindi via dalle tavole attori e pesanti scenografie da trasportare di teatro in teatro. Battiato abdica alla materia e affida tutto all’illusione dei sensi. La scelta tecnica di questa particolare esperienza artistica si lega in maniera indissolubile ai contenuti del pensiero filosofico rappresentato. L’illusione della tridimensionalità offerta dall’olografia vince sulla falsa autorevolezza della materia. Grazie alla memorizzazione dell’informazione visiva, in seguito proiettata per mezzo di una luce laser, lo spiritus degli attori – per dirla alla Telesio! -, o meglio la loro passione recitativa, il movimento teatrale, il canto, unitamente agli allestimenti scenici, sopravvivono all’assenza fisica dei corpi e delle scenografie. Non si tratta di una semplice videoregistrazione di cui siamo consapevoli: l’ologramma sfida la coscienza disinformata sulla vera natura del visto. Come a voler dire: non è importante se sei a conoscenza della reale esistenza di quello che vedi, perché conta innanzitutto la percezione (o sarebbe meglio dire l’intuizione) dei contenuti.
Solo il suono, e quindi la musica, è un fattore cosmico primordiale: pur essendo soggetto alle stesse regole della fisica quantistica, grazie alla sua preesistenza (lo sciamanesimo druidico, e non solo, ritiene che la musica sia un elemento inscindibile dalle origini dell’universo e collegabile al biblico “In principio era il Verbo” ovvero il suono iniziale che spiega la cosmogonia) ha un posto privilegiato nell’economia scenica. Uniche presenze dotate di consistenza fisica durante la prima, infatti, sono i musicisti dell’orchestra diretti dal Maestro Carlo Boccadoro: legame sopravvissuto tra sogno e realtà, l’immaterialità del suono prodotto dal vivo fa da trait d’union tra l’ologramma e la materia umana pagante presente in sala sotto forma di spettatori ben vestiti. Il concetto di truffa viene in tal modo sostituito dal bisogno di evoluzione: il fatto di aver acquistato un biglietto per vedere ologrammi invece di attori impegnati a sudare sotto i riflettori, a cantare e a ricordare battute, deve essere accolto come una sfida filosofica lanciata alle proprie abitudini sensoriali.
Viviamo in un universo strettamente interconnesso: nessun individuo è totalmente indipendente (anzi non lo è per niente), tutto è collegato a un ordine implicito invisibile. Superare la materialità dell’attore è solo il primo passo verso la scoperta di una nuova dimensione in cui siamo, olisticamente parlando, immersi. La fisica quantistica annulla l’importanza di un io organizzato ma illusorio; la soggettività (e quindi il malsano desiderio d’interazione tra attore e spettatore) è il residuo di una presunzione meccanicistica destinata, con il tempo e con l’umiltà derivante dall’esercizio di un altro tipo di osservazione, a estinguersi. La natura, c’insegna il pensiero di Telesio, va studiata attraverso i sensi e contemporaneamente per mezzo della negazione di questi: allo stesso modo l’esperienza sensoriale dell’ologramma minaccia il dominio della materia, perché quello che conta è la connessione delle parti tra di loro e con il tutto, e non la loro presunta autonomia.
Come già annunciato qui, un mio articolo su Battiato e l’olografia, intitolato Il “Telesio” olografico di Franco Battiato e la teoria dell’universo-ologramma, è stato pubblicato sulla rivista di cultura connettivista NeXT 18 (inverno 2013).
Vi propongo di seguito un breve stralcio tratto dall’articolo. Per ordinare una copia cartacea di NeXT iterazione 18, contattare il curatore Sandro “zoon” Battisti su HyperHouseoppure acquistarla in versione ebook su Kipple.
