Archivio per revisione

Interruzione di dipendenza

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 6 Maggio 2014 by Michele Nigro

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Prendete una vostra abitudine, quella più frequente, la più ossessionante anche se impercettibile, quella che voi credete essere la più cara e innocua, e… interrompetela. Così, per compiere un esperimento giocoso che pian piano potrebbe diventare un necessario esercizio di miglioramento della qualità esistenziale. Allontanatevi da essa, da questa abitudine non vitale a cui siete legati ma di cui credete di non avvertire la pressione discreta che esercita sul vostro vivere, espelletela dal vostro tempo quotidiano, dai vostri meccanicismi, dal paniere di tic pseudoculturali che tenete sul comodino a portata di mano e di cui vi siete autoconvinti di non poter fare a meno. Osservatela, se volete, dall’esterno prima di archiviarla definitivamente o per un breve periodo di prova, ricordatene le fattezze, studiatene la presenza nella vostra vita per riconoscerla se si dovesse ripresentare sotto mentite spoglie, bussando alla porta delle azioni meccaniche. Se non ha un nome, datele un nome per meglio identificarla. Spegnete il pilota automatico e pilotate a naso! Osservate voi stessi dall’esterno, il vostro corpo mentre vive, come in un film di cui siete i protagonisti, per comprendere quanto siete ridicoli nel compiere l’automatismo da cui vi state allontanando: se non si è consapevoli del proprio essere ridicoli, c’è il rischio che permanga un sottile velo di nostalgia nei confronti dell’abitudine da eliminare. Dovete essere convinti per non avere rimpianti: la consapevolezza del nostro sentirci ridicoli necessita, però, di un cambio di scena. Il film mentale non basta: certi particolari non si possono notare se non da un esterno reale, dall’altra parte del vetro, concedendosi un’azione alternativa che segua il pensiero. Quello che state per vivere non è un addio ma un consapevole arrivederci: forse ritornerete a servirvi delle abitudini che abbandonate, solo che non le chiamerete più abitudini ma azioni utili e non periodiche, oserei dire volontarie e ricercate. L’obiettivo è avere il coraggio di smettere di amare le vostre abitudini perché rassicuranti e già sperimentate. Alterando il grafico di quell’azione riscoprirete il valore del suo significato nella vostra esistenza. Fermarsi un attimo prima del tic non è sufficiente: bisogna dimostrare a noi stessi che l’interruzione che abbiamo deciso di effettuare possiede una sua consapevole costanza. Uno dei fattori più importanti per la riuscita di questo esperimento, infatti, è il tempo che lasciamo trascorrere dopo aver preso la decisione di interrompere la dipendenza: ma non si tratta di un mero “contare fino a dieci!” dedicato agli isterici. È qualcosa di più: siamo lì che fremiamo per soddisfare la nostra abitudine, solo un soffio ci separa dal soddisfacimento di quell’ennesimo atto compulsivo che crea un benessere effimero, ma ecco che all’improvviso una lampadina si accende nella nostra personale scatola di Skinner. Non si tratta stavolta di un segnale convenzionale che dà il via al riflesso automatico a cui il nostro corpo obbedisce senza opposizione, ma è una luce nuova, dispettosa, alternativa, irriverente e scomoda. Una luce che ci chiede di attendere, di rimandare, di sospendere la soddisfazione di un falso bisogno, di cercare una strada non battuta, anzi di non cercare nulla, di sperimentarci nella non azione attiva, insomma di fermarci sull’uscio, per una volta sola o per sempre… se l’esperimento funziona. Quella che sembrava un’alternativa scomoda diventa essa stessa una piacevole abitudine: abituarsi a non abituarsi, una contraddizione che salva la vita. Autodirottarsi per mettersi alla prova e sperimentare le virtù del non fare contro la persecuzione del fare. Riposizionare i mobili di una stanza per vederli illuminati da un angolo diverso e per accorgerci che seduti in un lato differente della stanza riusciamo a vedere particolari dalla finestra che fino a quel momento erano sfuggiti al nostro guardare assuefatto. O addirittura disfarsi dei mobili per sperimentare il vuoto. Se il tempo trascorso dalla sospensione è sufficiente ci accorgeremo di aver “abortito” in maniera corretta, di aver tagliato il cordone ombelicale senza traumi e di non aver bisogno delle cose di cui ci siamo privati: l’interruzione di dipendenza sarà premiata con una riscoperta sobrietà e una nuova energia deviata verso mete non contemplate. Potevamo scegliere di non far finta di scegliere e invece continuavamo a far finta di scegliere. Perché? Per paura? No, di meno: per pigrizia; la paura sarebbe già un sentimento più audace e giustificabile. Non dobbiamo attendere la costrizione della crisi per riuscire a vedere altri scenari e interrompere le nostre routines: anche piccole decisioni non eclatanti e silenziose, compiute nel nostro quotidiano, possono fare la differenza in termini di economia psichica. Questa non è una riflessione per la scuola dei maniaci del controllo: noi non controlliamo niente! Però possiamo influenzare il ritmo delle azioni, la loro frequenza e incidenza nella nostra vita, come il capovoga di un’imbarcazione a remi che determina il ritmo di vogata: possiamo scegliere una non battuta, una remata a vuoto, una pausa. Come una nota non suonata, un colpo non vibrato, una pagina saltata e non letta, una routine non rispettata… Non per sadismo, ma per ricalibrare i sensori e ricominciare a percepire il suono basilare della verità.

