Possiamo scindere la “realtà virtuale” dalla “realtà reale”? Crediamo veramente che tutto quello che combiniamo sul web sia un gioco che resta relegato in un angolo immateriale? Nel mondo distopico descritto nel film Ready Player One, il peso delle proprie azioni virtuali incide, e come, sulla realtà immanente. Anche nel nostro presente è così: un’attività illecita (frodi, terrorismo, pedopornografia, ecc.) sviluppata nel cosiddetto dark web, non porta all’arresto dell’avatar ma della persona in carne e ossa che c’è dietro. Lo scandalo di Cambridge Analytica c’insegna che i nostri innocui e virtuali “mi piace” fanno gola a chi si occupa di comunicazione strategica per le campagne elettorali.
OASIS, il mondo virtuale ideato e creato dal programmatore James Halliday, ricorda troppo facilmente Second Life, ma non solo: la gratuità d’accesso, la sua apparente democraticità, dove tutti possono essere presenti, gareggiare per il proprio successo, socializzare offrendo solo il meglio di sé o quello che si vuole far credere essere il meglio, ricordano le piattaforme di social networking come Facebook e simili… James Halliday e il suo socio, invece, rappresentano la versione cinematografica di certe “coppie nerd” che hanno cambiato la storia dell’umanità sia dal punto di vista tecnologico che culturale, e direi anche psicologico: una fra tante, quella formata da Steve Jobs e Steve Wozniak, fondatori della Apple. O i fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin… Ma gli esempi potrebbero essere molti di più.
Può la televisione del passato essere superiore a quella attuale dal punto di vista dei contenuti? La risposta, quasi scontata, è sì! E ne ho le prove. “Racconti di fantascienza” di Alessandro Blasetti (regista già noto al pubblico italiano per lavori cinematografici non fantascientifici, anche se la produzione di Blasetti è caratterizzata fin dagli esordi da una interessante eterogeneità) è il titolo di un programma televisivo in tre puntate mandate in onda su Rai Due nel 1979 e rappresenta un esempio di televisione ormai estinta e non soggetta alle dure leggi dell’omologazione mentale, come accade invece nella ipervitaminica e digitalizzata televisione del terzo millennio. Una televisione, quella del programma di Blasetti, ingenua, grossolana, forse approssimativa e per certi versi “rozza” ma efficace, diretta ed entusiasta della propria funzione propositiva. Ho avuto il piacere, recentemente, di rivedere le tre puntate e devo dire che ogni tanto “fa bene alla salute” poter gustare un certo tipo di produzione televisiva: le tematiche fantascientifiche affrontate nel programma (“Il tempo e lo spazio”; “I robot”; “I mostri”) non sono certamente originali per un fruitore di science fiction del ventunesimo secolo, ma l’aspetto che vorrei evidenziare in questo mio post è quello riguardante lo stile scarno ma genuino con cui Blasetti (coadiuvato dalla lettura, ad opera del bravissimo attore Arnoldo Foà, di brani appartenenti al genere letterario fantascientifico: nella prima puntata “Immaginatevi” di Frederic Brown e “Tutto in un punto” di Italo Calvino…) tenta di introdurre nel tessuto televisivo e quindi sociale di una nazione, l’Italia della fine dei difficili anni ’70, una argomentazione che oggi paradossalmente (nonostante i temi appartenenti al genere sci-fi siano, nel 2010, più numerosi e scientificamente più raffinati rispetto al 1979) è di fatto relegata in canali specialistici e ufficiosamente snobbata dalla sempre più prevalente e rimunerativa “televisione realitaria” fatta di talent show, trasmissioni d’intrattenimento ad impegno mentale zero e velinismi vari. “Racconti di fantascienza” è una semplice vetrina in cui vengono presentati (tre in ogni puntata) dei brevi sceneggiati tratti dai racconti di alcuni autori di fantascienza oggi considerati veri e propri pilastri della narrativa sci-fi: “Primo contatto” di Murray Leinster; “Un caso insoluto” di Franco Bellei; i tre racconti “La crisalide”, “L’assassino” e “I sosia” di Ray Bradbury; “Ultimi riti” di Charles Beaumont; “L’esame” di Richard Matheson; “La decima vittima” di Robert Sheckley (che aveva ispirato nel 1965 l’omonimo film di Elio Petri – “La decima vittima” -, anche se il titolo originale del racconto di Sheckley (The Seventh Victim) faceva riferimento solo ad una “settima vittima”); “O. B. N. in arrivo” di Edmund Cooper. Racconti sceneggiati in maniera semplice e a volte anche comica, come nel caso di “Primo contatto” affidato alla simpatica interpretazione di Nanni Loy, capaci di lanciare un messaggio ben preciso al pubblico.