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<<… Alla luce (laser) di quanto fin qui affermato, si potrebbe essere tentati nel fare un accostamento tra il messaggio filosofico insito nel Telesio di Battiato e il concetto di universo olografico elaborato dal fisico e filosofo statunitense David Bohm: se tutto quello che definiamo “visto” è il risultato di un processo neuronale in grado di trasformare le informazioni provenienti sotto forma di onde dagli oggetti in immagini tridimensionali catalogate come reali (vedi il modello olonomico del funzionamento del cervello ideato dal neurofisiologo Karl Pribram), chi possiede il coraggio scientifico, e direi anche filosofico, necessario per affermare che gli ologrammi di Franco Battiato sono meno reali degli attori in carne e ossa? L’informazione quantistica che accomuna tutte le componenti dell’universo rappresenta la più raffinata forma di democratizzazione attualmente esistente e l’empatia non è solo un moto sentimentale dell’anima ma possiede basi scientifiche. L’ologramma che vediamo è energia a uno stadio vibrazionale differente dalla mela che abbiamo in mano e che ci apprestiamo a mordere; ma si tratta pur sempre di energia. La stessa. Tutto nell’universo è collegato e anche il cosiddetto “spirito” è sottoposto alle regole della fisica quantistica…>>
Riprendo in toto la notizia pubblicata da Zoon sul blog connettivista Hyperhouse riguardante l’uscita dell’iterazione 18 della rivista NeXT e contenente anche il mio articolo, firmato con il consueto nickname connettivista Dottore in Niente, intitolato Il “Telesio” olografico di Franco Battiato e la teoria dell’universo-ologramma.
Iterazione di NeXT carica di riferimenti, questa, e di rimandi sottili a gran parte dello scibile umano e all’immaginario fantastico, uniti verso nuove consapevolezze che tutti, da queste parti, amiamo in ogni declinazione. L’accerchiamento di questo numero al concetto stesso che tutto è uno e che uno è tutto, che i connettivisti promulgano da tempo, è potente, senza frontiere e – so, non dovrei essere io a dirlo – con questo fascicolo di NeXT la pulsione verso un nuovo unito diviene evidente, lampante, conclamata.
Voglio essere breve con questo editoriale, che prelude a nuovi cambiamenti futuri e che vuole illustrare la corposità di questo numero 18, espressione dell’attuale stato di forma del Movimento e dei continuum che stiamo esplorando sempre più approfonditamente, sempre più lontani dal nucleo originario.
Permettetemi di ringraziare, in primis, Francesco D’Isa, che torna a illustrare le attività dei connettivisti con una selezione della sua graphic novel I., uscita nel novembre 2011 e che tanto successo ha avuto; il ringraziamento va esteso, ovviamente, all’editore Nottetempo che ha permesso quest’operazione il cui senso è ben evidente, ma le cui implicazioni scivolano sottili, come lapislazzuli, verso gli angoli estremi dell’attenzione. Cos’è I.? Dal sito dell’editore, eccovi la quarta:
Chi è I.? Chi si nasconde dietro alle tante e diverse incarnazioni che assume di tavola in tavola? Lui stesso se lo chiede e chiamando in causa le stelle e i saggi, l’amore e il sesso, la poetica e la scienza si fa seguire passo passo nella sua ricerca per cercare risposta al “quesito che lo pungola fino alla follia”, ovvero “chi – o cosa sono?”.
Se l’ispirazione di questo libro illustrato risale ai romanzi filosofici del XVIII secolo, la scelta delle immagini, dalle provenienze e dagli stili piú diversi, è affidata a un brillante montaggio di materiali grafici di pubblico dominio, cui i brevi testi a fumetto danno voce con sapiente ironia.
Vi segnalo nuovi ingressi nella line-up redazionale: voglio dare il benvenuto a Marco Rossi Lecce, Pier Luigi Manieri e Salvatore Proietti, che curano rubriche di approfondimenti sul Futurismo, sul mondo esterno al Connettivismo e sugli autori significativi della SF italica che, purtroppo, non sono più tra noi; si parla quindi delle testimonianze degli ultimi futuristi viventi alla fine dei ‘70, di Christopher Nolan e di Lino Aldani. Facendo riferimento a quest’ultimo articolo ci riallacciamo a un gran lavoro che X ha suddiviso in due parti (la prossima puntata sull’iterazione 19) intitolata, esplicativamente, Mappa del futuro – SF dal 1984 a oggi, pezzo inquadrato in un ulteriore nuovo spazio chiamato Distance. X continua anche a curare la rubrica Tempi moderni, con ulteriori approfondimenti sul mondo olografico.
7di9 ha scandagliato il continuum recente alla ricerca di significative guglie di comprensione estratte dalla quotidianità, connettivista ed esterna al Movimento, e ce ne parla in Frame e in Interazioni, e Lukha B. Kremo in Bit_Mood ci fa conoscere, o ci spiega meglio, i Throbbing Gristle, storica formazione musicale di frontiera che ha sperimentato l’esoterismo, il genere Industrial, il noise e manciate di altre discipline tutt’altro che pop.
