Poesia e Libertà: intervista a Michele Nigro…

Pubblicata “a puntate” su Instagram (i_libri_salvano) grazie alla book influencer Sara Maria Luna, ripropongo in versione integrale questa bella e lunga intervista di Anna Maria Di Pietro pensata per il sottoscritto… Buona lettura!

versione pdf: Poesia e Libertà, intervista a Michele Nigro

foto autore quarta di cop JPEG scuro

INTERVISTA A MICHELE NIGRO

a cura di Anna Maria Di Pietro

 

Se dovessi descrivere Michele Nigro con un aggettivo, direi che è libero.

L’ho incontrato tra i versi del suo libro “Nessuno nasce pulito” (ed. nugae 2.0), una raccolta di poesie vere, nude. È stato come sfogliare un album dove ogni poesia è una fotografia che immortala un momento, uno stato d’animo, uno stralcio di vita vera, senza filtri, senza alterazioni. Lui è di quelli che non cerca le parole ma da loro si fa trovare, le accoglie e le fa vivere regalando al lettore una sorta di “mappa del tesoro” per vivere meglio, per muoversi nella vita con più consapevolezza, spronando a guardarsi dentro, a conoscere se stessi, a “essere” e non ad apparire. Così, è nata la voglia di conoscerlo meglio attraverso questa intervista che ha tutte le caratteristiche di una sincera chiacchierata tra amici.

(Anna Maria D. P.) Il titolo del libro da un lato destabilizza chi crede di “essere arrivato”, dall’altro, però, dona speranza a chi, oggi, si sente inadeguato perché fuori dai giochi di un mondo proteso verso la perfezione. È giusto?

(Michele N.) In realtà il titolo potrebbe avere una continuazione: “e nessuno vi rimane (pulito) pur diventandolo”. Ma diventerebbe chilometrico come il titolo di un film di Lina Wertmüller! Scherzi a parte. Chi, in fin dei conti, può veramente credere di essere arrivato? Solo gli inconsapevoli felici per cecità, gli uomini cosiddetti “di successo” che hanno assecondato le regole del sistema; tuttavia la raccolta non vuole essere un “vangelo” confortante per disadattati e sconfitti, anzi: è una dichiarazione di guerra, è un manifesto da usare per controbattere, è una presa di coscienza che rende forti. Accettare l’imperfezione dell’esistenza è il primo passo verso la felicità, ma non tutti posseggono gli strumenti per cantare questa imperfezione. Come suggerisce saggiamente Branduardi:non è da tutti catturare la vita / non disprezzate chi non ce la fa.”

Per essere preciso, dietro questo titolo si nasconde anche un altro motivo più “prosaico”: le mie poesie, inizialmente pubblicate per anni sul blog “Nigricante”, e accompagnate da immagini e video musicali (dando vita a un concetto del tutto personale di webpoetry), sono state in seguito “ripulite” e ripresentate nude su carta (e in e-book). Solo testo, senza aggiunta di “olio di palma”!

Il titolo della raccolta è un riferimento all’incompiutezza e al mistero dell’atto poetico: può una poesia essere considerata ‘finita’ o addirittura ‘perfetta’? E soprattutto: una poesia nasce già “pulita” oppure, molto più verosimilmente, è il risultato di un meraviglioso e silenzioso travaglio, di una nascita sporca di placenta e sangue, di un lavorio artigianale sulla parola che può riprendere anche dopo anni?

I tuoi versi “sciolti” hanno il potere di creare immagini talmente vive da far apparire tra le pagine un grande palcoscenico popolato da burattini, “scimmie ammaestrate” e maschere. Chi sono?

