<<L’insoddisfazione delle proprie vite, il dolore, la solitudine, sono dei fattori predisponenti necessari per una scrittura che vada a fondo nell’animo umano o si può scrivere in modo frivolo anche solo per soddisfare esigenze estetiche… per pura descrizione?
Alle volte uno stato d’animo angosciato, a causa delle cose della vita che uno non può realizzare, a causa anche di una “attesa tradita”, ti dà la possibilità di ottenere un’alternativa altrove, di coglierla altrove e di riscattare il vissuto altrove…
Ci sono altre scuole di pensiero che vedono la poesia come una finzione e non come sofferenza; come un rebus da risolvere; la poesia come capacità nel saper realizzare delle cose. La sofferenza è una finzione, in quanto il poeta non fa nient’altro che utilizzare delle forme. IL POETA È UN CINICO. Non è detto che il poeta debba essere per forza un sofferente, un’anima in pena, ma è un “grande cinico” che sfrutta le situazioni. Un funerale? Ci fa una poesia. Chernobyl, le Twin Towers…? Ogni occasione è buona per fare una poesia. Il poeta è uno che sfrutta per un proprio tornaconto; lucido, freddo, anche nelle situazioni negative lui scrive una poesia. Quindi non ci vedrei una grande sofferenza in questo atteggiamento.
Io personalmente ho scritto poesie “rubando” immagini alla gente; ho sentito parlare di sogni, di esperienze che ho ascoltato e rubato e su cui ho costruito poesie…>>
(tratto da Intervista a Vito Cerullo – “Nugae” n.4/2005)
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