Kosmos in HolYsTolk indaga sulle connessioni tra Connettivismo e Crespuscolarismo mentre Manex ci parla, nell’ambito dell’editoria a fumetti, di Crowdfunding e di altre facezie. Dottore in Niente discute amabilmente con noi su Il “Telesio” olografico di Franco Battiato e la teoria dell’universo-ologramma, e Logos nella sua consueta e poderosa Ermetica Ermeneutica ci racconta de La Soglia e l’Oltre nella poesia di Lars Gustafsson; Peja nel Postarchitectural Research esamina la necessità della postarchitettura di usare nella ricerca e nelle costruzioni L’antidoto immaginario. Galessio, in Avant-Garde, prende in esame il nuovo Movimento artistico denominato Loverismo, mentre in Ex-Cell Black M e Antonio Syxty (che ci onoriamo di ospitare in queste pagine, grazie ancora) analizzano Cosmopolis, il film che tante implicazioni cerebrali ha comportato nell’immaginario collettivo.
Non appena l’ologramma del maestro Toscanini posò la bacchetta da direzione sul leggio tra gli applausi del pubblico, l’olomusic si spense automaticamente facendo sparire nel nulla la Carnegie Hall di New York, e i pensieri della Rossa ripiombarono nel baratro psicologico creato dai fatti accaduti in chiesa poche ore prima. Vi sono momenti, nella vita di un individuo, durante i quali il cervello si rifiuta di affrontare immediatamente i guai che si presentano lungo il cammino e così se ne va in giro alla ricerca automatica e casuale di una soluzione, vagando nel buio, a volte guidato dal suono, con la speranza di avvistare una luce lontana, una casa accogliente per la mente, un fuoco amico scoppiettante di fortuite verità salvifiche. La musica classica eseguita dal direttore schiaffeggiato dal fascismo, però, non l’aveva aiutata.
Era vero. Pur di proteggere il programma, il Servo aveva sacrificato la vita di suo padre, il Dottor “E”, creatore del programma di eugenetica elaborato dalla FutureProg per coadiuvare segretamente esperimenti di purezza ariana. I neonazisti del Terzo Millennio ci si gingillavano da alcuni anni con grandi investimenti, provocando rigurgiti pseudoscientifici di una delle più scellerate pagine della storia umana del XX secolo, da molti pericolosamente archiviata.
Non era certamente un caso che fosse proprio la TecnoMafia berlinese a occuparsi del recupero di quel maledetto programma, già macchiato di sangue, e senza essere mai stato usato.
La morte del Dottor “E” era stata la giusta punizione per chi collabora consapevolmente a un progetto diabolico, oppure era la normale uscita di scena di un’ingenua e sfruttata pedina divenuta poco importante? Non era necessario, a questo punto, saperlo.
Ciò che di tanto in tanto la risvegliava dall’oblio in cui era immersa fin dal suo ritorno dalla Cattedrale degli Apostoli fu la rabbia nei confronti del Servo, causata dalla facilità con cui quest’ultimo aveva, a suo modo, risolto il problema della loro protezione.
Non aveva bisogno di balie, lei. Sapeva badare a se stessa… nonostante la presenza minacciosa di mafiosi teutonici che le davano la caccia.
I due uomini entrati in chiesa, mentre si “confessava” con il don Abbondio di questa strana guerra tecnologica fatta a suon di dischetti ultracapienti e pen drive organiche, non erano (per sua fortuna!) dei berlinesi, ma due agenti dei Servizi Segreti di Sua Maestà Carlo d’Inghilterra, il real coglione ormai invecchiato, e tenuto in piedi da costose e sofisticate biotecnologie anti-age Made in England, che aveva combinato altri casini imperiali nel secolo passato, alimentando lo sporco lavoro dei tabloid del suo Paese. Gli stessi Servizi Segreti che a suo tempo deviarono magistralmente le indagini di Scotland Yard sul coinvolgimento di Buckingham Palace nella morte di Lady D.
– Non si sono certamente precipitati per salvaguardare la mia incolumità! – aveva quasi gridato la Rossa non appena li vide entrare in chiesa, mentre il Servo cercava di calmarla spiegandole che era per il suo bene.
