Contro i (recenti) film sulla Lucania
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Ormai sembra essere diventata una moda che rende bene al botteghino: rappresentare la Lucania (Basilicata per politici e navigatori satellitari) dal punto di vista cinematografico è l’idea del momento. Almeno un tipo di idea, perché la “terra di mezzo” lucana – come location e fonte d’ispirazione – non è per niente estranea alle attenzioni della settima arte.
Certo, qualche dubbio nasce quando si passa da Pasolini e Rosi a Rocco Papaleo e Massimo Gaudioso, ma non essendo un critico cinematografico (e soprattutto uno storico della critica cinematografica) mi limiterò a un lieve spetteguless goliardico da spettatore in poltrona.
Capisco che “Matera 2019” incombe (e di infrastrutture serie – nonostante l’ok dal Cipe per far arrivare la ferrovia a Matera – manco l’ombra!) e bisogna ‘pompare’ con la pubblicità offerta da film-spot; capisco che regione, province, comunità montane puntino sulla facile promozione turistica “per mezzo pellicola” per attirare, nella migliore delle ipotesi, visitatori appassionati di antropologia, etnologia e paesologia; capisco che dopo l’uscita di filmetti come “Basilicata coast to coast”, “Un paese quasi perfetto” (infilandoci in mezzo anche “Benvenuti al Sud”, pur trattandosi di una location non lucana, da cui sono state scopiazzate alcune idee!) ci abbiano preso gusto nel rappresentare la Lucania in un certo modo, ma in tutta sincerità, a me personalmente, certi luoghi comuni e certe generalizzazioni da cultura di massa di bassa lega, proprio non vanno giù! Neanche sorseggiando un ottimo Aglianico del Vulture… Parlo di “cultura di massa di bassa lega” perché determinati contenuti, se sono di qualità, possono essere veicolati anche sfruttando i grandi numeri (la casalinga di Voghera sembra stupida, ma se uno le cose gliele presenta come si deve…): dipende sempre da chi gestisce la comunicazione di massa, se una “capra” (sgarbianamente parlando) incapace di distinguere Potenza da Matera (o peggio, Potenza da Napoli) o una mente un po’ più consistente che non ha paura di comunicare concetti importanti alla massa televisiva della prima serata generalista.
Se l’intento era quello di mescolare la denuncia sociale alla commedia, allora mi dispiace annunciarvi che il risultato è deludente: è meglio fare una scelta di campo (o commedia, o denuncia sociale) perché così facendo si rischia di disperdere il potere espressivo di una storia, in tanti rivoli insignificanti.
Perché sono così pesante? Perché se ironizzi su una frana che blocca da anni una strada importante che dovrebbe mettere in comunicazione un paese con il mondo esterno (invece di mettere al muro e “fucilare” i politici che non si danno una mossa per ripristinare la viabilità), si finirà col pensare che in fin dei conti siamo pur sempre al Sud dove tutti i guai si superano con l’ironia, la pazienza e il mandolino, che è andata sempre così, da quando mondo è mondo, che le lungaggini burocratiche e il lassismo amministrativo è inutile combatterli perché fanno parte del folklore locale, che è meglio passarci sopra mangiando tarallucci e bevendo vino, anzi è meglio passarci sopra con la vecchia teleferica della miniera, che nell’epilogo del film (“Un paese quasi perfetto”) si trasforma in un’idea imprenditoriale, perché tanto è meglio mettersi l’anima in pace e rimboccarsi le maniche: di sviluppo industriale, di progresso, di occupazione proveniente dall’alto, manco a parlarne. Embè, siamo al Sud: l’avevate dimenticato?
Per non parlare delle numerose zone industriali create nel deserto, funzionanti per qualche anno (giusto il tempo di qualche ciclo elettorale) o addirittura mai entrate in funzione, che potrebbero dare lavoro a tantissimi lucani e che invece stanno a marcire sotto il sole dopo aver preso il posto di alvei fluviali e aver spianato vallate stupende per fare spazio a un “progresso industriale” inattivo. Veramente abbiamo ridotto la nostra critica sociale e politica alla critica verso le “pale eoliche”? Veramente crediamo che uno dei problemi maggiori della Lucania siano le pale eoliche e non le “palle” propinateci da politici e imbonitori che hanno tentato di trasformare la Basilicata in una discarica nucleare non molti anni fa? Per non parlare dei danni ambientali causati da un certo “avventurismo petrolifero” che ha favorito i soliti pochi.
