Può un’unica sequenza contenere il “dna” di un intero film (e addirittura del romanzo da cui trae origine)? Presuntuosamente rispondo di sì. Le inquadrature volute dal regista, la colonna sonora che rinforza la drammaticità speranzosa del momento, le scene che narrano senza l’ausilio di dialoghi il processo evolutivo di un’anima acerba: si ha la fortuna di assistere all’incipit di una nuova poetica…
La scena a cui mi riferisco è quella in cui il piccolo Jurij Andrèevič Živago partecipa ai funerali della madre, nel film di David Lean Il dottor Živago (1965).
Alte montagne innevate fanno da sfondo al movimento microscopico di un piccolo corteo funebre: come a voler mettere subito in chiaro che la grande Madre Russia è testimone silenziosa e paziente della vita “insignificante” dei suoi figli, dei loro moti esistenziali e politici; la spiritualità naturalistica di Pasternak – anche nel film – prende immediatamente il sopravvento: non importa quali siano le intenzioni sociali, culturali, politiche, religiose dell’essere umano, ci sarà sempre una grande anima taciturna testimone della storia dell’umanità, un’anima superiore alle ideologie, ai sistemi economici, alle rivoluzioni, alle debolezze della carne, ai capricci sentimentali… Solo una sensibilità poetica può percepirla intorno alle cose, ai fatti della vita; solo un poeta può prendere parte alla storia senza lasciarsi intrappolare in essa in maniera definitiva.
Il mondo degli adulti visto dal basso, ad altezza di bambino; l’inesorabilità della morte, una fossa scavata nel terreno, un coro straziante che accompagna la salma e la bellezza intatta di una madre morta: questo è il biglietto da visita che la nuova vita presenta al piccolo Jurij.
Ma quella vita crudele mai prevarrà: mentre la bara ancora scoperta della madre viene adagiata in terra e il prete ortodosso comincia la sua austera predica funebre, già lo sguardo di Jurij segue ben altri sentieri eterei e impercettibili ai presenti. Vita artificiosa, castello di vanità, – ricorda il prete la caducità del passaggio terreno – involucri distrutti e spiriti che abbandonano la materialità, crete che si sfaldano, corpi morti muti e insensibili: tutto quello che con severità il dogma religioso ripete da secoli, Jurij lo avverte nell’aria, lo sa pur essendo solo un bambino. Lo spirito che ha lasciato l’involucro sfaldato è già nel vento che agita le cime degli alberi del cimitero; chi ha bisogno di spiegazioni religiose quando ha in sé tutti gli strumenti poetici per capire ciò che non può essere spiegato? Chi ha bisogno di religioni quando ha la poesia?
Altre due “puntate” (qui e qui e ovviamente su Ebook Italia qui e qui) dell’intervista di Anna Maria Di Pietro al sottoscritto, pubblicata da Sara Lettrice su Instagram (i_libri_salvano)… Buona lettura!
La cosa che temeva di più, col passare del tempo, era di perdere la forza benefattrice derivante dall’amore vissuto, ricevuto e donato; una forza che aveva portato nel mondo con orgoglio e sicurezza d’animo, così come si porta in giro un regalo dall’effetto rigenerante per condividerlo con tutti. Il più bel regalo che la vita gli avesse fatto. Temeva di sprofondare nuovamente nella corrosiva ma appagante cattiveria appresa dai suoi simili e da se stesso, come autodidatta, durante gli anni senza lei. Precedenti alla sua cura.
“Solo ora mi accorgo della differenza, mi ricordo di com’era la mia vita prima dell’unicità di quell’amore. Ho toccato la grazia e ora so che senza amore la vita non vale la pena di essere vissuta” aveva affermato mesi prima, in tempi non sospetti, quando la sua chioma era lunga e folta, come la barba. Ma prima di riconquistare, chissà, un giorno, quello stato di grazia, avrebbe catturato e torturato qualche anima innocente. Forse alcuni milioni di anime senza colpa. Per riequilibrare il karma. “In fondo sono contento di essere libero e solitario. Assaporo il dolore agrodolce di una storia sospesa, come si sospendono le date di un tour perché l’artista è indisposto. Come il dolce malessere dopo un addio!”
Jazz, aria condizionata, gelato nel congelatore, siringhe da fare nei glutei dei vicini di casa, quelli un po’ vegliardi e malaticci, per mantenere in piedi una reputazione da bravo ragazzo attempato. Fisioterapia a domicilio invece del mare, la sequenza delle medicine da prendere, stampata e appesa al frigo che fa troppo ghiaccio, qualche piccola sagra nei dintorni, magari una capatina nel buen retiro di sempre. Questa la prospettiva di un serial killer in fieri?
Chi sarebbe stata la prima vittima? Ce ne sarebbe stata solo una all’inizio? O avrebbe organizzato la marcia su Morte in compagnia di una folla immensa? Conosceva già la risposta: quella mattina aveva rasato con estrema cura le sue inutili sopracciglia. Accorciato i capelli, rasato la barba. Era pronto ad annullarsi nella battaglia finale. Unica soluzione al dolore.