– Ma perchè sei così ingenuo? – la Rossa lo aveva etichettato senza pietà nel momento in cui già stava per uscire dal confessionale, dirigendosi verso i due individui con in faccia il sorriso di chi vede gli angeli custodi mandati da Dio – Non lo sai che americani e inglesi fanno questo fin dalla fine degli anni 40 del secolo scorso? – riprese fiato – Con la scusa di proteggere e prevenire, di esportare democrazia, si impossessano delle scoperte altrui e trasformano le idee malvagie dei dittatori in “bene comune”… Secondo te come sono andati sulla Luna e come hanno fabbricato le bombe atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki? Berlinesi e inglesi: stessa inculatura, ma in lingue diverse!
Sì, avevano bisogno di una donna, stavolta avevano bisogno della Rossa. O meglio: avevano bisogno del programma. Lo avrebbero ripulito dalla sua vergognosa patina razzista riciclandolo sulle edulcorate vie del liberismo economico: eugenetica aziendale e commerciale.
Ma lei l’aveva nascosto molto bene. E poi ci sarebbe stato bisogno della password alfaideogrammatica inventata da suo padre, per aprirlo e renderlo operativo.
Non poteva dimenticare la faccia attonita dei due “setter inglesi” mentre la videro risalire sulla Ducati e soprattutto il ghigno nervoso di uno dei due quando lei si lasciò sfuggire con aria beffarda, prima di chiudere la visiera del casco – … non lo avrete mai!
– Ah! Servo, Servo, fratello mio: solo il prete potevi fare, fesso come sei. – ritornò a pensare la Rossa abbracciata dalla calda accoglienza della sua stanza. La malizia di questo suo ultimo pensiero rappresentava il segno di un rinnovato vigore morale e la tanto attesa uscita dall’oblio del dopo Toscanini. Forse, nonostante la confusione di quelle ultime ore, aveva ancora la situazione in pugno.
– Mio padre: un pazzo? Un ingenuo? Chissà. – sussurrò la Rossa mentre continuava ad accarezzarsi il braccio – Però che genialata nascondere il microchip con la password sotto il mio tatuaggio!
È in distribuzione il n.18 di “Fondazione”, Science Fiction Magazine (Anno XI) curata da Claudio Chillemi, Emilio Di Gristina, Enrico Di Stefano, Rosaria Leonardi, contenente in retroguardia anche un mio vecchio racconto olo-noir intitolato “Il tempo di una sigaretta”: un omaggio per nulla indiretto al ponte ologrammi di Star Trek e al grande Fred Buscaglione. Che c’entra Fred Buscaglione con Star Trek? Niente: questo è il bello della scrittura. Al di là dell’incontro tra elementi eterogenei, l’importante è il messaggio veicolato dalla voce narrante.
La suggestiva illustrazione di copertina è stata realizzata da Tiziano Cremonini.
In questo numero:
Editoriale – pag. 02 A cura della Redazione
Videogiochi A.I. War – pag. 03 di Enrico Di Stefano
Racconti Sull’Onda del Tempo – pag. 07 di Antonio Bellomi
Saggistica Fumetti Alfonzo Azpiri, Sognatore Cinico – pag. 10 di Paolo Motta
Saggistica Fumetti Chosp – pag. 11 di Paolo Motta
Racconti Fantasmi – pag. 12 di Alberto Priora
Serie Televisive Star Trek for Dummies – pag. 17 di Francesco Spadaro
Racconti La Nostra Canzone – pag. 22 di Giuseppe Picciariello
Speciale Le Schede Telefoniche e il loro Contributo alla SF – pag. 27 di Jean-Pierre Laigle
traduzione E. Di Stefano
Speciale Come Sarà il Futuro della Terra – pag. 32 di Antonino Di Mari
Racconti Il Tempo di una Sigaretta – pag. 43 di Michele Nigro
… e in più
Inserto Speciale “L’Anticipazione nei Fumetti degli Anni Trenta”
Parte seconda
di Bruno Caporlingua, contenente gli articoli:
– Biondine, Maghi e Cavernicoli alla conquista della 4ª Dimensione
– La Space Opera nei Comic Books
– La travagliata genesi dell’alieno Superman
– I Fumetti d’anticipazione dell’Era Fascista
– Il Fumetto Transalpino di anticipazione
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Per spedire lettere, articoli, racconti, disegni
o richiedere la rivista scrivere a:
Rosaria Leonardi
via Marconi n° 36 95028 Valverde (CT)
oppure inviare una e-mail al recapito: fondazionesf@tiscali.it
Vi siete mai chiesti perché la vostra bionda preferita, pur rispettandovi e dimostrandovi la sua sincera amicizia, alla fine sceglie sempre di farsi sbattere dal tipo più improbabile che passa per caso al “China Jazz Club” e che c’ha il portafogli a mantice? Vi siete mai chiesti quanti musicisti si ritrovano in questo fumoso buco cinese a fare jazz solo perché non hanno vinto il concorso in qualche orchestra o nella banda municipale dove ti pagano pure i contributi per la pensione? Vi siete mai chiesti quante volte un barman, durante una serata e una nottata, pulisce il bancone con lo straccetto umido prima di servire i nuovi clienti? Vi siete mai chiesti quanti cadaveri vengono gettati dai retro dei locali direttamente nell’immondizia dei vicoli stretti e puzzolenti di Neaples City?