Il bello della poesia e della scrittura creativa in generale è che sono “spazio-temporalmente democratiche”: in un verso, nella trama di un racconto, possono convivere persone e personaggi appartenenti a luoghi e tempi separati tra essi. Tutti noi possediamo un bagaglio fatto di facce reali (altro che Facebook!), di esperienze esistenziali, di persone conosciute in profondità o solo sfiorate, di vicende in cui a volte siamo stati registi o protagonisti, molte altre volte maschere, burattini o scimmie ammaestrate. Chi sono? Sono gli altri e siamo noi, che siamo “gli altri” per qualcun’altro…

In molte poesie si può scorgere una strada percorsa da gruppi di uomini omologati che vanno verso città illuminate, rumorose, mischiandosi alla massa e allontanandosi da se stessi. Perché accade questo?

Per onestà intellettuale devo confessarti che provengo da un’esperienza (in qualità di lettore e a volte anche di semplice scrittore di brevi racconti) di letteratura fantascientifica distopica: immaginare la futura condizione dell’umanità era un esercizio che non potevo lasciare al di fuori della mia poetica. Purtroppo, come recita uno slogan inflazionato ma vero “The future is now” (Il futuro è adesso); quello che la letteratura d’anticipazione immaginava, in termini di alienazione e di omologazione, è diventato realtà, e quest’ultima ha superato l’immaginazione. I social network che tutti noi adoperiamo sono una “versione volontaria” del Grande Fratello di Orwell: se nel romanzo “1984” le persone subivano un necessario controllo onnipresente da parte di “Big Brother”, noi oggi scegliamo spontaneamente di farci controllare, ci iscriviamo da soli sui social. Nessuno ce lo impone! Tutto questo accade perché il controllo è gentile, estremamente diluito, raffinato, le catene sono invisibili, spesso sono scambiate per indispensabili strumenti di libertà. Non c’è un potere apertamente ostile da contrastare o una dittatura opprimente: il contrasto lo avvertiamo solo quando scegliamo di non scegliere la loro “libertà”. La poesia, in maniera particolare, può aiutarci a non scegliere, può decostruire il messaggio proveniente dalla città illuminata e rumorosa, può agevolare la conoscenza di noi stessi e mettere in crisi i programmi che il sistema ha fatto sulla nostra mente. Sappiamo accettare e gestire la solitudine che ne consegue?   

Ma tu, accanto a quella strada affollata, ne tracci una parallela, alternativa, in salita. Qual è il mezzo per aprirsi un varco e percorrerla?

Decisamente in salita, e solitaria, come lascio intendere al termine della precedente risposta. C’è un dazio da pagare, è ovvio. “Mezzi sicuri” da consigliare non ne ho. Posso solo dire che grazie alla cultura, al sapere contenuto nei libri, abbiamo l’opportunità di acquisire libertà di scelta e indipendenza mentale; con la poesia, invece, cambia proprio la percezione che abbiamo del mondo (visibile e invisibile), anche se restiamo “ignoranti” in altri campi. Non so se ho reso l’idea. Per aprire quel varco occorre fare tanto esercizio (non solo poetico ma prima ancora esistenziale: fare esperienza di alternatività senza forzare la mano ma con naturalezza) e non è detto che il risultato positivo sia assicurato. Il bagno di folla è necessario, il divertimento piace a tutti, i rumori della città fanno parte dell’original soundtrack di questa vita, l’uomo è fatto per stare in compagnia dei propri simili e il modello del poeta isolato e maledetto ha fatto il suo tempo; la poesia, però, c’insegna come essere parte di questo mondo senza farsi possedere da esso.   

Solitudine “cercata” e silenzio sono le note che compongono la colonna sonora dei tuoi versi. Quanto sono necessari?

Nella poesia intitolata Riconoscersi, contenuta nella raccolta, tento di spiegare tutto questo. Solitudine e silenzio non sono degli espedienti fini a se stessi, tanto per starsene un po’ tranquilli dopo una giornata stressante! Sono preziosi strumenti interiori (solitudine e silenzio non si riferiscono solo all’isolamento fisico e acustico, ma rappresentano qualcosa di più complesso) per mezzo dei quali riusciamo a riconoscere la parola giusta quando questa viene a trovarci prima di diventare poesia; mettersi in ascolto di se stessi è fondamentale per distillare le parole e intrecciarle nella maniera più onesta. Ma solitudine e silenzio – potrebbe sembrare contraddittorio eppure è così – occorrono anche per riconoscere i propri “simili”, la persona o le persone più importanti della propria esistenza, per scegliere quali esperienze vivere e quali no. Per ripulire la ricezione dai suoni che non contano.

