Archivio per space clearing

Ciao!

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 22 novembre 2018 by Michele Nigro

L’economia sul saluto

spietata e sincera

si dipana tra le strade d’inverno,

slalom tra volti del passato

guardando altrove

verso nuove speranze

lontano dal nostro vissuto

non mi fermi

non ti fermo

non ci fermiamo a divagare

risparmio energie per spiegare

e avere ragione con ritardo.

Sono il presente

solo il presente

sono il presente – mi ripeto – che

sarà il passato di domani.

 

Aggiustare il tiro

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 9 marzo 2018 by Michele Nigro

versione pdf: Aggiustare il tiro

Oltre le esigenze d’artiglieria

A volte alcune parole ci ossessionano; a volte queste si organizzano in frasi più o meno brevi che ci accompagnano come mantra ripetuti nel corso della giornata, le sgraniamo con la punta delle dita come rosari tenuti nelle tasche mentali del nostro andare quotidiano. Ve n’è una che mi fa compagnia da mesi, o forse addirittura anni, non saprei fissare l’inizio esatto di questo intercalare rassicurante, e che nel suo riproporsi a orari da muezzin, si fa preghiera laica: aggiustare il tiro.

Nam myōhō renge kyō! Da ripetere ad libitum…

Aggiustare: riparare, fare meglio, diventare più giusto dopo aver fatto una cosa sbagliata, ritornare sui propri passi senza ripetersi, mettendo stavolta i piedi nei punti giusti; ritrovare forze interiori che credevamo perse, grazie a storie sentimentali che ancora una volta – pur nella loro drammaticità – ci fanno credere nella vita; rivalutarsi con occhi nuovi, i propri, e non con quelli degli altri; essere innamorati dell’amore, rimediare, fare manutenzione del sé, volersi bene nell’età della ragione e nonostante la ragione, provare a recuperare gli oggetti prima di gettarli, ritornare a credere non in un dio ma in se stessi, ritornare vergini e risposarsi a ottant’anni (“Mangia prega scopa” perdonami Julia!), ripercorrere strade conosciute come se fosse la prima volta, perdonarsi, rivivere un progetto in modo migliore, coltivare il proprio mondo, addobbarlo nella speranza che la bellezza ottenuta si espanda nell’universo. Allenarsi nel fare una cosa, esercitarsi per diventare più bravi, anche se ad esempio non è corretto dire: “ho aggiustato l’esecuzione al pianoforte di una sonata di Rachmaninov”.

Il tiro: non è quello a cui penserebbe Lapo Elkann, bensì è l’oggetto da aggiustare, da correggere, anche se a volte potrebbe sembrare un qualcosa di impalpabile. Il tiro è l’obiettivo del nostro provarci con devozione, prendendo la mira dalla finestra di una nuova casa; chi aggiusta il tiro ha fede, non ha fretta. “La pazienza è la virtù di chi aggiusta il tiro” parafrasando un noto proverbio. Gli artiglieri dell’esercito sono persone pazienti, meticolose, hanno fede perché non vedono direttamente con i loro occhi l’obiettivo, nella migliore delle ipotesi ce l’hanno nel cannocchiale: lo percepiscono, sanno più o meno dov’è, si affidano al sentito dire delle carte geografiche militari. “Quando due tiri di aggiustamento consecutivi fanno forcella, cioè finiscono a cavallo dell’obiettivo, uno più corto ed uno più lungo, allora si procede con successivi dimezzamenti dell’ampiezza metrica della forcella fino a che, arrivati alla correzione minima di 50 metri, tutta l’unità di fuoco di artiglieria, con i dati di tiro così calcolati, inizia il tiro di efficacia per ottenere sull’obiettivo gli effetti voluti con il numero di colpi necessari.” (1) Bisogna imparare in fretta dai propri errori per non sprecare tempo e proiettili: se l’artigliere continua a sbagliare vuol dire che sta continuando ad affidare il proprio tiro al caso, vuol dire che non sta imparando nulla, che non vuole o non sa imparare. Intanto il nemico si riorganizza, sposta mezzi e uomini, si prende gioco di noi che ci avviamo a perdere la battaglia.