Francamente non so se torneranno epoche simili dal punto di vista televisivo: la situazione attuale, facendo zapping tra gli innumerevoli canali del nuovo e tanto esaltato digitale terrestre, non mi permette di sperare in nulla di positivo. Le regole ferree di un mercato televisivo sempre più schiavo dello share (e rappresentativo, purtroppo, dello stato culturale e mentale medio nazionale) non offrono spiragli attraverso cui introdurre certi sperimentalismi. Il processo di separazione della fantascienza dal mainstream, dal 1979 ad oggi, è stato lentamente ma inesorabilmente realizzato: anche se attualmente si parla tanto di diluizione della fantascienza in altri generi letterari e di innesti tra narrativa sci-fi e altri filoni legati al vasto mondo della creazione fantastica e non… Il problema non è trovare nuove soluzioni per ibridare un genere già da tempo in crisi, ma riuscire a presentare e spiegare in maniera normale e disinvolta una serie di temi, quelli fantascientifici, ad un pubblico che sembrerebbe non avere più gli strumenti necessari per “chiedere” o per sperimentare, e a cui non si ha più il coraggio di proporre “cose antiche” ma che sarebbe utile rispolverare.
Assistere ad un programma televisivo che tratta di fantascienza e condotto elegantemente da un maestro del cinema italiano in giacca e cravatta? Verrebbe quasi da rispondere, osservando l’attuale panorama televisivo italiano: “Pura fantascienza!”
Il mio esordio con la fantascienza, in qualità di fruitore, lo si può far risalire alla fine degli anni settanta quando sulla Rai cominciarono a trasmettere uno dei telefilm di genere più belli che siano mai stati realizzati: “SPAZIO: 1999”, una produzione italo-britannica ideata nel 1973 dalla coppia Gerry e Sylvia Anderson. A quell’epoca il 1999 (così come il tanto atteso anno 2000!) sembrava lontano e la colonizzazione della Luna conservava ancora un certo fascino scientifico e fantascientifico. Tutti credevano che il 1999 sarebbe stato l’anno della svolta, il punto di non ritorno, il numero magico a partire dal quale sarebbe avvenuto un conto alla rovescia inimmaginabile, e invece… Nel ‘99 non successe nulla di positivamente eccezionale o di straordinariamente anomalo: il tanto temuto “Millennium Bug” che avrebbe dovuto mandare in tilt i computer del pianeta per nostra fortuna non si verificò e la cosa più eclatante e bella da vedere fu l’eclissi di sole nel mese di Agosto; eclissi che filmai con la mia cinepresa dall’alto di un campanile e che in seguito avrei utilizzato nel mio racconto intitolato “Ėkleipsis” per descrivere le “eclissi” interiori dell’essere umano e per realizzare un provvidenziale “elogio dell’errore” applicabile non solo a livello astronomico ma soprattutto umano.
“Spazio: 1999” era un telefilm particolare e sufficientemente avveniristico (pur essendo un prodotto europeo e non hollywoodiano): oltre alla tecnologia che possedeva una certa verosimile precisione e le architetture interne che mostravano una predilezione per il “design” dell’epoca, ricordo l’ovvia presenza di un’impronta della moda degli anni ’70 nell’abbigliamento dei personaggi e nello stile in senso lato.
Gli abitanti della Base Lunare Alfa sembravano dei “figli dei fiori” laureati al MIT e capii dopo molti anni che in realtà gli Autori, forse, volevano ricreare in versione fantascientifica una di quelle comunità naturalistiche che sorsero durante il mitico ’68 in alcune parti del mondo: una “comune” lunare.
E poi l’inverosimile storia cosmologica utilizzata nel telefilm per denunciare gli abusi dell’uomo sulla natura, anche su quella extraterrestre: la Luna che si distacca dall’orbita terrestre a causa di esplosioni nucleari che innescano una reazione a catena e altre forzature simili. Al di là della credibilità scientifica o meno di un tale “destino lunare”, in questo distacco cosmico (la fantascienza esige un certo rigore, è vero, ma non dimentichiamo che è anche metafora letteraria e quindi ha bisogno di una certa sospensione dell’incredulità) vi ho sempre letto la realizzazione di un “gap generazionale”: i figli (dei fiori) che si distaccano dalla Terra dei padri per vivere una vita autonoma e senza radici. La libertà dell’autogestione, la ricerca delle “differenze” interplanetarie, il confronto con i “diversi” incontrati lungo il cammino. Una ricerca obbligata e vagabonda non sempre coronata da incontri pacifici ma supportata da una speranza inesauribile.
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L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
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