“Il lusso della scelta, paradossalmente, deriva proprio da quel benessere alla cui realizzazione hanno contribuito anche i vaccini e l’alimentazione carnea!” controbatteva in tv uno degli ultimi opinionisti sani di mente. Forse avrebbe cominciato proprio da un vegano o da un no vax del cazzo: uno di quelli che vota partiti di sinistra farlocchi, che legge l’Unità perché è trendy ed esce in strada con i risvoltini per andare a prendere la ragazza. Ingrati e capricciosi figli di puttana!
Una delle caratteristiche più frequenti nei recenti film di genere fantascientifico è senza alcun dubbio il processo di ibridazione da cui nascono: l’originalità, sempre più rara, è stata sostituita da più sicuri incroci tra porzioni di precedenti pellicole di successo (anche di generi differenti), come in una sorta di grande esperimento di ingegneria genetica adattata alla cinematografia. Lungi da me il voler giudicare come negativa questa tecnica d’ibridazione, che nella maggior parte dei casi fornisce risultati gradevoli, sarebbe tuttavia interessante analizzarne – in altra sede e in maniera più approfondita – l’origine, gli obiettivi, le tecniche narrative che utilizza per rendere credibile il risultato finale: si tratta di mancanza di idee come accennavo all’inizio? Voglia di “contaminazione” tra generi? Sperimentalismo transmediale libro-film? Sta di fatto che questi film derivano quasi sempre da altrettanti romanzi, quindi l’ibridazione avviene a monte. È letteraria.
Non sfugge a tale fenomenologia il film intitolato The Giver – Il mondo di Jonas (tratto dal romanzo The Giver – Il donatore di Lois Lowry): l’accostamento più facile da fare sarebbe quello con il film Hunger Games, ma scavando in profondità è interessante rilevare quante altre analogie meritano di essere scoperte e analizzate. La storia contenuta nel film di Phillip Noyce ha letteralmente “rubato” l’idea della riscoperta dei colori (e delle emozioni) a un altro grande film sottovalutato: Pleasantville. L’assegnazione di mansioni al compimento del 18° anno d’età assomiglia alla divisione in fazioni presente nel romanzo Divergentdi Veronica Roth (dal momento che il romanzo della Roth è del 2011, mentre quello di Lowry è del 1993, sarebbe il film Divergent ad avere un “debito” con The Giver – Il mondo diJonas; anche se entrambi i film sono del 2014!). L’estirpazione delle emozioni dall’animo umano è un chiaro riferimento al film Equilibriumdi Kurt Wimmer; la società quasi apatica, senza classi e senza memoria di The Giver ricorda un po’ quella degli Eloi di H. G. Wells; l’iniezione mattutina per debellare gli impulsi sessuali e sentimentali è l’equivalente, in termini di controllo sociale, dell’assunzione di somane Il mondo nuovodi Aldous Huxley; l’amore controllato (e inibito) tra uomo e donna non può non rievocare il rapporto proibito tra Winston e Julia nel celebre romanzo 1984di George Orwell. Per non parlare della deriva eugenetica, presente in numerose opere letterarie e cinematografiche fantascientifiche. Interessante il riferimento antiabortista (i bambini non conformi allo standard vengono “congedati”: un modo pulito per dire uccisi) e quindi antispartano contenuto nel messaggio filmico. Riferimento che potrebbe essere esteso anche al tema delicato e attuale dell’eutanasia: quando una società legifera sulla nascita, sulla morte e sui sentimenti ed emozioni contenuti nell’intervallo di tempo compreso tra questi due momenti, può definirsi libera? Sembrerebbe chiedersi la voce narrante di questa storia. Anche se, come accade nella realtà, non è la condizione esistenziale in sé ma la necessaria presa di coscienza a fare la differenza in termini di azioni da intraprendere.
L’idea di una società distopica “con il trucco” non è originalissima: nella maggior parte dei casi si tratta di società post-apocalittiche, perché deve esserci sempre un evento passato sconvolgente – una guerra, un’epidemia, una quasi estinzione – per far cambiare rotta all’umanità e per farle scegliere un nuovo inizio basato su scelte radicali applicate da un’oligarchia. Come a voler dire: “abbiamo sbagliato, è vero, ma da oggi in poi si riga dritto, con nuove regole e guai a chi sgarra!” Innumerevoli sono gli esempi, fantascientifici e non, letterari e cinematografici, di società apparentemente perfette ma che nascondono regole di vita disumane e innaturali: The Islandfilm di Michael Bay, L’uomo che fuggì dal futuro (THX 1138) di George Lucas, La penultima verità (The Penultimate Truth) romanzo di Philip K. Dick, The Truman Showfilm di Peter Weir, La fuga di Logan (Logan’s Run) film di Michael Anderson, La possibilità di un’isolaromanzo di Michel Houellebecq… ecc. Continuate voi: sono sicuro che avete almeno un titolo di film o di romanzo da aggiungere all’elenco!