“Aggiustare il tiro!” me lo ripeto mentre guido, cammino, faccio la spesa; lo consiglio addirittura agli amici, come una panacea per tutte le stagioni: “aggiusta un po’ il tiro!”, “guarda, secondo me ti basterebbe aggiustare solo un po’ il tiro!”, “su questa faccenda dovresti aggiustare il tiro!”, “perché non ti fai una bella tisana con fiori di aggiustamenti di tiro, vedrai che ti passa il raffreddore!”…

“Provaci ancora, Sam” diceva Woody Allen, mentre Fiorella Mannoia cantava: “Come si aggiusta il tiro, per non morire!” O pressappoco. È un dire che rassicura, dà speranza in un futuro in cui quel benedetto tiro sarà stato finalmente aggiustato e quindi avremo centrato il bersaglio. Non faremo più forcella! Per dirla all’artigliera maniera. Anche all’errore bisognerebbe dare un limite, una data di scadenza, come per Berlusconi e lo yoghurt. Se proprio ci siamo affezionati al nostro sbagliare (perché fornisce materiale letterario o esalta il nostro esistenzialistico modo di stare al mondo con cui corroderci) cerchiamo almeno di cambiare errore. Per sembrare innovativi. Gli elementi che caratterizzano un’esistenza sono più o meno uguali per tutti: amore, cultura, lavoro, socialità, spiritualità, sesso… Solo noi, tuttavia, possiamo decidere per la qualità di questi elementi.

Ci diamo un’ennesima possibilità per aggiustarlo: se poi ne avremo effettivamente l’occasione e la forza, non importa. È necessario continuare a lanciare il cuore oltre l’ostacolo e crederci: forse il vero e proprio aggiustamento consiste prima di tutto in questo. Ma a fianco della fatalità c’è bisogno di scienza, per non affidarsi al caso a cui s’accennava. Ecco che l’aggiustare il tiro diventa un non ricadere negli stessi punti ma in punti diversi, per imparare almeno cose nuove; cercare nuove amicizie con caratteristiche diverse da quelle precedenti, meno deludenti, con meno furti di energia; continuare ad avere fiducia nella vita nonostante aumentino al cimitero le tombe di amici e familiari, e tu che ti senti ancora in gioco perché fai loro visita stando dall’altro lato della lapide; cercare nuovi amori, portando gelosamente con sé quello che di bello abbiamo imparato dai precedenti battiti di cuore; cercare un nuovo lavoro dopo averne perso uno che non ci dava sicurezza o dopo non averne cercato affatto alcuno per un bel po’ di tempo perché sfiduciati. Aggiustare il tiro del confronto col mondo! Perché “Tutta la vita è risolvere problemi”, intitolava così Karl Popper il suo ultimo libro, un disincantato messaggio da ereditare. Anni fa sul biglietto di un giovane suicida c’era scritto: “questa vita non fa per me!”. Perché, ce n’è un’altra più facile? Se c’è fatemela vedere! Aggiustare il tiro non è solo un disumano tendere alla perfezione ma forse significa proprio cominciare ad accettare la finitezza del proprio esistere e partendo da questa verità fare di tutto per migliorarsi, a volte ricostruendo dalle macerie.

Non prestare sempre lo stesso fianco ma almeno cambiare fianco! Anche per provare cosa si sente quando a essere colpito è un fianco inedito. O, addirittura, imparare a non prestarne alcuno: ma qui sfioriamo la maestria, e ci vuole tempo, esercitazione, esperienza. Dribblare gli eventi, gli schemi esistenziali disegnati da altri, i destini imposti; migliorarsi per non darla vinta a chi ha già scommesso, sicuro del risultato; riconoscere le atmosfere, gli ambienti già vissuti, e non entrarvi nuovamente; non ripetersi. Da 1 a 10, quanto ci odiamo quando ci ripetiamo? Io, 11…

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Frontiera

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 9 agosto 2017 by Michele Nigro

Misterica donna d’estate

dolce conflitto insonne

che appari con l’anima nuda

al crepuscolo dell’amore,

accolta da un calmo stupore

intrecci matasse di parole

su ricordi ancora tiepidi.

