On the road

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“… Dovevamo ancora andare lontano.

Ma che importava, la strada è la vita…”

(Sulla strada, Jack Kerouac)

Che differenza c’è tra il cammino di quando si è giovani e quello che si compie da adulti? Non dipende dalla quantità di passi, dalla forza disponibile, dall’orario scelto per camminare, dal tipo di strada, asfaltata o sterrata… Da giovani quasi sempre si cammina in compagnia, si cerca la massa, perché in fondo non sappiamo chi siamo, cosa vogliamo, e nel gregge (o nel branco, a seconda dell’indole) ci diluiamo, ritroviamo negli altri i pezzi mancanti della nostra identità, gli integratori di personalità; dal gruppo riceviamo la carica energetica per fare, decidere, confrontarsi, coltivare ideali, costruire qualcosa per noi e la comunità, o per illuderci di farlo; da giovani si ha la speranza di camminare in compagnia di un mondo fatto di persone perché il disincanto non ha ancora preso il sopravvento e crediamo testardamente nella parola insieme: non si è consapevoli della condizione solitaria dell’essere umano, del fatto che il mondo esisterebbe ugualmente anche senza gli altri e che la visione che abbiamo di questo pianeta è solo nostra e di nessun’altro; l’essere soli è una condizione non permanente ma fondamentale, da vivere almeno una volta nel corso della vita: la patologia nasce dall’imposizione della solitudine; quando è spontanea e ricercata in piena autonomia, deve essere vissuta con serenità.

L’assioma aristoteliano dell’uomo animale sociale ce lo raccontiamo volentieri perché conviene da un punto di vista pratico, economico (senza per questo dover giungere agli “estremi” descritti da Hobbes); perché abbiamo bisogno degli altri per sopravvivere in determinati momenti, per non sentire il freddo della galassia in cui vaghiamo. In realtà siamo soli anche quando ci uniamo in matrimonio o sposiamo la causa ideologica di un partito politico che ci avvolge e ci prende totalmente. La solitudine è la parte vera, cruda, naturale del nostro esistere: tutto quello che riusciamo a conquistare partendo da questa verità assoluta – verità che non deve scoraggiare o causare malinconia e che è in grado di posizionarci dinanzi a uno specchio per alcuni doloroso e al tempo stesso catartico, che purifica dal superfluo della verde età – è una conquista duratura e inattaccabile, che dà i propri frutti in un’ora inattesa. Quando si è giovani si cammina insieme agli altri perché non conosciamo il potere riparatorio e ricostituente della nostra solitudine, non l’abbiamo ancora sperimentato, ed è giusto che sia così a quell’età. Il passaggio è graduale, la perdita quantitativa di presenze umane è determinata da uno stillicidio impercettibile.

Da adulti, una volta raccolta una quantità sufficiente di esperienze sia positive che negative, abbiamo la forza e la consapevolezza che occorrono per camminare da soli. È un cammino solitario che paradossalmente permette di entrare in sintonia con molte più persone, di incontrare chi è come noi e di escludere la massa che scherma il segnale. Cantava Fossati: “… cambio posto e chiedo scusa / ma qui non c’è nessuno come me…”. Per sintonizzarci sulle stesse frequenze di chi è come noi, però, dobbiamo imparare a fare silenzio, a stare soli, in disparte per meglio osservare e capire cosa vogliamo, ai margini (ed essere sereni mentre si sta al confino, altrimenti l’insoddisfazione per l’assenza di persone e cose vane, che abbiamo creduto indispensabili, disturba l’ascolto); come ho scritto anni fa nella poesia Riconoscersi: “… ho riconosciuto tra sussurri di venti rapaci / la tua voce rivolta all’anima…”. Non c’è altra via.

Ma come passare da una condizione volontaria di cammino solitario a una scelta qualitativamente coerente di aggregazione associativa? Per compiere questo passaggio c’è bisogno di un progetto, di un obiettivo personale, di una scelta, di una strada e di una personalità forgiata dalla solitudine capace di creare quei silenzi necessari affinché si possa riconoscere la validità di un contatto umano in analogia con il nostro percorso. Perché le persone che si avvicinano lungo il cammino assomigliano alla scelta che abbiamo fatto, a come decidiamo di essere, a chi decidiamo di diventare: la teoria della casualità degli incontri è vera fino a un certo punto; in realtà spesso siamo noi che determiniamo gli accadimenti e influenziamo inconsapevolmente la qualità della tipologia umana di cui ci contorniamo. Un contornarsi senza forzature, con serena coerenza verso se stessi. Controllare questa qualità non è facile, ma con l’esercizio si diventa abili. I suoni migliori di una musica si percepiscono quando il volume è basso, tutto il resto è frastuono che fa vibrare i vetri della nostra stanza.