Ti ho visto camminare tra le tue parole sempre in compagnia della riflessione, ogni tanto voltandoti indietro. Quanto conta il passato?

Il passato è indispensabile: fornisce una quantità considerevole di “materie prime” con cui fabbricare i pensieri di oggi. Noi siamo le nostre esperienze. Per quanto riguarda la poesia, il passato si manifesta sotto forma di echi mai prepotenti, di sfumature che non rubano la scena al presente. Qualcuno ha interpretato tutto questo come nostalgismo o, peggio ancora, come pentitismo. (Lo stesso prefatore del mio libro è caduto nell’inganno!). Scriveva Arthur Koestler che bisogna rinculare per saltare: il passato è forza propulsiva per evolvere, non una palude di sabbie mobili. In alcuni miei versi cerco di intimare a me stesso: “ricordati chi eri!”

In “Bevo per ricordare” ho colto un brindisi al carpe diem, uno sprone a vivere il momento. È corretto?

Sì, ma solo alla fine avviene il brindisi. Prima, grazie a un elogio dell’ebbrezza, vi è una discesa negli anfratti ancestrali dell’io, un liberarsi del diem che porta su di sé il peso degli schemi ereditati, delle sovrastrutture culturali e sociali. Se non disimpariamo, se non scendiamo in noi, se non allentiamo i freni che inibiscono il nostro lato ancestrale, se non ricordiamo come eravamo (anche filogeneticamente parlando), l’attimo vissuto resta relegato in un presente sterile. Il mio non è un incitamento all’alcolismo! È noto che l’uomo usa da sempre sostanze messe a disposizione dalla natura per alterare il proprio stato fisico e mentale (lo fanno anche alcune specie animali): un’alterazione che non è “sballo” ma decostruzione dell’io cosciente a favore di un io primordiale e quindi più vero.

Tu parli di viaggi interiori necessari per l’evoluzione dell’uomo, per la sua rinascita. Ma perché dici che “rinascere è un lavoro da incoscienti”?

Ricollegandomi alla risposta precedente, certi viaggi non possono essere intrapresi sulla scia di una convenienza logica. Spesso, quando stiamo lì a soppesare con la nostra coscienza i pro e i contro di un cammino, finisce che non partiamo. I viaggi interiori, come quelli offerti dal fare poesia, non si programmano, si vivono. Come quando ci si lascia stupire da un amore inatteso.

Voltandoti indietro, quanti “vecchi Michele” vedi? Da cosa ti sei liberato e da cosa devi ancora liberarti?

Ne vedo una miriade! Cantava Battiato (che cito spesso perché per me è maestro di vita prima ancora di essere musicista e cantautore): “E quanti personaggi inutili ho indossato io e la mia persona quanti ne ha subiti”. I personaggi li subiamo fino a quando non conosciamo chi siamo o chi vogliamo essere; spesso diamo la colpa “agli altri” ma siamo noi stessi che attiriamo gli altri sbagliati perché non ci siamo liberati dei nostri io superflui e inutili. Ho fatto tanta opera di “space clearing” relazionale in questi anni: potrebbe sembrare disumano ma quando capisci chi sei e cosa vuoi la prima cosa di cui ti sbarazzi sono i “personaggi subiti” di cui sopra, senza per questo diventare sociopatici. Mi sono liberato di scelte professionali in cui non credevo più; di percorsi religiosi e associativi in cui non mi riconoscevo più; di certe paure e presunzioni che con l’età e l’esperienza si affievoliscono… L’elenco sarebbe lungo e noioso. Ma lungi da me il credere di poter completare il mio processo di liberazione in questa vita!

Quanto è importante il saper attendere, il pazientare?