 

Calice di vino non bevuto

tra veli strappati di poesia e carne,

intravedo il tuo volto

graffiato dal verso

nel tramonto

di un altro dolore.

(foto: The Berlin Wall, 1962)

On the road

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 7 Maggio 2017 by Michele Nigro

versione pdf: On the road

“… Dovevamo ancora andare lontano.

Ma che importava, la strada è la vita…”

(Sulla strada, Jack Kerouac)

Che differenza c’è tra il cammino di quando si è giovani e quello che si compie da adulti? Non dipende dalla quantità di passi, dalla forza disponibile, dall’orario scelto per camminare, dal tipo di strada, asfaltata o sterrata… Da giovani quasi sempre si cammina in compagnia, si cerca la massa, perché in fondo non sappiamo chi siamo, cosa vogliamo, e nel gregge (o nel branco, a seconda dell’indole) ci diluiamo, ritroviamo negli altri i pezzi mancanti della nostra identità, gli integratori di personalità; dal gruppo riceviamo la carica energetica per fare, decidere, confrontarsi, coltivare ideali, costruire qualcosa per noi e la comunità, o per illuderci di farlo; da giovani si ha la speranza di camminare in compagnia di un mondo fatto di persone perché il disincanto non ha ancora preso il sopravvento e crediamo testardamente nella parola insieme: non si è consapevoli della condizione solitaria dell’essere umano, del fatto che il mondo esisterebbe ugualmente anche senza gli altri e che la visione che abbiamo di questo pianeta è solo nostra e di nessun’altro; l’essere soli è una condizione non permanente ma fondamentale, da vivere almeno una volta nel corso della vita: la patologia nasce dall’imposizione della solitudine; quando è spontanea e ricercata in piena autonomia, deve essere vissuta con serenità.

L’assioma aristoteliano dell’uomo animale sociale ce lo raccontiamo volentieri perché conviene da un punto di vista pratico, economico (senza per questo dover giungere agli “estremi” descritti da Hobbes); perché abbiamo bisogno degli altri per sopravvivere in determinati momenti, per non sentire il freddo della galassia in cui vaghiamo. In realtà siamo soli anche quando ci uniamo in matrimonio o sposiamo la causa ideologica di un partito politico che ci avvolge e ci prende totalmente. La solitudine è la parte vera, cruda, naturale del nostro esistere: tutto quello che riusciamo a conquistare partendo da questa verità assoluta – verità che non deve scoraggiare o causare malinconia e che è in grado di posizionarci dinanzi a uno specchio per alcuni doloroso e al tempo stesso catartico, che purifica dal superfluo della verde età – è una conquista duratura e inattaccabile, che dà i propri frutti in un’ora inattesa. Quando si è giovani si cammina insieme agli altri perché non conosciamo il potere riparatorio e ricostituente della nostra solitudine, non l’abbiamo ancora sperimentato, ed è giusto che sia così a quell’età. Il passaggio è graduale, la perdita quantitativa di presenze umane è determinata da uno stillicidio impercettibile.

Da adulti, una volta raccolta una quantità sufficiente di esperienze sia positive che negative, abbiamo la forza e la consapevolezza che occorrono per camminare da soli. È un cammino solitario che paradossalmente permette di entrare in sintonia con molte più persone, di incontrare chi è come noi e di escludere la massa che scherma il segnale. Cantava Fossati: “… cambio posto e chiedo scusa / ma qui non c’è nessuno come me…”. Per sintonizzarci sulle stesse frequenze di chi è come noi, però, dobbiamo imparare a fare silenzio, a stare soli, in disparte per meglio osservare e capire cosa vogliamo, ai margini (ed essere sereni mentre si sta al confino, altrimenti l’insoddisfazione per l’assenza di persone e cose vane, che abbiamo creduto indispensabili, disturba l’ascolto); come ho scritto anni fa nella poesia Riconoscersi: “… ho riconosciuto tra sussurri di venti rapaci / la tua voce rivolta all’anima…”. Non c’è altra via.

