Volto di donna

Rosaria Costa Schifani

Isoliamo l’audio. Per un attimo, solo per un attimo, mettiamo da parte le parole struggenti, arrabbiate, diventate “storia nazionale” e ormai parte del nostro immaginario collettivo, pronunciate da Rosaria Costa (nella foto), vedova dell’agente di Polizia Vito Schifani, uno dei componenti della scorta al giudice Giovanni Falcone, ucciso durante la strage di Capaci il 23 maggio 1992. Togliamo il sonoro, “dimentichiamo” la lettera disperata ma decisa letta a Palermo dalla vedova Schifani durante il funerale degli agenti e dei due magistrati, e concentriamoci su questo volto di donna immortalato in una suggestiva foto della giornalista Letizia Battaglia. Leggiamolo; leggiamo le parole non dette…

Quello che vediamo è il volto di una donna ferita, intimamente ferita, anche se la genuina bellezza di giovane madre ventiduenne contrasta l’affiorare di indelebili segni dolorosi: il fuoco disperato è tutto dentro, è un fuoco agitato le cui lingue si manifesteranno nelle parole che in questo caso abbiamo deciso di non riascoltare.

Un “titolo laico” potrebbe essere: Madonna con occhi chiusi, in preghiera o in procinto di leggere su un foglio alcune cose da dire agli uomini della mafia, lì presenti; occhi chiusi e senza lacrime visibili perché già tutte versate, sono finite o riassorbite dalla rabbia. La bocca è semiaperta: quelle labbra stanno per pronunciare parole di perdono ma anche di condanna e di disincanto. Labbra ancora troppo giovani per restare sole; labbra strappate a una vita di coppia appena cominciata. Sono labbra che chiedono giustizia e che sembrano domandarsi “dove è finita quella vita felice promessa ai miei ventidue anni?”. Labbra di mamma che dovrà dare risposte, un giorno, a un figlio appena nato. E ai tanti figli acquisiti che incontrerà in un doveroso cammino appena iniziato.

Ma è anche un volto costretto a dividersi tra luce e ombra, un prima e un dopo lo scoppio di Capaci. Luce e ombra simili alle molte ombre e alle conquistate luci che accompagnano ancora oggi un’esecuzione di mafia diversa da tutte le altre: eclatante, spettacolare, “esagerata”. In quel tritolo mandanti ed esecutori concentrarono tutta la rabbia di una Cupola decapitata, processata, condannata, che aveva giurato di presentare il conto.

Volto di prefica siciliana, non recitante ma drammaticamente vera. Volto di una moderna Penelope, consapevole di un ritorno che non avverrà mai; modello “mitologico” per la contemporaneità, che prende forza da fatti non troppo lontani nel tempo, fatti che lambiscono il presente. Se Omero affidò ai versi la descrizione dei suoi personaggi mitici, in questa nostra epoca di riproducibilità tecnica (Benjamin docet!) una foto “artistica” come questa di Letizia Battaglia, quindi un’opera d’arte non proveniente dall’antichità ma da un’era “mitica” a noi vicina, non rischia di perdere la sua “aura”, il suo potere sull’individuo, perché non c’è rischio di massificazione come nel caso delle immagini degli attentati dell’11 settembre mandate in onda in loop, inflazionandone il significato. L’attimo fotografico così inteso, anche se la fotografia, secondo Benjamin, è già tecnica moderna, non rischia di perdersi nel mare delle immagini social. L’arte si innesta sulla cronaca (o anche il contrario) e trasforma fatti contemporanei in “mito”. In questa foto il mistero è rispettato, non è riutilizzabile dal potere o dall’informazione sciatta; il legame (drammatico) con la vita quotidiana e con l’esistenza concreta c’è tutto; non vi è alcun intento carismatico da parte di chi combatte la mafia (non otteniamo un'”estetizzazione dell’antimafia”! Come temuto da Benjamin…): questo è il volto “senza trucco e senza trucchi” di una donna che racconta quel che è appena successo. È un dolore che può essere fruito solo se ci si sofferma a lungo e in silenzio, dimenticando le parole (quelle sì artifici sonori della modernità) a cui accennavamo all’inizio, come davanti a un quadro, un ritratto.

Spetta a noi ricomporre l’unicità di quest’opera che unica non è perché facilmente reperibile in rete e quindi riproducibile: a ognuno di noi, infatti, dice cose diverse. Questa foto è autentica non perché unica, ma perché ci presenta una Rosaria Costa inedita, che nessuno ha potuto vedere in questo modo nel giorno dei funerali. È una vedova Schifani che non è mai esistita, che nasce dall’attimo, dal gioco di luci e dalla chimica fotografica: ecco perché questa foto, pur essendo figlia della cronaca, è un’opera d’arte. Non può esservi riproduzione manuale, neanche utilizzando le più sofisticate tecnologie: è un evento irripetibile, quindi autentico. Il valore cultuale di quel momento è stato salvato dalla particolare scelta fotografica: un’altra foto, scattata nello stesso istante ma in maniera diversa, non avrebbe catturato l’unicità di quel volto e sarebbe diventata una delle tante “immagini di repertorio”. Questa di Letizia Battaglia non è una fotografia “da consumo”, ma è uno scatto che necessita di contemplazione, che dona un carattere mistico e religioso a un sanguinoso fatto di cronaca; un fatto che, così rappresentato, travalica la cultura di massa.

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3 Risposte to “Volto di donna”

  1. L’ha ribloggato su Pomeriggi perdutie ha commentato:

    Volto di prefica siciliana, non recitante ma drammaticamente vera. Volto di una moderna Penelope, consapevole di un ritorno che non avverrà mai; modello “mitologico” per la contemporaneità, che prende forza da fatti non troppo lontani nel tempo, fatti che lambiscono il presente. Se Omero affidò ai versi la descrizione dei suoi personaggi mitici, in questa nostra epoca di riproducibilità tecnica (Benjamin docet!) una foto “artistica” come questa di Letizia Battaglia, quindi un’opera d’arte non proveniente dall’antichità ma da un’era “mitica” a noi vicina, non rischia di perdere la sua “aura”, il suo potere sull’individuo, perché non c’è rischio di massificazione come nel caso delle immagini degli attentati dell’11 settembre mandate in onda in loop, inflazionandone il significato. L’attimo fotografico così inteso, anche se la fotografia, secondo Benjamin, è già tecnica moderna, non rischia di perdersi nel mare delle immagini social. L’arte si innesta sulla cronaca (o anche il contrario) e trasforma fatti contemporanei in “mito”. In questa foto il mistero è rispettato, non è riutilizzabile dal potere o dall’informazione sciatta; il legame (drammatico) con la vita quotidiana e con l’esistenza concreta c’è tutto; non vi è alcun intento carismatico da parte di chi combatte la mafia (non otteniamo un’”estetizzazione dell’antimafia”! Come temuto da Benjamin…): questo è il volto “senza trucco e senza trucchi” di una donna che racconta quel che è appena successo. È un dolore che può essere fruito solo se ci si sofferma a lungo e in silenzio, dimenticando le parole (quelle sì artifici sonori della modernità) a cui accennavamo all’inizio, come davanti a un quadro, un ritratto.

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