16-08-1994
Il muezzin di Betlemme è già a lavoro…
La camera 305 dello Star Hotel è bellissima. Forse il mio entusiasmo è eccessivo, ma dopo aver dormito su ponti di navi e letti di fortuna, questa stanza (al di là della sobria e comodissima stanza al ‘Casanova’ di Gerusalemme) mi appare come una reggia. Ci sono molti piani in questo albergo e ad una prima occhiata sembrerebbe “disabitato”: non ho visto altri turisti nell’atrio o sui piani come dovrebbe essere in un normale albergo. Forse sono tutti turisti che si svegliano con il canto del gallo oppure non è un albergo ‘gettonato’ a causa del territorio ‘difficile’ in cui sorge. Andiamo nella sala da pranzo che offre, grazie ad un’ampia vetrata, uno spettacolare panorama su Betlemme. E’ bello fare colazione guardando dall’alto ciò che ti aspetta. Facciamo colazione e nella sala siamo in tre. In un tavolo non molto lontano c’è (quando dici il destino) un italiano: un tecnico di Torino in viaggio di affari abituato a fare colazione con la valigetta del lavoro affianco al tavolo. Il sole attraverso la vetrata ci riscalda e ci invoglia ad abbandonare la colazione per scendere, finalmente, tra le strade di Betlemme. Dopo aver trascorso delle serate per così dire “mondane” tra i pub di Jaffa Road e della Gerusalemme “pagana”, è un po’ difficile, ma sicuramente educativo, vedere la situazione di Betlemme. Sottolineo “vedere” perché è diverso dal “sentito dire” come spesso succede a chi, come me, vive in Europa o altrove.
La piazza centrale di Betlemme è caratterizzata dalla presenza di un ampio portico dove ci sono numerosi negozi per turisti; su un lato c’è una moschea con un bel minareto che domina la piazza e su un altro lato ancora c’è una stazione della Polizia israeliana tutta circondata da reti metalliche e con una torretta d’avvistamento per le guardie armate. I mezzi blindati sono parcheggiati nel cortile ricavato dal recinto di rete e in attesa di momenti “caldi”… […] Dopo aver visitato e fotografato i luoghi della cristianità, ci siamo lanciati all’esplorazione di posti che mai nessun soldato israeliano o tour operator sano di mente vorrebbe esplorare. Ci sono vie (o cose che sono simili a vie) in cui si sente (e si vede, e si tocca) la povertà, l’abbandono, il degrado, l’indifferenza dello stato israeliano, la libertà autogestita del popolo palestinese… Ci sono vicoli il cui odore è insopportabile perché deriva da un misto di feci di animali e marciume vario… Nella zona del mercato non si riesce a distinguere dove sia il fondo di quella che dovrebbe essere una strada perché completamente ricoperta di terriccio, feci di galline portate a vendere, piume e penne di vari volatili commestibili… Il tutto mischiato a formare una melma miasmatica che stimola il vomito anche in chi come me è abituato a sezionare ascessi purulenti e animali in via di putrefazione… In moltissimi angoli delle strade cumuli di rottami arrugginiti di quelli che sarebbero potuti essere macchine o motori, dominano il paesaggio indisturbati chissà da quanto tempo. La gente del posto, abituata a tutto questo, ti ferma solo per venderti cartoline, per cambiare denaro in nero, per proporti un affare con il proprio taxi sgangherato… Se non ti fermano, si accontentano di dirti “hello!” con la speranza di attaccare discorso e di riuscire a guadagnare qualche schekel accompagnandoti in qualche posto nei dintorni. I bambini, dalle scale e dai muri, un po’ timidamente e un po’ con la voglia di entrare in contatto con qualcosa di nuovo, ti gridano un audace “what’s your name?”…
E mentre il tramonto di Betlemme si trasforma in una dolce coperta di color arancio posandosi lievemente sui margini delle montagne vicine, e mentre i miei panni lavati ondeggiano sulla finestra ampia dell’albergo (grazie alla provvidenziale “cordicella” per i panni che fa parte del mio bagaglio di buon italiano in viaggio), con la musica degli U2 nelle orecchie sto scrivendo queste memorie.
Gli sguardi dei palestinesi che incontro per strada sono sguardi che penetrano ogni cosa… Sono sguardi curiosi che fissano la mia macchina fotografica (forse perché non è un granché e allora pensano “poveraccio”: in realtà la mia macchina sembra uscita in regalo da una busta di patatine, anche se devo ad essa le uniche foto che testimoniano questo viaggio), fissano le mie scarpe, la mia maglietta, i miei occhiali da sole… Sono una mosca bianca tra i vicoli di un mondo difficile?
Tutto ciò che dalla Piazza della Mangiatoia (dove sta la Basilica della Natività) si muove oltre i luoghi sacri dove i palestinesi sono abituati a vedere gli europei, viene visto come un oggetto strano che invade luoghi appartenenti ad una dimensione prettamente palestinese.
La polizia israeliana ha la sua caserma vicino alla Basilica della Natività ed è completamente circondata (come ho già scritto) da una gabbia di ferro… Quella caserma è come un pezzo di Israele che si trova per sbaglio nel mondo palestinese! Gli israeliani pensano che questo sia territorio occupato solo perché i soldati armati fino ai denti camminano tra le strade con il rischio di essere colpiti da bottiglie o pietre… Stamattina nel mercato c’è stata una “mini intifada” durata pochi secondi tra alcuni ragazzini che lanciavano pietre e i soldati israeliani che pattugliavano il mercato. Secondo il taxista che sosta vicino alla moschea in attesa di clienti, queste sono cose che succedono tutti i giorni e lo dice con la faccia rassegnata di chi ci vive in mezzo…
Qui a Betlemme (molto più che a Nazareth) si sente che la presenza israeliana è come un punto nero disegnato sul foglio bianco del popolo palestinese. I giovani arabi e i bambini si avvicinano con spontaneità: qualcuno per chiedere soldi, altri una penna, altri semplicemente per conoscere, per sapere, per toccare qualcuno di nuovo. Ieri sera quando siamo arrivati ci siamo sentiti come gli “americani” mentre entravano vittoriosi nelle città europee appena liberate durante la seconda guerra mondiale… In meno di due secondi, se ti fermi per chiedere informazioni, si forma un primo strato di “scugnizzi palestinesi” e poi se non cambi aria lo strato diventa folla… Una piacevole folla acerba di ‘grilli palestinesi’ trasformati in bambini che pigolano e saltellano intorno alla novità.
Giudicare i palestinesi è difficile perché vivono in condizioni poco felici e molti di loro utilizzano l’Intifada per manifestare la rabbia contro uno stato imposto dalla storia che non assicura né lavoro, né possibilità di movimento, né futuro… Giudicare gli israeliani è altrettanto difficile perché anche loro, alla ricerca di una identità nazionale, si sono trovati dinnanzi all’infelice compito di convivere con un popolo culturalmente diverso e giustamente ‘incazzato’. E’ come far fare un viaggio di migliaia di km in una macchina a due persone che non si vogliono parlare e che addirittura si odiano per rancori lenti a spegnersi o per torti subiti in passato… Bisogna unire le forze positive arabe e israeliane in un discorso non passionale ma pratico e lungimirante: cioè trovare un modo, al di là dell’orgoglio e dell’odio, per stare bene insieme nella stessa terra.
“Non tutti vogliono la pace…!” mi diceva oggi il taxista al centro. Certo, ma non tutti vogliono la guerra.
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