Convegno di studi (7/8 novembre – Napoli, Castellammare di Stabia). Un appuntamento per gli appassionati e gli studiosi di Annibale Ruccello, promosso dall’Università Federico II in collaborazione con il Comune di Castellammare di Stabia e lo Stabia Teatro Festival – Premio Annibale Ruccello.
Ho avuto il piacere di rispondere (o, almeno, c’ho provato!) alle domande dello scrittore neofuturista Roberto Guerra sul quotidiano online EccolaNotiziaQuotidiana.it intorno a vari argomenti interessanti: letteratura, avanguardie, connettivismo, fantascienza… Mi sono divertito!
PER LEGGERE L’INTERVISTA:
Postmoderno e fantascienza oggi, intervista a Michele Nigro
Questo è solo un primo “lotto” di domande: prossimamente risponderò ad altre domande di Roby Guerra riguardanti la pubblicazione del mio racconto “Call Center”.
Stay tuned!
Eccovi intanto uno stralcio:
(Roberto Guerra) Per Marvin Minsky (padre dell’AI) e Shapiro, futurologo, la fantascienza (anche cinematografica) è l’autentica Letteratura dell’età informatica, concordi?
(Michele Nigro) Sì! In passato la fantascienza rappresentava la visione spinta di un futuro che sembrava ancora molto lontano da raggiungere. Oggi viviamo in un mondo fantascientifico e di conseguenza la letteratura fantascientifica è diventata la chiave di lettura del presente più che del futuro. Con questo non voglio dire che gli argomenti per nuove audaci visioni siano esauriti, anzi: come cercavo di dimostrare in una delle precedenti risposte di argomenti nuovi ce ne sono in gran quantità e si discostano da quelli classici utilizzati dalla fantascienza a cui siamo abituati, ma il fatto di vivere in una società in cui molti degli obiettivi descritti nei libri di fantascienza di alcuni anni fa sono stati non solo raggiunti ma in alcuni casi superati, spinge gli scrittori di genere verso nuovi punti di vista, nuovi campi da analizzare, adottando nuovi tipi di scansione della condizione umana. Non è più sufficiente stupire il lettore con effetti speciali: occorre fare anche questo e occorre farlo in maniera scientificamente e tecnologicamente ineccepibile, ma soprattutto c’è bisogno di calarsi nello spazio interiore dell’essere umano per capire che cosa gli sta realmente accadendo. Il fatto che un genere s’imponga sugli altri per mezzo della sua naturale predisposizione nel saper raccontare le trasformazioni in atto, impone a maggior ragione una sua contaminazione con altri generi: i confini sono caduti perché è il tipo di società che annulla questi confini. Il testo non è un dogma. La letteratura deve poter utilizzare tutti gli strumenti di cui ha bisogno: lo stesso concetto di ‘fantascienza’ è limitativo.
Apparentemente innocuo, composto da 45 pagine, “Cyberfilosofia” è una pubblicazione postuma (ed. Mimesis, collana Minima Volti – 2010) del filosofo “patafisico” Jean Baudrillard (1929-2007), interessante, in alcuni punti volutamente ermetica e assiomatica, ricca di nuovi punti di vista stimolanti. Divisa in quattro capitoletti, l’argomentazione di Baudrillard ha il raro dono di utilizzare alcuni elementi tipici dell’immaginario fantascientifico per affrontare temi filosofici riguardanti la vita dell’uomo del terzo millennio: il simulacro e il suo sorpasso reso possibile dal vasto universo della simulazione e dell’iperrealtà; la differenza tra automa e robot (nel secondo capitolo intitolato “L’automa e il robot”); l’esegesi di “Crash” (titolo del romanzo di Ballard e del film diretto da David Cronenberg) nel terzo capitolo intitolato appunto “Crash” in cui Baudrillard, grazie alla sua speciale lente d’ingrandimento iperrealista, evidenzia la commistione esistente tra corpo organico e macchina, tra sessualità e tecnologia, la coincidenza tra l’automobile incidentata (simbolo del romanzo di Ballard) e il godimento puro; e infine il disimpegno definitivo di Baudrillard nei confronti del film “Matrix”: nel quarto e ultimo capitolo – “Decodificare Matrix, Le Nouvel Observateur intervista Jean Baudrillard” – viene spiegata una volta per tutte la distanza esistente tra il pensiero del filosofo francese e il messaggio contenuto nel film dei fratelli Wachowski.
