A cura di Carlo Bordoni VOLUME ILLUSTRATO Edizioni Odoya 2013, pp. 672, euro 26.00
Una summa ragionata che non ha precedenti in Italia Un’enciclopedia tematica per lemmi dall’Ottocento a oggi Una raccolta degli autori più significativi di sempre Una guida agli autori italiani Curiosità, approfondimenti, incursioni nel cinema e altri media
La fantascienza ha cambiato il mondo. A partire dalla fine dell’Ottocento, quando i primi scrittori hanno cominciato a immaginare un futuro dominato dalla macchina, dalle scoperte scientifiche, da vettori capaci di vincere la gravità e viaggiare nello spazio, questa narrativa ha contribuito a costruire il futuro dell’uomo nell’era della tecnica, anticipando invenzioni, scoperte, e mettendo in guardia contro i rischi della meccanizzazione.
Ma anche la fantascienza è cambiata. Si è fatta adulta: dai “pulp magazine” da pochi centesimi, attraverso la narrativa d’intrattenimento è approdata alla “Letteratura ufficiale”, quella con la “L” maiuscola, entrando a pieno titolo nelle scuole, nelle università, nelle biblioteche e nelle cineteche; rappresentando, al pari di altre opere della creatività, l’intuizione e la complessità del pensiero umano. Oggi la fantascienza non è solo divertimento, ma anche occasione di conoscenza, critica sociale, riflessione sul futuro dell’uomo.
Per avvicinarci a questa innovativa opportunità di “vedere” la realtà con occhi nuovi, consapevoli della sua rilevanza, è necessario andare alle sue radici, non tanto scrivendone la storia, quanto presentandone i temi fondamentali e i luoghi topici sui quali si sono esercitati gli scrittori di fantascienza fino a oggi.
Ogni “voce” è autoconclusiva e si legge come un racconto a se stante, aprendo, nel collegamento con altri lemmi, una rete del sapere e dell’immaginario, con un effetto di rimandi e citazioni che incuriosisce e sorprende. A questo volume si è dedicato un gruppo di critici e studiosi, tra i maggiori esperti del settore, raccolti attorno alla rivista IF (Insolito e Fantastico) e coordinati da Carlo Bordoni.
Testi di: Claudio Asciuti, Carlo Bordoni, Domenico Gallo, Riccardo Gramantieri, Giuseppe Panella, Gian Filippo Pizzo.
Guide turistiche, manuali, mappe, percorsi didattici, audioguide multilingue, nuove tecnologie… Innumerevoli sono i modi per conoscere ciò che si osserva, per sapere tutto ciò che c’è da sapere sul monumento che trovi lungo il tuo cammino, per ‘imparare’ (ammesso che si conosca il vero significato del termine: imparare come per dire ‘nozionismo preconfezionato da altri’ oppure imparare dall’esperienza diretta?). Quante delle informazioni acquisite in maniera confusa e veloce, nel corso di una vacanza, rimarranno per sempre impresse nei nostri banchi mnemonici? Pochissime, quasi nessuna: nella migliore delle ipotesi un’immagine, un nome, qualche aneddoto particolarmente stuzzicante, anche se storicamente irrilevante. Ci affanniamo a leggere cartelli informativi per giustificare il costo del biglietto d’ingresso – vivendo nell’illusione di acculturarci – e dimentichiamo l’oggetto che è lì, davanti ai nostri occhi, presente da secoli e che ci parla con un linguaggio afono universale che abbiamo dimenticato ma non del tutto rimosso dai nostri circuiti conoscitivi primordiali.
Smettiamola di camminare sotto il sole come tanti invasati; smettiamola di fotografare stupidamente migliaia di cose inutili: sembriamo ladri di immagini sull’orlo di una crisi di nervi, archeo-consumisti del terzo millennio, nevrotici cittadini in vacanza sempre a caccia di ‘saldi’ tra i negozi della storia. Mettiamo da parte le guide cartacee e quelle interattive e riconquistiamo la ‘conoscenza tattile’ e istintuale (“vissuta e incosciente”), il contatto diretto, non enciclopedico, tra noi e il monumento. Personalizziamo la conoscenza. Riscopriamo gesti primordiali, semplici nella loro arcaicità ma efficaci per ottenere informazioni irrazionali, non predigerite, dirette e sensoriali.
Toccare un monumento, una porzione raggiungibile, una piccola parte di esso: percepirne la temperatura con il palmo della mano; sentire al tatto la sua superficie liscia o ruvida; sentirne la consistenza; rendersi conto dello spessore materiale grazie al quale ha potuto sfidare (e superare) la storia umana e naturale; capire il perché della sua resistenza muta nel tempo. Chiudere gli occhi e realizzare una sorta di fusione spazio-temporale tra noi e l’oggetto millenario; una fusione mentale tra l’ennesimo visitatore del presente e i costruttori impermanenti ormai divenuti polvere, ma resi immortali dalla propria opera. Avvertire il peso del jet lag storico. L’oggetto invecchia più lentamente ed è testimone del passaggio terreno degli effimeri e geniali abitanti di questo pianeta, delle loro passioni sociali, politiche, delle loro guerre, della loro scelleratezza.