Che poi, se proprio vogliamo dirla tutta, l’idea di far divertire la gente appendendola a un cavo d’acciaio non è nemmeno lucana ma è stata intelligentemente importata dalla Francia: non ce l’ho con il Volo (figuriamoci, mi piace e l’ho fatto già due volte!) ma le “idee lucane”, quelle ereditate dalla storia e dalla tradizione (e non importate da fuori), sono altre e ovviamente tenute nascoste, sottovalutate e trascurate perché sono meno turistiche, meno impattanti dal punto di vista pubblicitario, meno divertenti, più impegnative culturalmente. E soprattutto è più difficile farci dei filmetti sopra! Voi ce lo vedreste uno di questi registi da “pro loco” a girare un lungometraggio su una storia ambientata nel medioevo lucano in stile Ermanno Olmi? E chi lo andrebbe a vedere? Ah, non sapevate che anche la Lucania ha avuto il medioevo? È chiaro che è molto più semplice (e redditizio) girare un filmetto basandolo su luoghi comuni, piatti locali, scemenze varie e finte denunce sociali tanto per darsi uno spessore etico…!
Passino l’elegia del viaggio a piedi nella “Basilicata…” di Papaleo e il potere introspettivo della strada (sono d’accordo con lui: la Lucania, i paesaggi naturalistici in genere, possono essere gustati solo grazie all’andatura lenta del camminatore. Duccio Demetrio, autore del saggio Filosofia del camminare. Esercizi di meditazione mediterranea, sarebbe orgoglioso di Papaleo!); passino le inquadrature mozzafiato che rendono solo in parte la bellezza (a volte arida ma affascinante) di certi luoghi lucani; passi l’elogio di una riscoperta provincia a discapito di una città sempre più difficile da vivere (invertendo il processo che portò negli anni ’50 e ’60 all’abbandono delle campagne per inseguire il sogno industriale nel Nord Italia o in altri paesi – oggi l’abbandono è ancora in atto, avviene in direzione “estero” su un livello professionale più alto, e molti comuni per rimpolpare la popolazione sono ricorsi ai tanto vituperati migranti -, anche se per invertire il processo in maniera convincente occorrono idee e denari, e la sola passione per il borgo, ahimè, non è sufficiente!). Passi il messaggio della valorizzazione delle risorse di zona in vista di un rafforzamento delle economie locali (sottotitolo non dichiarato: non fate i soliti meridionali imbroglioni, spioni, scoraggiati e pigri, e datevi da fare!). Passi l’idea sana che le cose che all’esterno (o, in maniera eccessivamente autocritica, da noi stessi) sono considerate “segnali di arretratezza”, in realtà, se viste con occhi diversi e lungimiranti, diventano tesori della tradizione e potenzialità non da convertire o sostituire ma da proteggere ed esaltare. Non avere vergogna della propria “povertà” e semplicità, ma farle diventare fonti di ricchezza. Come già accade, anche senza suggerimenti cinematografici.
Passino queste ed altre cose interessanti che ho intenzione di salvare anche se non le citerò, ma non riesco a comprendere la facilità con cui vengono applicati certi stereotipi. Non riesco a capire perché i cassintegrati lucani dovrebbero essere dei semi-alcolizzati: vedi il personaggio di Silvio Orlando che nel film “Un paese quasi perfetto” ogni sera se ne torna alticcio e barcollante verso casa (conosco tanti amici in Lucania che, pur non lavorando più, sono ottimi ebanisti, suonano nella banda, fanno jogging e non toccano la bottiglia!) o che non ha voglia di cercare lavoro fuori dal paese quando invece conosciamo bene la storia dell’emigrazione italiana interna e quella dei lucani nel mondo. Non riesco a capire perché, sempre nel suddetto film, l’unico capace di utilizzare internet nel paese (come se compiesse una magia in un villaggio africano!) sia un tipo “racchio”, quasi un “subumano” di lombrosiana memoria (non me ne voglia l’attore se lo hanno fatto apparire così!), quando invece nella zona della Lucania da me frequentata – nonostante si parli tanto di digital divide – tutta la gioventù, bella, fresca e sveglia, è connessa in maniera disinvolta e anzi, a detta di alcuni, sarebbe connessa anche in maniera eccessiva, forse perché bisognosa di cercare in rete opportunità e confronti.