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Rosabella

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 24 dicembre 2016 by Michele Nigro

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Ardono solitari i fuochi poveri

nutriti da legni infantili,

oggetti sfasciati dal tempo

e da arroganti novità

rassegnati al disuso

si rendono utili bruciando

di malinconia invernale

fino all’ultima fiamma.

 

Crepitanti memorie

faville dal passato

scene e voci senza ritorno,

un vecchio lettino

orfano di bambini

uno scaffale tarlato

un tavolo testimone

di gioiosi convivi

una finestra senza cielo

una poltrona

stanca di poltrire.

 

Solo le parti in ferro

resistono al fuoco,

una vite slegnata, qualche molla mollata

un chiodo fisso, un bullone non più bullo.

Sono i ricordi

duri a morire,

la nostalgia li preserva

da fiamme e ruggine.

immagine: lo slittino di marca “Rosabella” appartenuto

a Charles Foster Kane nel film “Quarto potere” (Citizen Kane)

Specchio vs Muro

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 29 ottobre 2016 by Michele Nigro
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Elogio dei muri.
Molti pensano che sia lo specchio a riflettere e a far riflettere (si dice sempre: “mettersi davanti allo specchio” – come quello della strega di Biancaneve che rivela cose, fatti e persone – per interrogarlo e interrogarsi). Invece ho sperimentato negli anni che il vero oggetto riflettente, della riflessione che cambia gli animi, è il muro (non quello ungherese o di Calais: mi riferisco a muri invisibili, psicologici, oserei dire “terapeutici”, a muri che si materializzano interiormente, senza bisogno di malta, nelle persone che vogliamo indurre alla riflessione). Si tratta di muri costruiti dall’assenza, che non permettono più di nutrire il presente con una costante fisicità a volte dannosa. Sono i muri che congelano le sabbie mobili della falsa amicizia assistenzialista, che interrompono la sottovalutazione del prossimo dato per scontato e la conseguente mancanza di rispetto. Sono i muri che realizzano l’autentica assertività, che debellano le competizioni evoluzionistiche tra presunti esseri “superiori” e “inferiori”. Il muro è il non esserci sempre e comunque per prestare il fianco; è la variazione sul tema, la mutazione di ritmi abitudinari; è l’aquila che non vola a stormi (Battiato docet); è la difesa delle proprie ragioni senza fare rumore, senza quei clamori che alzano polvere. Lasciando gli altri piantati nel terreno delle proprie convinzioni senza l’inutile trauma dello sradicamento o della “rieducazione”. Il muro non è violento, il muro non giudica; il muro è: osserva, non dice, registra, non risponde e quindi non insulta. Esiste ed è sereno.
Davanti all’insopportabile silenzio dei muri la gente riflette di più; davanti allo specchio, vedendo solo se stessa in movimento e non l’altro che nel frattempo sta dietro, crede di osservare la verità, l’unica immagine possibile, quella che chiamiamo erroneamente “realtà” ma che è solo il prodotto delle nostre presuntuose conclusioni. Lo specchio è vanità senza saggezza; è l’eco di noi stessi, di quella parte di noi che ci piace e ci soddisfa; il muro è un maestro severo, a volte crudele che sprona all’evoluzione e alla ricerca, che fa riflettere senza riflettere, che non concede speranze ma crea le premesse per sperare. Così come accade con il vuoto meditativo, anche con il muro, che è muto e non restituisce immagini gloriose o pensieri artefatti, possiamo realmente indagare su noi stessi e immaginare come sono andate le cose, senza illusioni, senza suoni confortanti o interpretazioni imposte da una razionalità di comodo. Le “prigioni” che riabilitano non sono fatte di specchi ma di muri.
Molti però vedono solo una fila di mattoni e restano lì, immobili, orgogliosi, aspettando novità, perdoni, pentimenti, deboli ritirate dettate dal quieto vivere. Altri, pochi in realtà, immaginano, ricordano, si sforzano, proiettano storie alternative su quel muro e piano piano finalmente capiscono. Salvandosi, sperando, rivalutando gli assenti o seppellendoli definitivamente dopo un equo processo, e tornando in un modo o nell’altro a sorridere nel mondo.
Siate muri, non specchi!