Ma è nel primo capitolo – “Tre ordini di simulacri” – che Baudrillard lancia le sfide più interessanti all’indirizzo del mondo fantascientifico. Esiste ancora una relazione tra l’immaginario e le nuove esigenze della science-fiction? Baudrillard non ha dubbi in merito: “… il buon vecchio immaginario della science-fiction è morto, e qualcosa d’altro, che non è più science-fiction, sta nascendo.” Una frase laconica che potrebbe mandare nel panico i puristi del genere e che invece costituisce una traccia affascinante per quei nuovi protagonisti della letteratura fantascientifica che amano indagare andando oltre i confini imposti da una definizione che sembrerebbe non prevedere contaminazioni (fra i pionieri di questo nuovo modo di reinventare la fantascienza, in Italia, sicuramente sono da annoverare i Connettivisti). Baudrillard afferma che in un mondo come quello attuale, in cui il modello, grazie alla simulazione, ha superato il reale diventando esso stesso un’anticipazione del reale, non c’è più spazio per “anticipazioni finzionali” e quindi per una trascendenza immaginaria. Per dirla in parole povere: la fantascienza, se vuole sopravvivere deve “morire”, orientarsi verso nuovi obiettivi, diluendosi in essi.
Superlativo il seguente brano tratto da “Cyberfilosofia”: <<La realtà poteva sorpassare la finzione: era il segno più sicuro del possibile gioco al rialzo dell’immaginario. Ma il reale non può sorpassare il modello, di cui non è che l’alibi. L’immaginario era l’alibi del reale, in un mondo dominato dal principio di realtà. Oggi è il reale che è diventato l’alibi del modello, in un universo retto dal principio di simulazione. Ed è paradossalmente il reale che è diventato oggi la nostra vera utopia – ma è un’utopia che non appartiene più all’ordine del possibile, perché non si può che sognarne come un oggetto perduto. Forse la science-fiction dell’era cibernetica e iperreale non può che consumarsi nella resurrezione “artificiale” di mondi “storici”, cercare di ricostruire in vitro, fin nei minimi dettagli, le peripezie di un mondo anteriore, gli avvenimenti, i personaggi, le ideologie passate, svuotate del loro senso, del loro processo originale, ma allucinanti di verità retrospettiva. Così in Simulacri di Dick, la guerra di Secessione. Gigantesco ologramma in tre dimensioni, dove la finzione non sarà più uno specchio teso al futuro, ma riallucinazione disperata del passato. Non possiamo più immaginare altri universi: la grazia della trascendenza ci è stata negata anche su questo terreno. La science-fiction classica è stata quella di un universo in espansione; trovava del resto le sue vie nei racconti di esplorazione spaziale complici delle forme più terrestri di esplorazione e di colonizzazione del XIX e XX secolo.>>
E poi, ancora, come a voler concretizzare definitivamente la sua sfida post-moderna: <<Non è più possibile partire dal reale e fabbricare l’irreale, l’immaginario a partire dai dati del reale. Il processo sarà piuttosto l’inverso: si tratterà di realizzare situazioni decentrate, modelli di simulazione e di ingegnarsi a dar loro i colori del reale, del banale, del vissuto, di reinventare il reale come finzione, proprio perché il reale è scomparso dalla nostra vita. Allucinazione del reale, del vissuto, del quotidiano, ma ricostruito, talvolta fin nei dettagli di un’inquietante estraneità, ricostruito come una riserva animale o vegetale, esposta alla vista con una precisione trasparente, e tuttavia senza sostanza, derealizzata in anticipo, iperrealizzata. La science-fiction non sarebbe più, in questo senso, un romanzesco in espansione con tutta la libertà e il naif che le derivano dal fascino della scoperta, ma piuttosto evolverebbe implosivamente, a immagine della nostra concezione attuale dell’universo, cercando di rivitalizzare, riattualizzare, riquotidianizzare dei frammenti di simulazione, frammenti di quella simulazione universale che è diventato per noi il mondo che si dice “reale”.>>
“Cyberfilosofia” è un libro che ogni scrittore di fantascienza dovrebbe leggere.