Pazientare significa poter fare, in seguito, la scelta migliore. In una precedente risposta ho affermato che bisogna seguire l’incoscienza e partire, per non essere vittima della logica: il saper attendere non è svilire l’entusiasmo dell’attimo ma è imparare l’arte di conservare (aumentandola!) la sua “virulenza” nel tempo. In poesia il pazientare è fondamentale: aspettare che la parola giusta ci trovi è alla base del vero ascolto interiore.

Secondo te, dalle cicatrici possono nascere fiori?

Sì, altrimenti non scriverei poesie. Ed è corretto parlare di cicatrici e non di ferite aperte (per queste esistono soluzioni discutibili tipo Barbara D’Urso e “C’è posta per te”): la poesia converte antichi dolori in prezioso humus. Chi pretende interpretazioni hic et nunc dell’esistenza è condannato a vivere prigioniero di un eterno presente.

In “Ora illegale” parli dell’ora ribelle, di un’età scelta. Tu quale età hai scelto?

Io ho scelto un’età che, per fortuna o per sfortuna, non è in sincronia con i tempi del sistema e della cultura collettiva. Sono in ritardo da sempre e me ne vanto! Sono un “esodato esistenziale”, sospeso tra quello che sarebbe decoroso fare alla mia età cronologica e ciò che mi indica il mio orologio interiore… Eppure vivo, amo, costruisco il mio mondo (non quello che piace agli altri) e forse vivo più di chi conduce una vita ordinata e regolata dagli orologi del buonsenso sociale. Quando dico vivo mi riferisco a tutta quella Vita che non è solo pagare i contributi, sposarsi, riprodursi, comprare la tomba di famiglia e crepare! Non si tratta di essere “ribelli”: l’epoca della cultura hippie è tramontata. Più che altro si tratta di decidere autonomamente se, come, quando, con chi e perché decidere di compiere determinati passi. E nel frattempo assaporare le pause. Anche quelle lunghe…

Leggendo il tuo libro ho respirato profumo di libertà. Quali sono i doveri da cui ci si dovrebbe liberare?

Bisognerebbe liberarsi dal dovere di considerare come doveri i piaceri. Aspè, sono stato contorto: ci riprovo! Una vita ordinaria non è da discriminare, anzi. È il vivere una vita dettata da altri che non va bene. Non esistono doveri da cui liberarsi se facciamo in modo che restino sotto forma di piaceri scelti da noi. Il profumo di libertà che hai avvertito non è stato creato con facilità e nel giro di poco tempo; è stato generato dal “coraggio” di ripercorrere e tradurre gli schemi e i dolori che in altre epoche mi hanno fatto soffrire, con la leggerezza sintetica della poesia. Attraverso la poesia possiamo “metabolizzare” il vissuto e addirittura preparare la strada a eventi futuri inevitabili.

In “Misunderstood” affermi che troppe parole sono inutili, troppe spiegazioni sono deleterie. Perché?

Quella è una delle poesie, ce ne sono anche altre sparpagliate nella raccolta, appartenenti al mio cosiddetto “periodo Ko Un”. Ko Un è un poeta sudcoreano, che ho avuto la fortuna di conoscere e ascoltare in un reading dal vivo a Salerno, alcuni anni fa: i suoi componimenti sono un elogio della brevità. Tentai di emularlo per un po’, ma alla fine ognuno deve seguire la propria natura. Quel tipico sintetismo orientale non si addiceva alle mie esigenze liriche bisognose di una prolissità occidentale. Forse oggi sono sulla buona via per ottenere un compromesso tra questi due estremi. Tuttavia sono ancora fermamente convinto che la poesia non debba spiegare o descrivere, strizzando l’occhio a un linguaggio troppo confidenziale e quotidiano, senza per questo arrivare a esprimersi in uno stile aulico. La poesia dovrebbe distillare con naturalezza l’essenza dell’esistere, senza ampollosità.

Ho trovato rabbia e indignazione in alcuni versi, come quelli che compongono “Munnezza”, dove parli di un bambino che giace tra i rifiuti. Ma quel bambino che piange è lo stesso che urla, ignorato, dentro ognuno di noi?