Ammazzare lo spazio

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 16 agosto 2015 by Michele Nigro

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Tempo, per molti tiranno

abituale capro espiatorio

di geometriche incomprensioni.

Cronometri umani

in lotta contro la fine

si agitano vagando

nei concessi angoli di vita.

Ti muovi, simulando libertà

attraverso luoghi sbagliati

contando i minuti

come granelli di sabbia

su spiagge ignorate,

è l’impostazione originale

dello spazio vissuto

a nascere storpia.

R.A.D.A.R.

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 10 luglio 2015 by Michele Nigro

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R.A.D.A.R.

Regole di vita intercettate

Rischiare, con una serie studiata e chirurgica di “no”, di perdere occasioni di vita buone solo a fare volume esistenziale; in compenso imparare a puntare sulla qualità, ad essere un po’ meno ‘foglia al vento’ e rispettare, facendolo rispettare anche agli altri, il proprio tempo. Le migliori occasioni, a volte, sono quelle perse; anche nel non vissuto c’è vita a dispetto dei fautori del fare. Ma non può esserci ‘economia energetica’ senza obiettivi: il progetto, e le scelte che facciamo intorno ad esso, sono strettamente interconnessi anche se all’apparenza slegati.

Andare controcorrente imparando ad andare prima di tutto ‘contro se stessi’, non cedere a un’apparente lampante convenienza e a una logicità della prima ora; allenarsi alla seconda battuta, al vuoto creatore o alla pausa musicale, all’eversione insita nell’incompleto e alla pazienza dei movimenti, aprendo lettere e pacchi postali dopo ore o giorni; disciplinare l’entusiasmo febbrile con la museruola della defervescenza. Un darsi tempo che non reprime gli animi ma li libera dal possesso e dalla nevrosi che rende ciechi.

Dare credito alla propria esperienza: è vero, le cose possono cambiare ed essere sempre diverse di volta in volta, ma ignorare il campanello dell’esperienza significa ignorare la propria storia, gli insegnamenti interiorizzati, le cose già fatte, le persone incontrate, le tipologie e le ideologie fallimentari, che stanno lì a dirci cosa non ripetere, chi evitare, per aggiustare il tiro, per esplorare nuove angolature e tentare di crescere sempre e solo in nome della qualità. Fare prevenzione senza farlo pesare al prossimo e senza giudicare, con stile.

Archiviare vicende e personaggi, per non rimanere impantanati nelle buche fangose della ricerca di gratitudine o di vendetta; lasciar andare, saper voltare pagina e cambiare scenari, svincolarsi da schemi, dogmatismi, luoghi, etichette, obblighi inventati dall’altrui vanità e dalla sete di dominio sul tuo spazio e sul tuo tempo. Ci è piaciuta in passato la funzione vanagloriosa di ‘ascoltatori’, fino a quando non abbiamo capito che la promozione del prossimo derivante dall’ascolto e da una compassione pseudoreligiosa si stava trasformando in un travaso di energia negativa basato sullo sfogo non costruttivo e sull’egocentrismo dell’ascoltato. I danni dell’altruismo non hanno tardato a manifestarsi; il silenzioso potere autorigenerante del libero arbitrio non è stato compreso dalla storia sociale. Sfuggire con classe a una storia già scritta, senza strappi eclatanti: ci vuole molto esercizio lontano dai riflettori, ma non è impossibile realizzarlo.