Pensare di intervistare Dio è un po’ come pensare di svuotare un oceano usando un cucchiaino: infinite domande per infinite risposte. Un lavoro giornalistico impari, inutile.
Non tanto inutile, però, se le domande sono rivolte al dio inventato dallo scrittore, giornalista, traduttore e critico letterario neoavanguardista Giorgio Manganelli nella sua “Intervista a Dio”, prefazione a cura della figlia Lietta Manganelli – sottotitolo L’ultima delle interviste impossibili – e recentemente ripubblicata in formato e-book nella collana V. della casa editrice Kipple Officina Libraria. Una collana che trae il proprio nome dall’omonima opera di Thomas Pynchon e che si occupa di letteratura postmoderna, una letteratura libera da schematismi, favorevole agli sperimentalismi scritturali e che ben si coniuga, quindi, con la forma e le intenzioni dell’intervista di Manganelli.
Ma com’è il dio di Giorgio Manganelli? È un dio impacciato, scherzoso, buffone, frustrato. Decisamente fragile e sprovveduto. Un dio inadeguato e nevrotico come il suo rappresentante in terra portato sugli schermi cinematografici dal regista Nanni Moretti nel film “Habemus Papam”; ma è anche un ‘dio berlusconizzato’ nel momento in cui afferma candidamente: “io amo essere amato”. Si tratta di un dio minore, impotente, di un dio impreparato che attende avidamente le domande dell’intervistatore non per il gusto di donare sicurezza ai lettori mortali grazie a una serie di sagge risposte, quanto piuttosto per riuscire finalmente a capire se stesso e la propria funzione nell’universo. Il dio di Manganelli s’inventa un linguaggio un attimo prima dell’intervista, impara a parlare e quindi non ha il tempo per acquisire le regole approvate dai puristi della lingua: lo sperimentalismo neoavanguardista di Manganelli diventa “creazionismo linguistico” (chi più di Dio può occuparsi di creazionismo?) e l’autore con questo trucco sembra quasi voler ribadire che l’atto creativo in scrittura prevede naturalmente l’abbandono dei formalismi e degli schemi già usati.
Le analogie tra neoavanguardia e futurismo spingono il dio di Manganelli ad affrontare nuovamente la questione del plenilunio ma stavolta – a differenza del draconiano “Uccidiamo il Chiaro di Luna!” di marinettiana memoria – in maniera decisamente comica: “Il plenilunio è stato concepito come una gigantesca allusione sessuale per i continenti inibiti…”
Forse il dio di questa intervista impossibile è anche un dio disinteressato al postumanesimo (teme la concorrenza?): “E allora dica: che ne sarà delle dita?” “Cinque”. “Definitivamente?” “Assolutamente. Non una di più”. Se Giorgio Manganelli fosse stato transumanista avrebbe fatto aggiungere al suo intervistatore altre domande più complesse e meno comiche, del tipo: “avremo menischi più resistenti? aumenteremo le nostre capacità cognitive? riusciremo a bloccare l’invecchiamento cellulare? saremo in grado di copiare le nostre menti? sconfiggeremo la morte?” E il dio di Manganelli anche in questo caso avrebbe risposto: “Giovanotto, mi stai rompendo i coglioni!”