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VIDEO CORRELATO: “Si può fare” di Angelo Branduardi

Scegli la pillola rossa! Te lo chiede Michele.

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 4 Maggio 2014 by Michele Nigro

SCEGLI LA PILLOLA ROSSA

Je est un autre

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 27 febbraio 2014 by Michele Nigro

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Riemergono dal passato brandelli di vita

e vedo agire tra le nebbie di ieri

un me convinto da un istinto malato,

che non riconosco oggi.

Figliastri di una coscienza forzata,

alternativi a noi stessi

abbiamo vestito i panni dismessi

di personaggi estranei, lontani

interpretando ruoli scaduti

inseguendo i progetti di altri.

Contro natura.

Mi stupisco dei molteplici io

che sono stato

ne ripercorro le gesta e le intime ragioni

rifaccio la strada con loro, per capire.

Per trovare quella giusta.

Io è un altro. Je est un autre: espressione adoperata da Arthur Rimbaud

Addio, Raffaele Rago!

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 1 agosto 2012 by Michele Nigro

(il Prof. Raffaele Rago: secondo da destra)

Ho incontrato l’ultima volta Raffaele Rago per strada alcune settimane fa: cordiale come sempre, scherzoso, disponibile, umano e fraterno. Qualcuno potrebbe dire che le mie sono le classiche parole diplomatiche da utilizzare in pubblico quando viene a mancare una persona conosciuta o un amico. Ma Raffaele Rago era proprio così! Punto.

Lo conobbi anni fa grazie all’attività redazionale della versione cartacea di “Nugae” e dall’alto della sua esperienza giornalistica non lesinò consigli, proposte, critiche, incoraggiamenti… In seguito contribuì personalmente al miglioramento della rivista anche con alcuni suoi scritti (vedi “Nugae” n.8 pag. 7 e 21; n.9 pag. 15 e 37). Era uno studioso appassionato e un combattivo revisionista storico: posso dire senza ombra di dubbio che è stato grazie a lui se ho conosciuto il revisionismo risorgimentale e meridionalista. Raffaele era generoso: tra un caffè al chiosco di Piazza della Repubblica a Battipaglia e una passeggiata in centro, tra una conversazione dotta e un aneddoto divertente, non dimenticava mai di regalarmi una pubblicazione storica interessante, la copia di qualche periodico, degli appunti preziosi riguardanti la storia di Battipaglia o del Meridione, o semplicemente una risata allegra. Raffaele era un tipo giocoso. “Voi italiani…!” mi diceva spesso con piglio brigantesco, per sottolineare in maniera scherzosa ma convinta la sua disappartenenza ad un’Italia postunitaria frutto dell’avventura garibaldina – a suo dire scellerata! – e per riproporre le sue documentate nostalgie borboniche, punti fermi dei suoi numerosi articoli pubblicati su varie riviste e quindicinali. Raffaele era conosciutissimo e benvoluto: passeggiare con lui significava interrompere la conversazione ogni dieci secondi per un saluto a cui rispondere o per una calorosa stretta di mano a qualche amico di vecchia data. Indimenticabili le sue telefonate: quando ci lasciavamo in strada con qualche dubbio dopo una discussione su argomenti storici e culturali, era solito andare a casa, controllare immediatamente una data, l’etimologia di un termine, un fatto storico, e telefonarmi per continuare la conversazione e per confermare la sua meticolosità di studioso. Aveva insegnato, senza mai smettere di farlo!