Perché questa descrizione di una tipologia umana grottesca? Lo so, è una commedia e i personaggi devono far ridere… ma così facendo si diffondono schemi mentali che da scherzosi diventano permanenti.
In questi filmetti si vuole “tirare la giacchetta” al meridionale, si vuole far passare l’idea che poiché sei simpatico, fai ridere, sei in fin dei conti un bonaccione, tu meridionale ce la farai sicuramente perché il tuo fatalismo atavico, la tua buona stella, verranno in tuo aiuto. E non si vuole capire che la diffusione di questo stereotipo è dannoso per noi meridionali e per chi meridionale non è e interagisce con il Mezzogiorno per la prima volta non solo individualmente ma soprattutto imprenditorialmente. Riusciremo un giorno a liberarci del concetto di “familismo amorale” appioppato dal sociologo Banfield, guarda caso, agli abitanti di un paesino della Basilicata degli anni ’50? È ovvio che la permanenza di una certa concezione folcloristica e tribale del lucano, e del meridionale in generale, seppure per veniali motivi cinematografici, non agevolerà l’esito positivo di tale processo.
Dice bene Rocco Papaleo quando canta: “… Tu che ne sai, l’hai vista mai / Basilicata is on my mind…”. Infatti in molti vogliono girare film su una terra che non hanno visto mai e che conoscono solo come idea facente parte di un immaginario collettivo da aggiornare. Altrimenti non si spiegherebbe perché, nel film di Gaudioso, gli abitanti di Pietramezzana (raccapricciante ibrido ricavato – forse per non offendere nessuno in particolare – dai nomi dei due paesi lucani di Pietrapertosa e Castelmezzano) parlino in napoletano!
Ora, capisco che per la maggior parte degli italiani non residenti nelle regioni meridionali (alcuni di questi, forse, parenti stretti degli stessi che hanno scritto il cartello “non si fitta ai meridionali e ai migranti”) tutto ciò che sta al di sotto di Roma è semplicemente “SUD” o “Regno delle Due Sicilie”, con Napoli capitale, e che di conseguenza tutti gli abitanti di queste regioni siano “napoletani”, ma non possono essere “omogeneizzate” in questo modo, nonostante la simpatia che nutro nei confronti di Buccirosso e company, le interessanti e piacevoli sfumature dialettali di un’intera regione, solo perché da un punto di vista commerciale e cinematografico la “lingua napoletana” ha un effetto più comico rispetto al dialetto lucano; solo perché ormai nell’immaginario collettivo il “napoletano” (come lingua e come tipologia umana) è sinonimo di comicità, scarsa affidabilità, pressappochismo, ironia, fatalismo… E quindi di risate da cinema.
Per non parlare del “mito” del medico venuto dal nord: eravamo abituati alla caratura morale e umana del Carlo Levi (interpretato dall’immenso Gian Maria Volonté) di Cristo si è fermato a Eboli, spedito al confino da Mussolini per motivi politici, e ci siamo ridotti a… Fabio Volo (il Claudio Bisio della situazione, mutuato dal film “Benvenuti al Sud”) che recita come scrive, spedito a Pietramezzana per motivi ridicoli come il suo personaggio! Doppiamente ridicolo perché, a detta del regista, sarebbe portatore di novità tecnologiche e musicali: infatti in Lucania suonano ancora i bongo e la docking station per iPod del medico proveniente dal civilissimo nord, avrebbe dovuto avere nel film lo stesso effetto che ebbero gli specchietti e i campanelli regalati agli indigeni dai navigatori europei, all’indomani della scoperta dell’America.
E poi, perché il cricket dovrebbe essere considerato come fattore di civilizzazione e modernità di una comunità al posto del più antico e tradizionale mazza e pivezo? Solo perché è uno sport “che viene da fuori” e nel film piace all’ospite? È il solito problema dell’esterofilia cronica dell’italiano medio.
L’idea del settentrionale traumatizzato all’idea di doversi adattare alle “selvagge” condizioni di vita di un paesino del Mezzogiorno, francamente ha fatto il suo tempo: come se, al contrario, un meridionale non avesse alcun problema ad adattarsi allo stile di vita di certi paesini del nord forse più sperduti, disabitati, arretrati, disagiati, selvaggi, noiosi, seppur pittoreschi, di quelli descritti nei suddetti film. Questi cliché cinematografici servono solo ad alimentare un luogo comune che, diciamocelo, piace e diverte, che si vende bene e che rassicura gli animi col suo immobilismo ideologico. È più faticoso ricercare, distinguere, fare confronti, capire, conoscere il territorio chilometro per chilometro, parlare con le persone. La “cronaca del bello” non fa notizia e la “cultura da Studio Aperto” è predominante.