Ragionare prima di rispondere o di partire. La scelta della parola e della meta geografica non è una faccenda da prendere sottogamba: nel primo caso si rischia di impelagarsi in situazioni non realmente desiderate e cercate; nel secondo caso non viene rispettata la cosiddetta ‘vocazione nel (e non del) viaggiatore’, da non intendersi come predisposizione al viaggio-spostamento fisico: le città e i luoghi in realtà ci chiamano. La loro voce, facendo leva su archetipi ereditati non si sa bene come, è lì dentro di noi che cerca da anni di convincerci a partire, ma spesso scegliamo posti insensati suggeriti dall’emotività collettiva, dando forma a partenze non confortate da una struttura vocazionale coltivata nel tempo.

R.A.D.A.R. è vedere nella tempesta, prevedere gli sviluppi e quindi, per quanto possibile, prevenire il caso tenendo saldo il timone del nostro andare, percepire la sensazione forse illusoria di avere un minimo di controllo sull’esistenza in base a piccole decisioni quotidiane, apparentemente effimere ma a lungo andare incisive.

pdf: R.A.D.A.R.

Perché non bisognerebbe partecipare a concorsi letterari a pagamento, o a nessuno di essi.

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 9 Maggio 2015 by Michele Nigro

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“… non si può partecipare
subito a un concorso di poesia
che idea
intitolarla ‘apnea’
vale un primo posto…”

(“Il pescatore di asterischi” – Samuele Bersani)

 

Chi si appresta a scrivere il seguente post, in passato, ha partecipato a numerosissimi concorsi letterari comprendenti la cosiddetta “quota di partecipazione” o “tassa di lettura”, preferendo di gran lunga la prima definizione, anche se l’effetto è lo stesso, dal momento che viviamo in un paese i cui abitanti sono già abbondantemente tassati da chi governa e non c’è bisogno di esserlo anche in ambito culturale e creativo. Sempre lo scrivente gestisce un “servizio di recensione a pagamento” (ATTENZIONE: servizio non più attivo dal 19/08/2017, n.d.a) e quindi, prima che qualche detrattore di professione metta in evidenza questa sua presunta contraddizione, ci terrebbe a distinguere i due momenti “pagati”: mentre una recensione è caratterizzata da un rapporto privato tra recensore e autore, e il recensore non sfrutta secondariamente l’opera ma mette a disposizione il proprio tempo per recensire, tempo che deve essere valorizzato ricorrendo al vil denaro, nel caso delle opere inviate a un concorso letterario vi sono gli estremi per uno “sfruttamento” delle stesse nell’ambito di una manifestazione sociale o di un evento culturale pubblico, e quindi a volerla dire tutta dovrebbero essere gli autori partecipanti a ricevere un pagamento, dal momento che senza le loro opere la manifestazione letteraria non avrebbe luogo. Poiché anche questa ipotesi apparirà a molti di voi utopica e lontana dalle esigenze pratiche reali di chi organizza degli eventi che comportano una spesa, l’unica soluzione dovrebbe essere quella di indire bandi per concorsi letterari caratterizzati da un rapporto di gratuità tra autori/partecipanti e organizzatori/lettori, facendo affidamento quando possibile a fonti terze di sovvenzionamento.