Raffaele era un poeta; come ci ricorda Angelo Magliano nella sua recensione alla raccolta “Parole in fila” – vol.2 – di Rago (pubblicata sul n.9 di “Nugae” a pag. 37): <<L’autore ha saputo cogliere ed isolare, nella vasta trama delle esperienze comuni, le sensazioni e le impressioni più fuggevoli e quelle che più facilmente sfuggono ai più. Le ha fissate in parole con una sensibilità acuta e fresca. La poesia di Rago, fatta di piccole cose, esalta la visione del particolare rifiutando sia le vaste e complesse architetture sia la ricerca di un tono alto e di un linguaggio indeterminato e stilizzato. La forza della sua poesia sta tutta nell’intensità con cui è vissuto l’attimo contemplativo e non nel processo intellettuale per cui si ordinano e si compongono le intuizioni originarie. A costruire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra.>>

Battipaglia, e oserei dire l’intero Meridione, ha perduto una grande anima. Ci mancheranno il tuo amore per Campagna, la tua passione per il Sud e i suoi “briganti”, la tua ricerca storica, la tua sensibilità poetica e il tuo sapere. La tua simpatia.

Addio Raffaele! E grazie…

<<Dopo l’unità d’Italia e precisamente dal 1876 al 1901, si calcola che in tutto il “regno” ci furono 5.792.546 emigrati, nella sola Calabria 310.363 così suddivisi: Cosenza 166.815; Catanzaro 108.721; Reggio Calabria 34.827 (da Emilio Franzina, “La grande emigrazione” Ed. Marsilio – Venezia 1976). Milioni di “cafoni” parteciparono, in modo attivo, allo sviluppo delle Americhe, dell’Argentina, del Brasile, del Venezuela e dei paesi del Nord Europa (Belgio, Germania, Francia, Svizzera) ed ovviamente dell’Italia Padana. Primeggiano gli U.S.A. Il 90-95% degli italo-americani sono di origine meridionale. Non bisogna dimenticare che dei 5 milioni e più di emigrati, 3 milioni e più erano meridionali. E’ da tener presente che gli emigrati non dimenticarono mai la loro terra, infatti, dopo essersi “sistemati”, inviarono soldi (tanti!) per rendere sempre più belli i loro paesi…>> tratto da “Emigrazione” di Raffaele Rago (Nugae n.8 – n.9 / 2006)

“Il momento della partenza…” su Arenaria n.5

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , on 12 agosto 2011 by Michele Nigro

