Tra le sue mani non più tanto giovani Giulia stringeva, delicatamente e con perizia museale, una foto in bianco e nero. Ne aveva tante di foto così e la scatola di fortuna che le conteneva nella credenza della camera da pranzo ormai aveva raggiunto un “punto di non ritorno” strutturale e di tanto in tanto avvenivano rigurgiti fotografici con pezzi di storia che cadevano sul pavimento. Il fascino della fotografia trovava in quella scatola la sua massima realizzazione e non erano certamente le pose studiate di qualche artista della messa a fuoco a rendere uniche quelle foto, ma i momenti storici che casualmente e nostalgicamente testimoniavano.
Gerarchi fascisti in alta uniforme, orgogliosi soldati con i capelli lucidi di brillantina Linetti prima della partenza per il fronte, donne affascinanti di porcellana e talco sfuggite al cinema della “Belle Epoque”, bambini imbalsamati dinnanzi al mago fotografo… Tutte le tipologie umane di un’Italia scomparsa erano contenute in quella scatola magica.
La foto che Giulia aveva riesumato durante il pomeriggio afoso di quella estate meridionale non era particolarmente “storica”, se per Storia intendiamo solo gli eventi che accomunano più di cento o mille persone.
Ma alla storia di Giulia apparteneva e come. E questa era la sola cosa che contava.
Gli attimi immortalati dalla pellicola rappresentano le ingenue speranze di chi crede nell’infinito ed è proprio questa illusione che ci spinge ogni volta a premere il pulsante dello scatto di una macchina fotografica.
L’illusione dura quanto la stessa frazione di secondo in cui avviene l’apertura e la chiusura velocissima dell’otturatore. Dopo di che le foto diventano foglie secche che, distaccandosi dall’albero della vita, vanno incontro al proprio destino. Solo alcune raggiungeranno i cosiddetti posteri che a volte sono così “posteri” con la mente (molto posteri…Troppo posteri!) da non accorgersi di quelle foglie secche. Schiavi eterni di una corsa al progresso che li rende inconsapevoli persino della loro stessa data di nascita. Il “fogliame” raggiunge, percorrendo itinerari impossibili da ricostruire, attraverso incendi e alluvioni, guerre e traslochi, i nostri coloratissimi giorni. A volte pernottano per decenni nelle soffitte della nostra indifferenza fino a costituire scomodi lasciti per veloci figli professionisti accompagnati da isteriche mogli, sacerdotesse degli umori e dei ricordi coniugali. Altre volte, per nostra fortuna e per onestà storica, le foglie sono raccolte diligentemente negli album del cuore di chi crede nella memoria. E Giulia apparteneva sicuramente a quest’ultima categoria.
E fu così che dialogando con il figlio Lele sul significato storico e personale di certe foto e sulle vicende sconosciute a esse legate, nacque l’idea di quella pomeridiana escursione nei campi fioriti della storia. Lele non era insensibile a certi racconti e anche se dimostrava una fisiologica insofferenza nei confronti delle complicate ramificazioni parentali e degli intrighi genealogici su cui Giulia spesso si attardava con passione e dovizia storiografica, nutriva un distaccato rispetto per le storie della madre e pensava che in fin dei conti rappresentavano i prodromi della cultura che l’aveva accolto anni addietro al momento della sua nascita. A volte Lele si commuoveva interiormente riflettendo sul coraggio di quegli anni divenuti storia e sui cambiamenti di quelle persone a lui care osservate sempre da una prospettiva viziata dall’abitudine. In quei momenti pensava: “Anche la nonna è stata giovane? Incredibile!”
L’automobile sgangherata guidata da Lele si diresse con i suoi vecchi pneumatici in direzione di Eboli. Superò le deserte strade estive dell’incrocio per Campagna e s’impegnò sui dossi di quella strada tanto cara a Lele perché ricca di ricordi avventurosi legati al suo passato da “giovane esploratore” e alle disperate ricerche di fresche fontane per dissetare le gole impolverate dopo i chilometrici tragitti percorsi a piedi tra canti e zaini in spalla. Anche Lele aveva la sua storia.