E poi, chi di voi non si è mai chiesto quanti pugni d’orzo occorrono per fare il whisky che ondeggia nel vostro bicchiere attendendo di essere tracannato? E se lo scotch whisky on the rocks è roba da checche delicate che cercano di diluire l’inferno, perché un superalcolico come quello va bevuto liscio e basta, se sei un vero uomo?
Certe strane domande comincio sempre a pormele, più o meno, dal quarto bicchiere in poi, quando l’alcol entra seriamente in circolazione e l’atmosfera diventa vera, disarmante e dolorosamente triste come una lama che penetra inesorabile nel tuo ventre.
La maggior parte della gente beve per dimenticare e riuscire così a sorridere; io, invece, bevo per ricordare tutto e meglio, perché di sorridere come un ebete in libera uscita, non me ne frega niente. Quando ti lasci trasportare dalla tiepida onda alcolica e i tuoi globuli rossi fanno surf usando come tavola le molecole di alcol etilico, tutto diventa più chiaro e riesci persino a far collimare cose assurde e distanti, pezzi di vita rimossi che ritrovano la loro logica e lampante funzione all’interno di un meccanismo che credevi irrimediabilmente arrugginito e inservibile.
Vi dirò! Vorrei essere sempre un po’ brillo, ventiquattro ore su ventiquattro: per riuscire a ragionare meglio e per vedere lì dove non riesco a vedere quando sono sobrio.
Il lavoro? Mai avuto problemi: non ricordo una sola volta in cui ho sbagliato mira oppure una sola serata durante la quale sono stato accompagnato a braccetto davanti casa dai ragazzi! Non sono il tipo che prima di ficcarsi nel letto si fa togliere le scarpe da un pivello appena sbarcato in città con la vocazione del gangster, io; o che si fa rimboccare le coperte da una pollastra astemia e furba che mi considera come uno zio a cui poter sfilare qualche banconota dal cappotto perché “…tanto è rintronato dal troppo bere…”. Il comando lo detengo sempre e solo io! Questo è sicuro.
Il segreto del mio autocontrollo? Essere costantemente insoddisfatto e incazzato: solo i professionisti vessati da una settimana di lavoro, i grassocci commercialisti che si agitano sulla sedia come i dannati del purgatorio non appena il trio attacca a suonare, solo gli avvocati ricchi che ridono in modo plateale per fare inutilmente colpo su un’oca già a caccia di avvocati da sposare o gli studenti promettenti vestiti da adulti che bevono latte durante il resto della settimana, solo questi tipi crollano come pere secche già dopo mezzo bicchiere di J&B. Crollano sotto i fulmini di una divinità fermentata perché credono ancora nella vita, nella facilità dei loro soldi, dei loro presunti amori, nella moralità di una società che li ha fregati sul nascere senza che se ne accorgessero, perché credono nell’onesto miraggio del posto fisso o negli affari benedetti da Dio… E il disincanto non ha ancora anestetizzato il loro sensibile sistema nervoso, rendendoli finalmente paralitici dinanzi a stupide gioie da week end.