Poiché i versi di “Munnezza” nascono dalla traduzione in poesia di un sogno ad occhi aperti che in passato facevo spesso, non saprei dirti con precisione quali motivazioni inconsce mi abbiano spinto a comporli, perché non conosco le origini psicologiche di quel sogno: forse era un meccanismo attivato dalla mia mente per dare una risposta fantasiosa alle brutture del mondo, alla disperazione di certe persone che compiono atti disumani. Un modo per calmare il mio senso d’impotenza. Forse, per ricollegarmi alla domanda, anche solo immaginando di salvare gli altri salviamo un po’ anche noi stessi e ci prendiamo la responsabilità di zittire in parte un “pianto universale” che riguarda ogni essere senziente. Vita e crudeltà convivono da sempre.

Un’altra poesia che mi ha molto colpita è “Madre & Moglie” dove descrivi donne annoiate, denigrate, deluse. Ci spieghi? E le prime lettere maiuscole delle due parole del titolo, che significato hanno?

Le maiuscole vogliono sottolineare l’importanza “istituzionale” delle due figure umane. Il simbolo “&” le unisce con solennità aziendale come se si trattasse di un brand rinomato e resistente al tempo. Essere madre e moglie non è facile e solo chi porta addosso, per anni, quel “marchio commerciale” sa di cosa sto parlando. Ci vuole forza per restare saldi al timone.

A volte i miei versi nascono da immagini catturate in strada, per caso, senza che vi sia una conoscenza diretta delle persone: una donna cammina lentamente verso casa, appesantita dalle buste della spesa; il volto è stanco e non conosce sorriso, oscurato da mille pensieri. Forse quella donna pensa che avrebbe potuto vivere un’altra vita se avesse fatto quell’altra scelta. E che ormai è troppo tardi. Ma sono solo supposizioni da osservatore di passaggio: al contrario di quanto si pensi, forse è felice di se stessa e delle persone che troverà rientrando a casa. Forse è solo stanca dopo una giornata difficile e la sua vita, tutto sommato, le va bene così com’è.

Alla fine dell’avventuroso viaggio fatto nel tuo libro, ho udito il tintinnio di un mazzo di chiavi: le tue poesie che hanno il potere di aprire le celle dei “prigionieri liberi”. Sei contento di questo?

Non credo di avere questo “potere”. Come ho già detto in altre occasioni, la poesia non ha il potere di cambiare il mondo e le persone; se lo fa, e lo ha fatto in maniera sublime già molte altre volte nel corso della storia della letteratura, può riuscirci solo indirettamente, plasmando lentamente la materia interiore degli esseri umani. I miei versi non hanno la pretesa di liberare, di aprire celle o di spezzare catene: sarebbe già un enorme successo per me se riuscissero a indurre a una breve riflessione. Ma da qui a liberare qualcuno, ce ne vuole. Sono contento, invece, di leggere che è stato un viaggio “avventuroso”: rispecchiarsi nelle pagine di un libro è una bella sfida. Ed è dall’accettazione di questo tipo di sfide che nascono il lento cambiamento e la vera liberazione.

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6 Risposte to “Poesia e Libertà: intervista a Michele Nigro…”

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  2. Grazie per averla riproposta in versione “completa”, solo così sono riuscita a leggerla senza distrarmi dalle interruzioni/puntate. Mi spiace, ma certe nuove modalità di pubblicazione, certe scelte, a mio avviso servono solo a far perdere il filo di un certo discorso, a non far capire bene i riferimenti e non afferrare le allusioni chiarite magari precedentemente in altre risposte.
    Per questo ti dicevo che avrei aspettato la pubblicazione completa da parte tua, di un’intervista che non può essere dilazionata così a lungo nel tempo, come se fosse una “fiction”…
    Bisogna immergersi in certe atmosfere, dal principio alla fine, anche perché le domande sono state molto interessanti e meritavano un’attenzione che non fosse “a tratti…”

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