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versione pdf: “V for Vendetta” vs “Trainspotting”: monologhi a confronto
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Nel post che vi apprestate a leggere (spero fino alla fine), cercherò di mettere a confronto due monologhi cult della più o meno recente produzione cinematografica internazionale: quello di V nel film “V per Vendetta” e quello di Mark Renton (soprannominato Rent) all’inizio del film “Trainspotting”. Qualcuno si starà chiedendo cosa abbiano in comune questi due monologhi; domanda legittima: infatti appartengono a due generi, due realtà differenti (l’una fantastica ambientata in un Regno Unito distopico, l’altra ha come sfondo una Edimburgo storicamente verificabile, descritta nell’omonimo romanzo di Irvine Welsh; come nel caso anche del romanzo “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” di Christiane F.) e i personaggi che li pronunciano sono a dir poco antitetici. Eppure, discostandomi dai rispettivi contesti senza mai perderli di vista, concentrandomi solo ed esclusivamente sui testi, ho trovato ugualmente interessante andare alla ricerca di analogie e differenze.
Entrambi i monologhi hanno come obiettivo il capovolgimento di un establishment, politico o culturale, o di un ordine esistenziale in cui non ci si riconosce più: nel caso di V il potere da combattere è violento, organizzato, visibile, è ben strutturato e personificato nell’Alto Cancelliere Adam Sutler (interpretato dal compianto John Hurt, recentemente scomparso); nel caso dei ragazzi di Trainspotting il disagio deriva da un potere che non viene mai nominato: è diluito, interiore, dimora in quegli oggetti che a lungo andare ci posseggono, presidia le nostre scelte esistenziali e consumistiche, ha le sembianze scomode di un dovere sociale a cui non ci si può sottrarre. L’approccio “etico” al sovvertimento è, come chi ha visto entrambi i film può facilmente immaginare, diametralmente opposto: mentre V incoraggia i cittadini di Londra a compiere una precisa e puntuale scelta rivoluzionaria che dovrebbe migliorare la vita della società sul piano delle libertà individuali e collettive, Mark Renton sceglie di non scegliere: “Io ho scelto di non scegliere la vita. Ho scelto qualcos’altro”. Ovvero, si sceglie di combattere il sistema sottraendo se stessi alla spirale opprimente di una vita normale. Anche da questa non-scelta possiamo ricavare un insegnamento utile, ricevere un messaggio da un’epoca, un segnale sociale e culturale da non sottovalutare: per capire l’origine del disagio, per comprendere l’impotenza dei suoi protagonisti e il perché di un annientamento.
E la prima domanda che potrebbe nascere dal confronto dei monologhi è la seguente: “è più facile contrastare un potere dispotico concreto o uno che si nasconde tra le pieghe apparentemente innocue della libertà quotidiana?”
Il monologo di V comincia in maniera educata e comprensiva nei confronti di un benessere materiale che non sembra essere il primo nemico da combattere: “Buona sera, Londra. Prima di tutto vi prego di scusarmi per questa interruzione: come molti di voi, io apprezzo il benessere della routine quotidiana, la sicurezza di ciò che è familiare, la tranquillità della ripetizione; ne godo quanto chiunque altro…”; quello di Rent con chiede scusa ma punta il dito immediatamente contro i simboli che portano l’uomo a un graduale ma inesorabile “rammollimento” (accuse che, formulate da un eroinomane dedito all’autodistruzione, potrebbero sembrare pretestuose!): “Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo, scegliete lavatrice, macchina, lettore cd e apriscatole elettrici…”
V dà inizio al suo intervento televisivo pirata con un pippone esagerato ma indispensabile sull’importanza della commemorazione, sul valore della parola (“Alcuni vorranno toglierci la parola, […] Perché, mentre il manganello può sostituire il dialogo, le parole non perderanno mai il loro potere; perché esse sono il mezzo per giungere al significato, e per coloro che vorranno ascoltare, all’affermazione della verità.”), sulla denuncia di un sistema non più sopportabile (“… c’è qualcosa di terribilmente marcio in questo paese” che ricorda il Something is rotten in the state of Denmark – C’è del marcio in Danimarca – di shakespeariana memoria), sulla libertà di pensiero e sulle ragioni storiche che hanno portato alla deriva orwelliana presa in prestito nel film di James McTeigue (tratto dall’omonimo graphic novel di Alan Moore e David Lloyd).
Entrambi i monologhi giungono sorprendentemente alla stessa conclusione: la causa della realtà in cui viviamo, siamo noi stessi. Afferma V: “… se cercate il colpevole… non c’è che da guardarsi allo specchio.”; molto più “filosofico” e introspettivo Mark Renton: “… chiedetevi chi siete la domenica mattina”. Entrambi incitano a ricercare un io inconsapevole, pigro, sonnolento e rassegnato, per spingerlo a riappropriarsi di libertà seppellite e dimenticate, di futuri alternativi ancora recuperabili e raggiungibili tramite la lotta sociale o addirittura fuggendo nell’eroina. Nel primo caso le ragioni sono eticamente condivisibili, nel caso di Mark Renton & company non ci sono ragioni, perché “Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”. In entrambi i casi si tenta di raggiungere una sorta di libertà: quella ricavata dalla tossicodipendenza è sicuramente discutibile, ma si tratta pur sempre, e a suo modo, di una libertà. Autodistruttiva, egoistica, disperata: l’unica che i protagonisti di “Trainspotting” riescono a concepire.
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