L’alcol è per me come l’olio con cui si lucidano le canne e gli ingranaggi delle pistole e dei fucili prima di una missione delicata: se ne usi poco il metallo fatica a interagire, rischi di rimanere con il pezzo incrippato davanti al fuoco nemico e… buona notte al secchio! Se ne usi troppo e capita che sei nervoso per un qualsiasi maledetto motivo e ti sudano le mani, può succedere – e vi giuro che è successo appena due settimane fa a Jimmy Spillo, riposi in pace! – che ti scivola tutto di mano facendo la figura del fesso mentre muori sparato tra le risa generali persino dei tuoi stessi compagni. Comicità e morte: una schifosa miscela da evitare come la peste, se si vuole essere ricordati in maniera dignitosa e con un minimo di rispetto nel mio mondo.
Filosofeggio, direte voi, o si tratta di un semplice cazzeggio da bicchiere? Forse tutte e due le cose, ma di sicuro, grazie a questo mio modo di pensare… sopravvivo! A me stesso e alla vita scellerata che ho scelto di vivere.
Il motivo biondo e profumato della mia incazzatura cronica, anche stasera, come ogni sera, scende lievemente, come nebbia sui marciapiedi, dalle scale che portano alla toilette per signore del locale. In tanti anni che vengo qui puntualmente per depositare pezzi di fegato sul bancone, non l’ho mai vista entrare dalla porta del “China Jazz Club” come un cristo qualunque. Eppure il locale non è il suo… Ma è come se lo fosse: è sessualmente suo. Le pareti, i tappeti, le tovaglie e persino gli abiti dei camerieri appena ritirati dalla lavanderia, nonostante la quasi costante cortina fumogena presente nel locale, sono impregnati del suo intimo afrore che supera di gran lunga quello delle altre donne. Qualcuno, però, dirà che il mio è un naso innamorato e che il mio giudizio non è imparziale. E forse è vero, dal momento che presagisco il suo arrivo respirandola nell’aria, anche se continuo a bere con il volto girato verso la fila di bottiglie del bancone, completamente disinteressato al resto del locale.
Scende dalle scale dopo aver incipriato il suo bel nasino, mi chiedo, o dopo aver sniffato un po’ di quel carburante in polvere che le fornisco ogni settimana, prima di affrontare un’ennesima lunga notte al “China” tra potenziali soci in affari e cascamorti in azione? O forse entrambe le cose? Sperando che non confonda mai la cipria con la coca.
Luana non è una semplice donna; i buddisti direbbero che potrebbe essere tutt’al più la reincarnazione di una mantide religiosa in un corpo di femmina umana. Si ciba della mia testa e del mio corpo, amandomi inconsapevolmente, però, solo con i suoi occhi colmi di tempesta e con le nuvolette di fumo con cui gioca e che fuoriescono da quella sua bocca dolcemente letale: non muoio mai, questa è la mia condanna, e di conseguenza il mio dolore è costretto a rinnovarsi ogni sera tra un glissando e un riff, mentre dalla porta della cucina giungono sprazzi di bestemmie cinesi tra un cameriere e il cuoco.
Davvero una fine di pasta frolla per un duro come me.
Luana “ama” un altro, uno che la illude, la fa soffrire e che dopo essersela scopata per benino la sbatte in un taxi dicendo che ha da fare cose importanti negli uffici del suo grattacielo e che non ha tempo per fare shopping clandestino con una ragazzina viziata del “China”, che non può chiedere il divorzio a sua moglie, perché quella possiede l’ottantatre per cento delle azioni della società ereditata dal padre e che quindi lo tiene al guinzaglio per le palle come una di quelle signore impellicciate che vanno a passeggio per le vie della città trascinandosi dietro il cagnolino, solo che al posto del cane ci sono i suoi “gioielli di famiglia”. Uno che, quando Luana parte con il suo sistematico pianto greco da ragazza sedotta e abbandonata, caccia fuori la storia sempreverde dei “figli ormai grandi”, del fatto che lei è carina e chissà quanti altri ne può trovare e bla, bla, bla…
Un tizio che, prima o poi, farò sistemare come si deve da un paio dei miei ragazzi. Niente di cruento o di plateale, s’intende: giusto un “piedistallo” in cemento da abbinare a quei suoi bei mocassini da imprenditore con cui ama prendere a calci in culo la mia dolce Luana.