Tempo fa, in un post intitolato “Racconti di fantascienza” di Alessandro Blasetti, scrissi una frase percorsa da una vena di pessimismo: <<Francamente non so se torneranno epoche simili dal punto di vista televisivo: la situazione attuale, facendo zapping tra gli innumerevoli canali del nuovo e tanto esaltato digitale terrestre, non mi permette di sperare in nulla di positivo. Le regole ferree di un mercato televisivo sempre più schiavo dello share (e rappresentativo, purtroppo, dello stato culturale e mentale medio nazionale) non offrono spiragli attraverso cui introdurre certi sperimentalismi…>> Facevo questi cattivi pensieri nel maggio del 2010, in tempi non sospetti, un anno prima circa della messa in onda di “Wonderland”, il magazine settimanale di Rai 4 dedicato al genere fantastico ideato da Leopoldo Santovincenzo e Carlo Modesti Pauer. Nato come rubrica di supporto alla programmazione cinematografica di Rai 4, in realtà “Wonderland” è un prodotto autonomo e capace di vivere di vita propria, suddiviso generalmente in tre parti principali: la rubrica Mainstreaming, viaggi multimediali tra i nuovi universi del fantastico (a cura di Andrea Fornasiero) in cui vengono segnalate le novità più importanti riguardanti il genere fantastico dal punto di vista cinematografico, fumettistico, televisivo e in alcuni casi, indirettamente, anche dal punto di vista letterario; un’intervista centrale ad attori, registi, scienziati, editori, scrittori, giornalisti, saggisti, astronauti, sociologi…; e a chiudere – last but not least – la rubrica Dizionario del fantastico per un approfondimento delle tematiche principali del genere, adoperando innumerevoli esempi filmici e stuzzicando in tal modo le conoscenze cinematografiche del telespettatore.
Si tratta di un programma che non teme le contaminazioni e le evoluzioni dettate dai tempi; come riportato nella pagina web di Rai 4: <<Wonderland esplora e racconta le mille declinazioni – classiche e contemporanee – di questo multiforme immaginario di genere, in linea con l’attenzione del canale ai linguaggi della postmodernità e alla loro sempre più marcata dimensione multimediale.>>
Elogio della brevità – ogni puntata dura tra i 15 e i 25 minuti – “Wonderland” ha il merito di aver riportato l’attenzione televisiva sul fantastico, spaziando dal genere fantascientifico a quello fantasy e comprendendo i rispettivi sottogeneri. Potremmo definire questo programma di Rai 4 come una sorta di “spot denso” che non ha la pretesa di esaurire in pochi minuti argomenti che a causa della loro complessità avrebbero bisogno di molto più tempo, ma che svolge senza ombra di dubbio una funzione stimolante sugli utenti di un palinsesto, dal mio punto di vista, ancora fin troppo deprimente.
Dopo aver letto il racconto lungo “Un anno nella città lineare” (A year in the linear city – 2002) dello statunitense Paul Di Filippo, si ha come la sensazione di trovarsi nel bel mezzo di un “cambio d’aria”: vi ricordate quando a scuola (quando le classi erano numerose e l’anidride carbonica prodotta dai giovani cervelli in attività aumentava in maniera esponenziale durante le ore di lezione) ad un certo punto della mattinata il maestro ordinava all’alunno che sedeva sotto la finestra di aprire le ante per far entrare l’aria nuova? Leggere lo scrittore postmoderno Di Filippo dà la sensazione del nuovo che avanza: un nuovo che nasce dal felice incontro tra postmodernismo letterario e fantascienza.