In vista della discesa tortuosa che porta a Serre, Lele girò a destra – direzione Persano – e s’infilò in una stradina parallela alla strada ferrata. Mentre sterzava con facilità pensava sorridendo alle vite sprecate di scrittori e di matematici solitari che con le loro famigerate “macchine del tempo” hanno torturato i nostri fanciulleschi pomeriggi trascorsi mangiando “pane e fantasia”. Siamo noi le vere macchine del tempo: è inutile costruire grotteschi strumenti che viaggiano nel tempo… Basta una foto, una madre invecchiata al punto giusto e una discreta automobile che non ti lascia a piedi. E la cosa più straordinaria è che il “meccanismo” funziona davvero!
Infatti, alla fine della stradina ecco apparire dalle nebbie del tempo il “famoso” e tante volte nominato “casello”. Il padre di Giulia, e quindi il nonno di Lele, era stato capostazione delle ferrovie sulla linea Salerno–Potenza e spesso avevano cambiato casa, o meglio casello, per esaudire le volontà della direzione del personale ferroviario: Romagnano, Baragiano, Eboli…
Ma Persano rappresentava il luogo delle massime gioie e dei massimi dolori. L’infanzia felice e naturale tra il tifo da Salmonella che serpeggiava e le riunioni di famiglia alla luce di lampade a petrolio; i treni che transitavano di notte e i bambini che da sotto le coperte li scambiavano per draghi; le storie sui “lupi mannari” che il bisnonno Alberto pungeva con uno spillone giusto in fronte per farli ritornare “umani”; il “verme solitario” che si prendeva con la carne di maiale; la seconda guerra mondiale e le pagelle fasciste; il vescovo di Campagna – Monsignor Palatucci – che mentre aiutava il nipote a salvare gli ebrei dalla deportazione si concedeva momenti di svago pranzando a casa di nonno Michele e svolgendo la funzione di tutore di Adolfo, fratello di Giulia; le biciclette che si potevano lasciare appoggiate ai muri perché “durante il fascismo nessuno rubava” e altre ingenue leggende; la cioccolata degli americani e gli ex alleati tedeschi sempre più arrabbiati con gli “italiani traditori”.
E poi, ancora, i bombardamenti dei “fratelli” americani che come sempre fanno capire, dall’alto della loro potenza militare e tecnologica, chi comanda; la salvezza dalle bombe dormendo nelle gallerie ferroviarie dopo che sirene rauche avvertivano dell’arrivo dei bombardieri statunitensi; le camicette confezionate con il tessuto dei paracadute dell’aviotrasportata americana; i pidocchi dell’esercito italiano; i balilla pentiti; lo sbarco a Salerno; la nonna Clementina malata di malaria e salvata da un veterinario dell’esercito americano che mentre le propinava una purga equina disse ai figli in un italiano stentato: “…Mammà, domani o salvare o morire…O.K.?”; le patate cucinate in tutti i modi perché c’erano solo quelle da mangiare; i ladri “scomparsi” durante il fascismo che riaffioravano per la fame; i vestiti fatti in casa e le scarpe nuove che si attendevano come si attende la nascita di un bambino; il primo ghiaccio fatto da una macchina frigorifera; i primi frutti esotici mangiati grazie a un’acculturata cugina romana; i brani di Glenn Miller e della libera musica americana; i dischi fonografici delle opere di Verdi gettati tra i binari durante i barbarici saccheggi delle truppe tedesche in ritirata; i primi fidanzamenti e le feste alla diga di Persano…
Il casello era non solo l’abitazione del capostazione, che aveva il compito di regolare il traffico ferroviario con le sole forze della vista, della paletta luminosa, del telegrafo e del fischietto, ma era il punto nevralgico dei passaggi a livello, prima della loro automazione… Grosse responsabilità miste a scene di vita casalinga: il berretto da ferroviere posato sul tavolo vicino al pane appena sfornato e alla carne di maiale da insaccare nei budelli.
Di quel nonno fugace Lele conservava solo alcune foto e il fischietto con cui fece partire migliaia di treni tra i fichi d’India, i muri di pietra dove le lucertole s’abbronzavano e le signorine anni trenta fresche di sapone e rossetto appoggiate alle loro biciclette nell’attesa che il passaggio a livello si levasse. La “poetica del treno” non ha eguali tra gli slanci emotivi e artistici dedicati alle invenzioni dell’uomo.