La mantide sconfitta dal maiale: c’è bisogno di riequilibrare il karma di questa città.
Io e Luana siamo molto simili: dietro un’armatura caratteriale a prova di proiettili e uno stile apparentemente cinico, nascondiamo un’anima soufflè.
Peccato che il suo masochismo, ormai degenerato in autolesionismo sentimentale, non le permetta di notare l’adorazione quasi mariana che nutro per lei da molto tempo. Forse anch’io, a mio modo, sono un masochista perché non mi decido a lanciarle un razzo di segnalazione in direzione delle sue due scialuppe di salvataggio.
In compenso ultimamente, magra consolazione, siamo diventati soci in affari… In loschi affari. Come tutti quelli di cui mi occupo.
– É tornato Tony Molla? – (così soprannominato per via della sua imponente collezione di coltelli a scatto) mi chiede Luana mentre parcheggia il suo meraviglioso fondoschiena sull’alto sgabello vicino al mio.
Il suo corpo proporzionato e micidiale, fino a quel momento uniformemente fasciato da un elegante vestito nero, trova una via d’uscita attraverso l’ampio spacco laterale che lascia sfuggire, accavallando le gambe, una delle due colonne berniniane che lo sorreggono in questo mondo abitato da noi poveri mortali.
Prima che cominci io a balbettare dinnanzi alla sua coscia, distolgo velocemente lo sguardo dal suo corpo e le piazzo una risposta fredda e breve, tornando a fissare le bottiglie: – Non ancora!
– Speriamo che non abbia combinato un casino! – continua Luana facendo segno al barman di portarle il solito.
– Per uno esperto come Tony, consegnare un “pacchetto di metallo” è un gioco da ragazzi. Sarà qui a momenti, vedrai. Non preoccuparti e gustati il tuo drink! – dico a Luana una delle frasi più decise degli ultimi mesi.
Nel gergo malavitoso consegnare un “pacchetto di metallo” significa mandare un “bravo ragazzo” per pugnalare nelle natiche o a morte qualcuno che ha sgarrato nel complicato mondo del traffico di droga; a volte la lama è più sicura e decisamente più silenziosa della pistola, ma c’è bisogno di esperienza perché la distanza di sicurezza tra la vittima e il carnefice è ridotta a zero. E Tony Molla è un’autorità nel settore lame: io questo lo so, ma Luana non conosce i miei uomini come li conosco io e quindi freme nel suo vestito da femme fatale come una scolaretta prima dell’interrogazione nel suo grembiule.
Vorrei rassicurarla stringendola a me, vorrei lanciarle quel benedetto “razzo di segnalazione” ma so che non è il momento giusto e che un suo rifiuto potrebbe rovinare anche quel minimo contatto che ancora mi permette di ascoltare la sua voce e di sentire il suo odore, a volte di sfiorarla mentre le porgo un bicchiere o le accendo una sigaretta. Piccoli contentini adolescenziali per uno che si vanta di scontri armati, omicidi e traffici di varia natura.
Tuttavia la psiche umana è sorprendente, soprattutto la mia. Dopo tanti discorsi sulla cautela e sulla paura di essere rifiutato, mi riscopro a pochi centimetri dall’orecchio di Luana mentre le bisbiglio una frase a dir poco storica, una frase che se l’avessi preparata prima non mi sarebbe venuta fuori in modo migliore: – Che ne dici se dopo l’arrivo di Tony ce ne andiamo io e te a bere qualcosa al Cotton? Così, giusto per uscire da questo posto e prendere una boccata d’aria?
I ragionamenti che facciamo a noi stessi, spesso, servono solo a preparare il terreno alla più sfacciata contraddizione: un po’ come quando chiediamo un parere a qualcuno ma in realtà abbiamo già deciso. E meno male che ci contraddiciamo, aggiungerei. Rimanere legati alle proprie remore non fa bene alla salute e di tanto in tanto occorre osservare il mondo anche da un’altra angolazione, da un’altra visuale: fosse anche quella della sconfitta o del rifiuto.
Lo sguardo di Luana da sorpreso diventa lentamente rilassato e vergato da una sfumatura di complicità nei miei confronti. Una sensuale complicità che non avevo mai neppure concepito durante i mesi precedenti.