Mi potrei soffermare sull’ambientazione fantastica e surreale creata dalla sua penna d’artigiano; potrei offrirvi delle pennellate recensorie sulla improbabile città descritta in questo racconto lungo o sulle verità escatologiche possedute da una strana popolazione (molto simile a quella americana – non potrebbe essere altrimenti!) che abita una città spalmata lungo un corso infinito… Potrei affascinarvi sottolineando l’esistenza addirittura di due soli che illuminano, grazie a un “perpetuo ciclo cruciforme”, lo strano mondo di Di Filippo. In realtà “Un anno nella città lineare” è prima di tutto un implicito manuale di scrittura postmoderna. No, che avete capito! Paul Di Filippo non ci dice in questo racconto dove mettere le virgole, gli avverbi, come usare gli aggettivi o come scrivere letteratura fantascientifica postmoderna; indica a tutti noi, lettori medio-forti e aspiranti scrittori, come sopravvivere a noi stessi e alla vita pratica che incombe sulla fantasia: “Se si fosse messo subito a scrivere, avrebbe potuto farsi prendere dalla trance creativa, dimentico del tempo, e avrebbe perso l’occasione di far visita a Gaddis Patchen. Se prima si fosse recato dal padre, Diego sarebbe sicuramente uscito dalla casa dove aveva trascorso l’infanzia carico di emozioni talmente forti da imbrattare la sua capacità di scrivere per quella giornata.” Problemi da scrittore! – direbbe qualcuno.
E poi ancora: una ragazza esuberante e bellissima, la sensualità mai separata dalla genialità, un amico indigente ma curioso e pieno di vita, una città di cui nessuno conosce veramente l’inizio o la fine, un padre morente consapevolmente ossessionato dal momento del “trapasso”, la descrizione kafkiana di un mondo quasi comicamente irreale…
Lo scrittore pensato da Di Filippo è impegnato quotidianamente a “tramutare il dolore in bellezza” perché sceglie di non isolarsi ma di vivere pienamente la vita barcamenandosi tra le fatiche editoriali di chi sceglie il difficile cammino della scrittura e gli immancabili appuntamenti con la realtà: la cena con la propria fidanzata, l’imminente morte di un padre, le crisi d’astinenza di un’amica, la vita sacrificata di un edicolante, le manie da schiavista di un editore, i vizi meschini di un trombettista, le avventure ai limiti della legalità, il carcere… Lo scrittore deve fare man bassa di vita!
Ma che cosa significa vivere in una Città Lineare? La ciclicità permette ad ognuno di noi di ritornare al punto di partenza: in una città lineare ciò non è possibile perché il “punto di partenza” è ignoto. Vivere in un luogo simile esige una certa dose di fede: non si può conoscere tutto, ma si può accettare tutto. Una sana ignoranza viene sorprendentemente contrapposta alla sicurezza positivista di quella rigida fantascienza tecnologica dove tutto doveva essere coerente e dimostrabile – seppur in un contesto di doverosa sospensione dell’incredulità! E gli abitanti sembrano rassegnati a questa linearità imperante, anche se ogni tanto uno di loro tenta qualche romantico esperimento: “No, quella carrozza viaggiava ancora verso Ponente attraverso la nostra imperscrutabile Città dopo due settimane. Ne sono convinto. E’ stato allora che mi sono veramente impaurito. L’enormità della nostra terribile esistenza mi sopraffece. Da allora non sono più quello di prima.”
Essere scrittori nella Città Lineare significa anche combattere contro i pregiudizi derivanti dall’interno della “categoria”: “Io scavo nel profondo del cuore dell’uomo, Diego. E’ questo che la gente vuole leggere. Le preoccupazioni quotidiane. Costruirsi una vita, fare amicizia, sposarsi, morire. E’ bene che tu lo capisca: la maggioranza delle persone non vuole i tuoi assurdi voli pindarici.”… “Ma dopo un po’ si matura e si restringono gli interessi a quello che è veramente vitale.”
“Esiste un Isolato Zero?”
Le esigenze filosofiche, quasi “spirituali”, prevalgono fortunatamente nell’animo del narratore di cosmogonie che prosegue lungo il cammino indicato dalla propria fantasia.
"Cancella spesso, se vuoi scrivere cose che siano degne d'essere lette." (Orazio)
la poesia è la fioritura del pensiero - il miosotide non fa ombra alla rosa, ciascuno la sua bellezza
quasi un litblog di Michele Nigro
"Un libro deve essere un'ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi"
- Nie wieder Zensur in der Kunst -
Amo leggere, amo camminare e amo fare le due cose insieme (non è così difficile come sembra)
Quaderno di poesia on-line
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