Anche se l’intento è pacifico e si tratta di innocue commedie per ridere un po’, io non voglio che la mia terra sia raccontata dai Siani, dai Bisio, dagli Orlando, dai Volo o dai Papaleo. Non si vogliono negare le innumerevoli problematiche del Meridione; non si vogliono nascondere i difetti culturali e comportamentali delle persone: è l’approccio narrativo che deve cambiare; è il modo di raccontare questi problemi che non deve più fare solo ridere. Non voglio che tutto si riduca a una risata indotta da facili luoghi comuni: “voglio di più!” cantava Pino Daniele.
E mi auguro che questo andazzo cinematografico cambi; spero nella rinascita di un certo cinema d’essai capace di tornare a raccontare il territorio in maniera sperimentale ma seria, non solo per inseguire gli incassi tra una risata e l’altra, ma per riconquistare la verità storica, culturale e umana di una parte d’Italia attraverso un modo differente di raccontare.
Un esempio recente tra tutti? Ho percepito una nuova speranza nell’esperimento cinematografico di Vinicio Capossela intitolato “Nel paese dei coppoloni”…
Chissà, chi vivrà… visionerà!
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26 marzo 2022 a 19:39
Aggiungo un mio cazzeggio filmico, un film immaginario
IL RITORNO DEI BASILISCHI OVVERO CRESCERANNO I CARCIOFI A BERNALDA
E’ il seguito dei Basilischi di Lina Wertmuller girato dopo la premiazione con “Vela d’argento” al Festival di Locarno.
La trama in breve; Antonio è tornato in paese dopo la laurea, per aprire uno studio di notaio, ma si rende conto che è una strada senza uscita allora decide di partecipare con gli amici Francesco e Sergio all’impresa di coltivazione biologica aperta di recente dai due a Bernalda.
Sotto le enormi serre fatte arrivare dalla Germania crescono carciofi di taglia king size.
Sembrano avere successo nelle vendite, ma la potente associazione dei Coltivatori Diretti fa bloccare il raccolto per eccesso di additivi chimici.
I tre decidono di coltivare sotto le serre una pianta indiana non per uso alimentare, ma ludico.
Arriva il successo, Bernalda diventa la piazza di spaccio più affollata dell’Italia Meridionale.
Il mancato visto della censura impedisce la distribuzione del film.
Se ne sono perse le tracce.
Una copia insieme alla bozza del manifesto sono stati di recente reperiti nel magazzino della Galatea Film adibito da anni a deposito di merce cinese.
La copia restaurata verrà proiettata durante il prossimo festival di Venezia.
Critica: mai visionato
Pubblico: mai proiettato
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26 marzo 2022 a 19:52
Sicuramente un film più interessante di quelli da me “sculacciati” nel post… Oserei dire la versione lucana di uno spassosissimo “L’erba di Grace”, film d’oltremanica di qualche anno fa… p.s.: spero di vedere il suo film un giorno…
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26 marzo 2022 a 19:33
ho scritto sulla Basilicata, ci ho vissuto alla fine degli anni 70. Ho apprezzato la tua giusta filippica sui filmacci di maniera .
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26 marzo 2022 a 19:47
Grazie per aver letto! 😉
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29 giugno 2019 a 17:18
L’ha ribloggato su Pomeriggi perduti.
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15 ottobre 2017 a 22:28
Michele una lettura davvero chiara e corretta di ciò che sta accadendo da queste parti. Se ti fa piacere più in là, se tutto va come deve andare, ti contatteremo. Buon lavoro
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15 ottobre 2017 a 22:45
Con molto piacere… Grazie per aver letto.
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19 ottobre 2017 a 00:57
Come hai detto tu citando le parole della canzone di Papaleo tu che ne sai l’hai vista mai Basilicata is on my mind. Veramente non lo sanno quanto è bella la mia terra e quanto è ricca di sapori e colori con un profumo meraviglioso che solo lei può avere io sono fiero di essere Italiano ma più di tutto di essere LUCANO.
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19 ottobre 2017 a 08:53
è così… grazie per aver letto!
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