– Pensaci! – decido di aggiungere un tocco di classe e di finto distacco alla scena sotto forma di dolce ultimatum, mentre accendo, cercando di non tremare, la mia Dunhill Gold che tengo poggiata sull’orecchio sinistro da più di mezz’ora.
Intanto il trio della serata, introducendo un vocalist nel tessuto delle improvvisazioni, ci regala la versione jazz di una vecchia canzone di Fred:
Prima che finisca questa sigaretta
tu mi dirai di sì, oppure forse no!
Puoi pensarci bene,
non avere fretta
hai tanto tempo ancor,
il tempo di una sigaretta ¹
Luana fissa sorridendo il fondo del suo bicchiere mentre un ciuffo di capelli, staccandosi dalla massa profumata e bionda, scivolando verso il mento le carezza una guancia. All’improvviso il suo sguardo passa fulmineamente dal bicchiere ai miei occhi e sento che il danno è ormai fatto e non mi resta che attendere il verdetto.
Guardo pigramente, le spire profumate
lo vedi,
fumo a piccole boccate
vorrei fermare un poco,
questa punta di fuoco
vorrei fermare il tempo,
ma il tempo passa e va²
Lei mi fissa mentre continuo a osservare, sfoggiando un falso interesse da duro intenditore, le varie etichette di whisky. E lentamente, distendendo la sua immensa schiena nuda verso di me, porta le sue labbra rosse come la lava di un vulcano attivo a portata di bacio o di sputo, a seconda della risposta che ha in mente per me.
Vedi si consuma, questa sigaretta
tu mi dirai di sì, o mi dirai di no.
Passano i minuti,
forse troppo in fretta
io guardo gli occhi tuoi,
fumando questa sigaretta…³
… sigaretta…
… sigaretta…
… sigaretta…
… sigaretta…
… sigaretta…
… sigaretta…
… sig…
… sig…
… aretta…
… etta…
… tta…
– Maledizione! Si è incantato di nuovo! – sbraitò il Maggiore Black nel microfono della postazione O-37 all’indirizzo dell’operatore della Sala Ologrammi che, come al solito, già dalla seconda scena s’era mezzo appisolato sulla consolle del computer olografico, tanto quelle storie le conosceva a memoria.
– Maggiore, ma perché si ostina a voler far girare sempre la stessa vecchia storia? – cominciò l’operatore una polemica con il Maggiore che sapeva di già vissuto.
– Non sono affari che ti riguardano e non farmi sempre la stessa domanda…
– Abbiamo dei nuovi titoli, li vuole almeno sentire? – tentando una timida promozione della merce.
– Non m’interessano gli altri titoli! Non ti avevo già detto di risolvere il problema? – rispose secco il Maggiore.
– Proprio ieri è arrivato fresco, fresco dal database della Compagnia una storia intitolata “La conquista di Phobos”… – continuando imperterrito – e narra della nostra gloriosa colonizzazione del pianeta Ph…
– … Non m’interessano i tuoi nuovi stupidi titoli, lo capisci o no?!
– … Lei potrebbe interpretare la parte del patriarca dei coloni. Che ne pensa?
– Penso che questo tuo insistere nel tentare di farmi cambiare ologramma sia disonesto e puerile!
– Oppure c’è… Aspetti, aspetti: mi gioco una settimana di paga che questa storia le piace! – correndo dietro il cliente deluso che già s’apprestava a lasciare la sala.
– Sentiamo!
– “Sette spose per i trivellatori di Adrastea”, ambientato su uno dei satelliti di Giove: uno spasso dal primo all’ultimo fotologramma.
– Ma per piacere… Hai appena perso una settimana di paga.
– Va bene, faccia come crede! Capisco che lavorare nella base mineraria di un planetoide che gravita intorno a un sole lontano migliaia di parsec dal proprio, possa causare nostalgie e squilibri psichici vari… Ma incaparbirsi per un ologramma malfunzionante non aiuterà certamente il suo umore.
– Lascia stare il mio umore e pensa piuttosto a farti trasmettere una nuova copia di questo ologramma dalla base… – disse risoluto il Maggiore: – La prossima volta che verrò qui, dovrà procedere tutto liscio fino alla fine!
– Agli ordini!
– Devo assolutamente sapere se Luana mi bacerà o no! Se accetterà di venire con me al “Cotton” per un drink!
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L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
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