Toccare una colonna, sfiorare un marmo, sostare su una scala antica, abbracciare un pilastro, distendersi su un pavimento, appoggiare la guancia su una scultura rupestre, sentire il corpo inorganico ma vivo e farne parte, meditare a lungo sul tappeto di una antica moschea pur non essendo musulmani, convivere con i silenzi che circondano l’oggetto senza preoccuparsi di riempirli, sedersi in una zona d’ombra dimenticata dal flusso turistico: il contatto fisico ci assicura un passaggio di energia conoscitiva spazio-temporale lasciataci in eredità; un contatto efficace più di mille libri, più di tante parole inutili che andranno perse nel mare della distrazione sensoriale. Lasciarsi riempire passivamente da una volontà storica più forte di noi. Dimenticare gli affanni e gli orari; dimenticare il proprio corpo e creare una parentela indissolubile tra noi e il manufatto.
L’energia cosmica assorbita nel tempo dal monumento ritorna al suo creatore umano che diviene inconsapevolmente testimone della storia e custode di una quota esistenziale che attendeva da secoli un curioso erede di passaggio. Il principio termodinamico adattato all’energia monumentale: così avvengono trasferimenti sapienziali tra l’oggetto antico e l’essere recente e vergine. Rimanere a casa in modalità asettica, vivere indirettamente gli spazi, vedere la storia in televisione, non interagire con la realtà: tutto questo equivale a una dispersione di energia, equivale a morire interiormente. Non si tratta di ‘divertimento’, di ‘vacanza’ (nel senso di ‘vacante’) ma al contrario di nuovi ‘riempimenti’, di riequilibri energetici tra noi e gli oggetti storici. Ci sono cose che non possono essere raccontate a parole; ci sono energie che non possono essere masterizzate, impacchettate o vendute.
Ed è per questo che all’ingresso di ogni area archeologica dovrebbe esserci un cartello con su scritto: “È severamente vietato NON toccare i monumenti”.
Quando pensiamo alla cosiddetta ‘primavera araba’ ci vengono subito in mente le immagini del giovane egiziano che si dà fuoco per protesta davanti al Parlamento, della fuga dalla Tunisia di Ben Ali, della protesta finita nel sangue del popolo libico, degli scontri in Siria… Spesso, però, le rivoluzioni si nutrono anche di ‘lotte culturali’ incruente ma significative: lotte che affondano le proprie radici in bisogni semplici, scontati per noi occidentali, intrisi di praticità e quotidianità.
Un nutrito gruppo di irriducibili donne saudite, in questi giorni, sta protestando in nome di un diritto che potrebbe far sorridere la parte rosa ed emancipata del nostro mondo libero: il diritto a guidare un’automobile. Non si tratta di una sterile protesta di piazza in attesa di futuri cambiamenti legislativi ma di una manifestazione attiva e disobbediente: le donne di “Women2drive”, questo il nome del comitato che ha organizzato la protesta delle disobbedienti al volante, chiedono di poter circolare liberamente in auto e di non essere arrestate dalla polizia saudita se la mattina accompagnano i propri figli a scuola utilizzando l’automobile del marito-padrone fondamentalista. Tutto qui.
Non posso, in qualità di occidentale amante della cultura orientale e mediorientale ma che resta dubbioso dinanzi a tali eccessi interpretativi della legge coranica (si tratta, è vero, di una legge dello stato, ma sono fin troppo evidenti le connessioni con le varie proibizioni di origine ‘religiosa’), non ripercorrere una tappa in particolare dell’emancipazione della donna occidentale. E l’occasione mi viene fornita dalla rilettura del Manifesto della donna futurista scritto nel 1912 dalla bella francese Valentine de Saint-Point (nella foto), amante di Marinetti. Interessante il suo anti-femminismo (forse vedeva nel femminismo una sconfitta indiretta della natura femminile, un elemosinare diritti appartenenti alla mascolinità tradendo di fatto le potenzialità intrinseche nell’essere donna) e la sua successiva conversione all’Islam.
“Noi vogliamo glorificare […] il disprezzo della donna”
Parole da non fraintendere ma da interpretare provocatoriamente (parliamo di una provocazione lanciata all’inizio del XX secolo e non durante la ‘rivoluzione sessuale’ del ’68) in vista di un’emancipazione della donna raffigurata come ‘angelo del focolare’, tutta casa-chiesa-famiglia. Incalza la de Saint-Point nel 1912: “La maggioranza delle donne non è superiore né inferiore alla maggioranza degli uomini. Esse sono uguali. Tutte e due meritano lo stesso disprezzo.” E poi: “Ecco perchè nessuna rivoluzione deve rimanerle estranea; ecco perchè invece di disprezzare la donna, bisogna rivolgersi a lei.” Conclude: “DONNE, PER TROPPO TEMPO SVIATE FRA LE MORALI E I PREGIUDIZI, RITORNATE AL VOSTRO ISTINTO SUBLIME: ALLA VIOLENZA E ALLA CRUDELTÀ.”
È edificante poter rileggere il Manifesto della donna futurista (vi invito a farlo) alla luce dei fatti sopra descritti, facendo riferimento alla disobbedienza delle donne-guidatrici di Riad: la freschezza e l’attualità del pensiero della de Saint-Point è a dir poco entusiasmante.
Dopo la ‘primavera araba’ i tempi sono maturi, forse, anche per la realizzazione di un ‘futurismo saudita’.
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L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
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