L’avevo preannunciato in un mio post non recente, precisamente nel mese di Dicembre del 2010. Ora posso finalmente dare fiato alle trombe: è uscito il 5° volume di “Arenaria” (collana rigorosamente aperiodica “di ragguagli di letteratura moderna e contemporanea” curata dal poeta, scrittore e saggista siciliano Lucio Zinna ed edita dalla ILA PALMA di Palermo) contenente il mio saggio intitolato “Il momento della partenza – Analogie e differenze tra gli esempi di Manzoni e Tolkien”. Si tratta di uno scritto a cui ho tenuto e tengo molto, e oggi posso affermare senza ombra di dubbio che la ‘gestazione dell’idea’ e la stesura del saggio sono state fasi tutto sommato “divertenti”, se confrontate con quella “travagliata” di revisione tuttora in atto. E’ vero: ho appena detto che il mio saggio è stato pubblicato, ma questo non significa che la sua ‘messa a punto’ sia terminata, non significa che è un saggio ‘arrivato’… Al contrario: a giudicare dalla serie piuttosto nutrita di risposte competenti da parte di lettori privati e di critiche costruttive ricevute in questi mesi, unite ad alcune analisi “feroci” provenienti dal ‘mondo filologico’ che smontano e mettono giustamente in crisi le zone deboli del mio scritto, pare proprio che l’opera di riscrittura che mi si prospetta davanti sarà difficile, articolata ma al tempo stesso affascinante. Critiche che m’inducono a compiere alcune inevitabili letture d’approfondimento e che precedono la fase vera e propria di “ristrutturazione” del saggio, in vista di una nuova pubblicazione. Scrive Vito Cerullo nell’articolo “Anatomia di un saggio”, pubblicato sul n.7/2005 della rivista letteraria “Nugae”: <<Un saggio non finisce mai, in considerazione della possibilità di modifiche affidate a una seconda edizione; nella primizia del ripensare alla dolce esitante imperfezione ritoccata ogni volta, con la levità del pensiero sugli affanni spastici dello scrivere, e quasi scordata come un sogno dimenticato, fidando poi nella rigiurata fedeltà della memoria. Aver dato vita a questa creatura di forme, significherà averla condannata alla fallibilità, nell’impossibilità (di lei) di potersi negare rifluendo in una dimensione astorica, atemporale, inscindibile da altre materie. Il punto oscuro della vicenda è da ricercare forse nell’ardua comprensione di quando e in che modo tutto comincia.>>

Non ho mai scavato seriamente in cerca delle ragioni inconsce che mi hanno indotto a scrivere questo saggio: forse la voglia di “partire” in senso lato (interiormente e non solo geograficamente); la necessità di sentirsi instabili e fuggitivi ma vivi; il bisogno spudorato di dissacrare, accostando mondi e scritture per alcuni incompenetrabili; il movimento doloroso che di fatto, però, riesce a gabbare la morte e l’ingiustizia. Forse il bisogno di delegare a un dettaglio – la partenza – la responsabilità di suscitare una sensazione d’insicurezza che ci risveglia e ci salva dal torpore di uno schema esistenziale. O forse è stato solo un presuntuoso gioco di analogie forzate tra storie famose e per tale motivo ritenute da alcuni ‘ingessate’.

Ritornerò su questo saggio imperfetto e incompleto. Me lo devo.

In questo numero di “Arenaria” sono in ottima compagnia, come si evince dall’indice del 5° volume.

                                

Eravate quattro amici al bar

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , on 24 dicembre 2010 by Michele Nigro

Eravate quattro amici al bar

Caro Carlo,

mi chiedevi, nella tua ultima lettera, se vedo ancora i nostri amici di un tempo…

Temo di no! Ma per ricordarli, a volte, basta poco. Solcare un vecchio vinile riesumato dal periodo beat; lasciarti trasportare dalle emozioni e dai ricordi; soffrire in silenzio per i vent’anni ormai andati e le sfide non concluse; rivalutare amori rifiutati e ipotesi di vita scartate per orgoglio, mentre tocchi quella pancia molliccia che cerchi di far sparire sudando in bicicletta come un dannato del purgatorio dantesco.

Niente da fare: le persone, i fatti, i luoghi, fanno giri pazzeschi e incuneandosi nei meandri rimossi del tuo Io, attendono anni, settimane, giorni, per poi risalire a galla come boe tenute sott’acqua dalle mani del tempo; non appena una scossa non calcolata rimuove i sigilli di sicurezza di una sana follia tenuta a bada dalla noia.

Potrei dire “eravamo”, emulando Gino Paoli e il suo coraggioso disincanto, ma reputo decisamente più comodo scaricare responsabilità storiche, pentimenti e rimorsi su quattro personaggi apparentemente inventati, e che invece tu conosci benissimo.

Così Settembre, mese di valutazioni e di rivalutazioni, mi induce – mentre guido al volante di un’auto che esplora, quasi in automatico, le vie di una città che risorge dopo la fuga estiva – a ritornare sui miei passi e sulle quattro ordinazioni fatte al tavolino mentale di un bar che ci vede, ancora una volta, protagonisti mascherati del nostro falso incidente…

Come potrei dimenticarti, idealista cattolico. All’epoca ordinasti un vinello paesano – ribattezzato ‘ngnostro per la capacità di rimanere attaccato alle pareti del bicchiere come inchiostro indelebile – e con quell’atteggiamento già pronunciato da educatore scout, sapiente e apparentemente equilibrato – un incrocio tra “Che” Guevara e Don Giussani – valutasti le meravigliose opportunità di quei campi Bibbia che t’accingevi a frequentare nella terra di S. Francesco: l’Umbria. Quanta passione nella ricerca di Cristo tra le esperienze di cammino e quella spiritualità inquieta che t’ha sempre caratterizzato… Una scorza fatta di barba e metodo che nascondevano, però, esigenze magmatiche di una crescita vissuta con allegria, sì, ma anche con tanta convinta riservatezza per un dolore esistenziale mal celato.