La condizione naturale di base è il vuoto che non è povertà d’animo, è il silenzio che non è sinonimo di abbandono: tutto quello che viene aggiunto in seguito è frutto di una scelta che deriva dal vuoto e dal silenzio che siamo stati in grado di creare dentro e fuori di noi. Invece molte persone continuano insistentemente a non voler restare sole, a riempire la propria vita di presenze che acuiscono una solitudine interiore cronicizzata, anche se esteriormente sembrerebbe esserci una compagnia consistente e in gioioso movimento. In La locomitiva ho scritto: “… Occorreranno molti anni ancora / prima di poter assaporare / arrugginiti, consapevoli e serenamente feriti / il nettare stagionato / dell’individualismo notturno / osservando senza nostalgia / il mito dell’insieme / dai banconi consumati del disincanto.” Ma è un’attesa che non spaventa perché è sostenuta, appunto, da un progetto, da un percorso studiato, da una saggezza dolorosa ma necessaria, dall’assertività di una scelta. Sapremo ricostruire un nuovo mondo intorno a noi partendo dalle macerie di quello distrutto precedentemente? Da qualche anno si fa un gran parlare di resilienza: è divenuta una moda lessicale più che una reale capacità riscontrabile nei fatti. Credo molto di più nei lenti processi ricostruttivi, quelli che si verificano dopo una sconfitta riconosciuta. Assorbire i colpi (per non dire evitarli) è roba da film alla Jean-Claude Van Damme! In realtà la vita fa male e non sempre ci si rialza.

Si avvicineranno al camminatore solitario solo le persone che si riconosceranno nei suoi passi silenziosi e non nel ricercato chiacchiericcio durante le pause lungo la strada, dettato dall’insostenibilità della propria solitudine e per colmare vuoti. A quel punto sarebbe molto più coerente una sana diluizione di se stessi nel gregge, dimentichi della ricerca di senso, assecondando gli altri per quieto vivere. Si avvicineranno al camminatore solitario i suoi simili, quelli che annusando l’aria intorno al soggetto avranno subodorato affinità e fini. Nell’attesa occorreranno fede e speranza attiva, perché: “Ci saranno luppoli migliori / e nuovi discorsi da pub…” (Silenzio Assenzio).

Invidio molto – si fa per dire – quelli in grado di trascorrere la propria intera esistenza al calduccio delle certezze ideologiche, riparati sotto il tetto di un ideale o di una funzione, senza avere dubbi, in attesa della morte: diventano loro stessi funzione (o finzione?), il loro corpo si modella sulla funzione adottata. Eterni prigionieri di un titolo che li marchia a fuoco. Mentre sarebbe più giusto porsi continuamente la domanda: “Ti sei mai chiesto quale funzione hai?”. Per non rilassarsi…

Sembrerebbe ossimorico ma ci si incammina in gruppo non consapevoli del proprio essere soli, per poi riscoprirsi parte di un insieme più omogeneo quando si è imparato a camminare in solitudine. Ormai l’esperienza è fatta, non si torna indietro: una volta assaporata la solitudine si può anche scegliere una vita sociale, conservando e coltivando in parallelo la conquista interiore ottenuta.

Camminare da giovani, camminare da adulti… Sono fasi differenti della medesima esistenza: l’importante però è restare sempre sulla strada.

versione pdf: On the road

“Di nuovo sulla strada
non vedo l’ora di essere di nuovo sulla strada
la vita che amo è far musica coi miei amici
e non vedo l’ora di essere di nuovo sulla strada

Di nuovo sulla strada
verso posti dove non sono mai stato
vedere cose che potrei non rivedere mai
e non vedo l’ora di essere di nuovo sulla strada

Di nuovo sulla strada
come un gruppo di zingari, ce ne andiamo sull’autostrada
siamo i migliori amici possibili
che insistono nel dirigere la vita
nella direzione che vogliamo noi
e la direzione che vogliamo…”

(fonte)

Una Risposta to “On the road”

  1. L’ha ribloggato su Pomeriggi perdutie ha commentato:

    “… Sembrerebbe ossimorico ma ci si incammina in gruppo non consapevoli del proprio essere soli, per poi riscoprirsi parte di un insieme più omogeneo quando si è imparato a camminare in solitudine…”

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