Tenterò in seguito di elencare quelle che secondo il mio modesto parere sono le motivazioni che dovrebbero spingere un autore a partecipare solo ed esclusivamente a concorsi gratuiti o forse, addirittura, a non partecipare a nessun tipo di concorso:

  • al di là del fatto che chi partecipa, con il semplice “esserci”, alimenta già un meccanismo che tiene in piedi l’evento, c’è da dire che accade molto spesso di assistere anche alla conseguente nascita editoriale di antologie rimpolpate dalle opere in concorso e che dalla cui vendita i vari autori partecipanti non ricaveranno una cosiddetta “lira scannata”: i proventi serviranno a qualche opera di beneficenza di cui si perderanno le tracce dopo pochi minuti dalla fine del concorso o a un più realistico recupero di quelle spese anticipate dai volenterosi organizzatori che a volte si autotassano o alleggerendo le già esigue casse di una sconosciuta “associazione culturale” – in ogni angolo del mondo c’è sempre un’associazione culturale che sforna eventi – che per darsi una ragione di esistere più consistente della semplice registrazione negli elenchi dell’associazionismo, sceglie di “scendere in campo”, quello culturale ed editoriale, e salvare finalmente dall’annientamento letterario questa società già ampiamente devastata da WhatsApp e Facebook! La maggior parte dei concorsi, inoltre, non inviando neanche una copia omaggio all’autore (e dico “una”, con la sacrosanta clausola di pagare almeno le altre eventualmente ordinate), costringe quest’ultimo a dover aggiungere alla succitata tassa di lettura anche un’altra tassa di lettura, ovvero la propria: va pagato il piacere vanitoso e vano del leggersi su un prodotto editoriale destinato il più delle volte a circuiti interni (“io leggo te, tu leggi me!”) e sconosciuti alle grandi “correnti” commerciali. In tanti anni di partecipazione a questa tipologia di concorsi, solo una volta mi è capitato di intravedere una di queste antologie tra gli scaffali di un famoso bookstore abituato a metabolizzare altre tipologie di prodotti e a ritmi ben più serrati di quelli di un’antologia con cadenza annuale. Ma a volte questi “prodotti di nicchia” sfuggono al duro filtro del marketing per giungere alla vista del grande pubblico.

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Che tu sia maledetto!

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 28 dicembre 2014 by Michele Nigro

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Sia maledetto chi si ferma per strada

tentando di convincere il prossimo,

chi sudando ritorna sui propri passi

in cerca dell’amico da convertire.

Siano maledette le prove

che ti affanni a produrre

per far cambiare idea a chi ti ha giudicato

senza processo.

Uno specchio onesto capace di mostrare

i tuoi gesti ridicoli e scodinzolanti,

questo ti auguro di trovare

lungo il fiero cammino che percorri da secoli.

Cane vigliacco e senza dignità

dissotterra le tue ossa e divorale altrove,

la vita testimonierà per te

all’udienza d’appello!

Come sospeso tra esistenze parallele

sorridi appoggiato alla ringhiera del tuo presente

osservando in basso

la ridacchiante zavorra di ieri.

Aria incondizionata

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 20 dicembre 2014 by Michele Nigro

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Tosse nervosa da rigattiere, intercalare tra rabbie non dette

futura bronchite cronica di chi si fuma la vita

sintomo di una partenza rimandata,

sfianca il libero respiro l’irriverenza degli acari lettori

ospiti impaginati nel mio piccolo mondo polveroso.

La finestra è sempre la stessa

di passati space clearing

speranze rilanciate di continuo,

sposto vecchi mobili e sentimenti

per cercare nuove angolazioni

offuscate dal superfluo,

prove evolutive in corso, simulo esistenze

assetato di aria incondizionata

tento di percorrere senza arrendermi

corridoi alternativi d’ossigeno.

Emma Saponaro

"Cancella spesso, se vuoi scrivere cose che siano degne d'essere lette." (Orazio)

il giardino dei poeti

la poesia è la fioritura del pensiero - il miosotide non fa ombra alla rosa, ciascuno la sua bellezza

Pomeriggi perduti

quasi un litblog di Michele Nigro

Mille Splendidi Libri e non solo

"Un libro deve essere un'ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi"

Poetarum Silva

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Maria Pina Ciancio

Quaderno di poesia on-line

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Riflessioni. Incontri. Contaminazioni.

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L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.

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Il blog di Interno Poesia

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La Camera Scura - il blog di Vincenzo Barone Lumaga

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