E cosa dire delle stazioni e dei loro antichi arredamenti: le scomode panche di legno duro a strisce che neanche nella casa di un fachiro; le palme piantate forse in epoche d’entusiasmi colonialistici; le fontanelle con il tasto da tenere premuto sennò non bevi; i bagni delle donne più puliti di quelli degli uomini; i campanelli d’arrivo del treno con su scritto il nome della città di provenienza; le tremolanti luci lontane che ti tradiscono sull’arrivo reale del locomotore; le scintille delle frenate dei treni pesanti che d’estate appiccano timidi incendi lungo le sterpaglie della strada ferrata. E ancora: l’odore di piscio che risale dai binari perché c’è sempre qualcuno che va in bagno durante le fermate nelle stazioni; le attese per l’ultimo convoglio sulle panchine di marmo freddo durante le sere estive in compagnia di pensieri tristi e del frinire di instancabili cicale; il chioschetto con le rotelle che vende panini alla salmonella e birre quasi calde; i grossi bracci che servivano acqua alle locomotive durante “l’età del carbone”; le rimesse abbandonate dove riposano le carrozze andate in pensione; il deposito bagagli semideserto; la sala passeggeri divisa per classi e la sala scambi piena di pulsanti luminosi che sono la passione dei bambini…
Tutti questi ricordi erano racchiusi nel suono stridente del fischietto del nonno di Lele.
Mentre leghisti e patrioti unitari si scannano in vista dei ‘festeggiamenti’ del 150° anniversario dell’unità d’Italia – se sia più importante ‘lavorare per il paese’ o colorare di rosso il 17 marzo sul calendario e andarsene a spasso con gli amici – io m’interrogo sul significato del termine italianità. Afferma il vocabolario aperto sulla mia scrivania: “italianità: s.f. Indole, natura, carattere, d’italiano.” Una spiegazione che non mi ‘disseta’…
Lo scenario socio-politico che dovrebbe ‘nutrire’ questa definizione è deprimente: la situazione economica dell’Italia è stagnante, la classe dirigente è inqualificabile, lo stato culturale dell’italiano medio è a dir poco allarmante (e quando utilizzo la parola ‘culturale’ non la intendo riferita solo al numero di libri letti in un anno o le poesie imparate a memoria durante il periodo scolastico, ma a un approccio interdisciplinare e ‘mentalmente aperto’ con i problemi che l’italiano nella maggior parte dei casi non ha)… È vero, abbiamo i ‘monumenti’ e le gloriose testimonianze provenienti dal passato: ma anche queste risorse spesso vengono ignorate dall’anestetizzato popolo videocratico del “Grande Fratello”. O nella peggiore delle ipotesi crollano (nel senso strutturale del termine) dopo un acquazzone e grazie all’incuria di un governicchio che taglia i fondi per la cultura… Cosa ci rimane per festeggiare? Un tricolore sbiadito e incautamente lavato in lavatrice a novanta gradi dopo l’ultimo mondiale di calcio.
Mi aggrappo nuovamente al dizionario, ma ripeto un errore madornale. Indole: sull’italica indole sarebbe meglio soprassedere; troppe pubblicità comiche, troppi film, troppi luoghi comuni che a lungo andare sono diventati ‘dati di fatto’, troppi comportamenti disdicevoli riabilitati e fatti passare come ‘qualità’… Fino a diventare ‘istituzione’, politica…
Ecco perché, secondo me, l’italianità dovrebbe nutrirsi di segni non istituzionali, di storie con la “s” minuscola, di scenari familiari, di paesaggi epici ancora intatti, di ‘bolle di quotidianità’ a volte sottovalutate… L’italianità diventa così un concetto intimo, non condivisibile, impossibile da istituzionalizzare e assolutamente soggettivo: un ‘processo di personalizzazione’ che è tipico degli italiani e che deriva dalla loro capacità, affinata nei secoli e dalla disunità, di ‘salvare il salvabile’ durante i periodi storici caotici. O forse anche questa qualità è un luogo comune.