Rivedendoci saltuariamente ai matrimoni dei nostri amici, si ritornò a parlare (con minore verve andando avanti nel tempo) delle vicende amare che ci videro protagonisti durante la caduta del clan… Le speculazioni umane e psicologiche che ne seguirono divennero, pian piano, pettegolezzi, accenni, risatine ironiche e poi il nulla.

La ricerca di una fede ideale da seguire e le numerose speranze romantiche insite nel metodo cattolico lasciarono il posto alla vita; non quella con la “v” maiuscola, ma alla vita di tutti i giorni… Pur sempre sacra, nulla da dire, ma ormai fotocopia sbiadita di quei propositi rivoluzionari covati per anni negli scantinati della nostra sede scout – giù in parrocchia, ricordi? – tra riunioni notturne che rasentavano la massoneria e le responsabilità che già facevano capolino chiedendo un lauto tributo in ideali spezzati.

Oggi ci si rivede di sfuggita e la divisa scout che porti addosso con ostinata fedeltà, stona con il mio naufragio esistenziale ricco di esperienze ma disordinato. Un abbraccio fraterno, un dialogo quasi d’ufficio che non tocca i punti dolenti della libera congettura e un’amicizia inossidabile tenuta a galla dai ricordi. Soprattutto ricordi! Ti commuovi ancora, mi dice tua moglie, quando si ritorna su vecchi argomenti lasciati in sospeso e quando riemergono le scene arcaiche di campi estivi assolati e spensierati. A pensarci bene: non sei mai uscito da quel guscio cattolico da cui prendemmo le distanze, noi altri sprovveduti, tanti anni fa… Il vello caldo dell’idealismo e il senso d’appartenenza sono richiami troppo forti e la fede che li alimenta è divenuta sclerotica diffidenza nei confronti del diverso: mi dicono che sei favorevole alla castrazione chimica dei pedofili e fai battute ironiche su quelli che frequentano il circolo di Rifondazione Comunista. “Lontani da Cristo, lontani da tutto…!” – il tuo motto.

Il padre di famiglia, moralista ed enciclico, ha preso il sopravvento, dunque, sull’idealista spensierato tutto “chitarra e volontariato”. Ti capisco, forse… E’ un mondo bastardo, questo, pieno di pericoli e di marciume relativistico camuffato da pubblicità e telefonini nelle mani di preadolescenti senza senso. Ci vuole metodo, amico mio… Volevi lasciare il mondo migliore di come l’avevi trovato, ma alla fine hai capito che è già un’impresa cercare di migliorare sé stessi e mettere su famiglia senza inciampare negli equivoci drammatici di una società malata e senza fede.

Spesso al club degli scapoli ridiamo di te, ebbri della nostra solitaria libertà autoerotica senza orari e mogli incazzate; conviventi di noi stessi allo stato brado, rabbrividiamo pensando all’ordine che hai scelto di far penetrare nei tessuti, non senza fatica, della tua esistenza inizialmente raminga. Ridiamo di te, è vero, ma t’invidiamo fino all’osso per quella preziosa sacra famiglia a cui t’affidavi nelle preghiere dinanzi al presepe della chiesa e che oggi ci riproponi in scala 1:1 a casa tua.

Se potessi restituire i miei anni sbagliati presso l’ufficio degli errori smarriti, ritornerei sulle strade di sudore e tende, riscaldandomi, la sera, presso i fuochi antichi dell’amicizia.

(tratto da Eravate quattro amici al bar)

Emma Saponaro

"Cancella spesso, se vuoi scrivere cose che siano degne d'essere lette." (Orazio)

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