È sorprendente la varietà di luoghi e di momenti in cui gli abitanti di questa meravigliosa penisola scoprono la propria italianità: c’è chi la scopre in un museo del Risorgimento, chi a Maranello, altri mangiando un panino sotto una statua di Garibaldi… C’è chi la scopre solo a tavola perché tutto il resto è deludente e quindi è meglio bere un bicchiere di vino in compagnia e dimenticare Roma; c’è chi è italiano solo durante i mondiali di calcio e poi basta, o chi si sente veramente italiano perché è iscritto a qualche Società di Storia Patria e su come andarono veramente i ‘fatti’ nel 1861, ne sa più degli altri…
Io scoprii la mia italianità, pensate un po’, su un treno lentissimo tra Brindisi e Taranto, il 29 agosto del 1994. Ero reduce da un viaggio in Medio Oriente, ed ero da poche ore sbarcato nel porto di Brindisi:
<<… Sono in Italia: mi trovo esattamente sul treno Brindisi-Taranto […] Da Taranto proseguirò per Potenza. Dal finestrino vedo gli uliveti e i vigneti della Puglia; la lentezza del convoglio mi permette di osservare i gesti arcaici e familiari di una contadina mentre nella sua terra con la zappa smuove piccole dighe di terra, dirigendo così la preziosa acqua nei labirintici corsi d’irrigazione… I rami contorti degli ulivi secolari mi riconducono tortuosamente verso i valori della mia terra: il valore del buon vino, dell’olio genuino, del pane ineguagliabile, del cielo osservato dai miei antenati, dell’acqua e dell’aria… Radici, valori, ideali antichi che mai moriranno: questi sono i motivi che spingono un italiano a ritornare a casa. […]
Ore 19:22. Sto partendo da Taranto per Potenza. Ma prima dovrò cambiare a Metaponto (se non voglio ritrovarmi a Sibari). Arriverò alle 22 a Potenza.[…]
È sera quando finalmente giungo a Metaponto e mentre riprendo voracemente a scrivere sul mio diario le ultime pagine riguardanti questo viaggio sono già pronto sul treno diretto a Potenza. Le piccole stazioni di periferia mi sono sempre piaciute per la tranquillità in cui sono avvolte. Sono un punto romantico dei viaggi… Rappresentano, per me, luoghi di meditazione e di transizione. I grilli nelle sere d’estate, le fontanelle delle stazioni con cui stemperare le calde attese estive, il capostazione che da solo svolge mille funzioni, il caratteristico suono di un passaggio a livello… Simboli di un’Italia forse ‘arretrata’, lenta, che resiste all’efficiente caos del progresso […]. Quante volte ho giocato in queste stazioni e quante volte sono partito o arrivato…
Dopo tanti anni, finalmente, il tratto ferroviario Battipaglia-Baragiano è stato riattivato dopo il disastroso terremoto dell’80 e così potrò (forse già domani) ripercorrere non solo un pezzo di strada ferrata, che in Italia in pochi conoscono e percorrono, a parte gli abitanti ‘locali’, ma qualcosa di più: un pezzo della mia storia, del mio passato. È strano come proprio ora, ritornando da Israele, riscopro tutti questi aspetti del mio essere italiano. Italiano del cosiddetto Meridione. È vero che si riscopre il valore del proprio paese quando si ritorna da ‘fuori’… Da poche ore, da quando sono sbarcato a Brindisi, sto riscoprendo lentamente il valore delle ‘cose italiane’. Cose di tutti i giorni, cose che altri italiani distratti non prendono più in considerazione… E se cerchi di metterle in evidenza, queste ‘cose’, ti prendono pure per pazzo o per uno stupido nostalgico che non ha senso pratico… Purtroppo chi è del posto non apprezza le cose che ha sotto il naso e solo ‘uscendo’ dalle dimensioni familiari possiamo fare i confronti e rivalorizzare il ‘solito’…
Mille pensieri albergano in me durante questo ritorno… Pensieri che forse domani mi sembreranno assurdi e che sarà meglio fissare su carta prima di ritornare alla routine, approfittando dell’andamento lento di questo treno…
… Metaponto-Bernalda-Pisticci-Ferrandina-Salandra-Grassano-Tricarico-Calciano-Campomaggiore-Albano di Lucania-Trivigno-Brindisi di montagna-Potenza.>>
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