Nel post che vi apprestate a leggere (spero fino alla fine), cercherò di mettere a confronto due monologhicult della più o meno recente produzione cinematografica internazionale: quello di V nel film “V per Vendetta” e quello di Mark Renton (soprannominato Rent) all’inizio del film “Trainspotting”. Qualcuno si starà chiedendo cosa abbiano in comune questi due monologhi; domanda legittima: infatti appartengono a due generi, due realtà differenti (l’una fantastica ambientata in un Regno Unito distopico, l’altra ha come sfondo una Edimburgo storicamente verificabile, descritta nell’omonimo romanzo di Irvine Welsh; come nel caso anche del romanzo “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” di Christiane F.) e i personaggi che li pronunciano sono a dir poco antitetici. Eppure, discostandomi dai rispettivi contesti senza mai perderli di vista, concentrandomi solo ed esclusivamente sui testi, ho trovato ugualmente interessante andare alla ricerca di analogie e differenze.
Entrambi i monologhi hanno come obiettivo il capovolgimento di un establishment, politico o culturale, o di un ordine esistenziale in cui non ci si riconosce più: nel caso di V il potere da combattere è violento, organizzato, visibile, è ben strutturato e personificato nell’Alto Cancelliere Adam Sutler (interpretato dal compianto John Hurt, recentemente scomparso); nel caso dei ragazzi di Trainspotting il disagio deriva da un potere che non viene mai nominato: è diluito, interiore, dimora in quegli oggetti che a lungo andare ci posseggono, presidia le nostre scelte esistenziali e consumistiche, ha le sembianze scomode di un dovere sociale a cui non ci si può sottrarre. L’approccio “etico” al sovvertimento è, come chi ha visto entrambi i film può facilmente immaginare, diametralmente opposto: mentre V incoraggia i cittadini di Londra a compiere una precisa e puntuale scelta rivoluzionaria che dovrebbe migliorare la vita della società sul piano delle libertà individuali e collettive, Mark Renton sceglie di non scegliere: “Io ho scelto di non scegliere la vita. Ho scelto qualcos’altro”. Ovvero, si sceglie di combattere il sistema sottraendo se stessi alla spirale opprimente di una vita normale. Anche da questa non-scelta possiamo ricavare un insegnamento utile, ricevere un messaggio da un’epoca, un segnale sociale e culturale da non sottovalutare: per capire l’origine del disagio, per comprendere l’impotenza dei suoi protagonisti e il perché di un annientamento.
E la prima domanda che potrebbe nascere dal confronto dei monologhi è la seguente: “è più facile contrastare un potere dispotico concreto o uno che si nasconde tra le pieghe apparentemente innocue della libertà quotidiana?”
Il monologo di V comincia in maniera educata e comprensiva nei confronti di un benessere materiale che non sembra essere il primo nemico da combattere: “Buona sera, Londra. Prima di tutto vi prego di scusarmi per questa interruzione: come molti di voi, io apprezzo il benessere della routine quotidiana, la sicurezza di ciò che è familiare, la tranquillità della ripetizione; ne godo quanto chiunque altro…”; quello di Rent con chiede scusa ma punta il dito immediatamente contro i simboli che portano l’uomo a un graduale ma inesorabile “rammollimento” (accuse che, formulate da un eroinomane dedito all’autodistruzione, potrebbero sembrare pretestuose!): “Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo, scegliete lavatrice, macchina, lettore cd e apriscatole elettrici…”
V dà inizio al suo intervento televisivopirata con un pippone esagerato ma indispensabile sull’importanza della commemorazione, sul valore della parola (“Alcuni vorranno toglierci la parola, […] Perché, mentre il manganello può sostituire il dialogo, le parole non perderanno mai il loro potere; perché esse sono il mezzo per giungere al significato, e per coloro che vorranno ascoltare, all’affermazione della verità.”), sulla denuncia di un sistema non più sopportabile (“… c’è qualcosa di terribilmente marcio in questo paese” che ricorda il Something is rotten in the state of Denmark – C’è del marcio in Danimarca – di shakespeariana memoria), sulla libertà di pensiero e sulle ragioni storiche che hanno portato alla deriva orwelliana presa in prestito nel film di James McTeigue (tratto dall’omonimo graphic novel di Alan Moore e David Lloyd).
Entrambi i monologhi giungono sorprendentemente alla stessa conclusione: la causa della realtà in cui viviamo, siamo noi stessi. Afferma V: “… se cercate il colpevole… non c’è che da guardarsi allo specchio.”; molto più “filosofico” e introspettivo Mark Renton: “… chiedetevi chi siete la domenica mattina”. Entrambi incitano a ricercare un io inconsapevole, pigro, sonnolento e rassegnato, per spingerlo a riappropriarsi di libertà seppellite e dimenticate, di futuri alternativi ancora recuperabili e raggiungibili tramite la lotta sociale o addirittura fuggendo nell’eroina. Nel primo caso le ragioni sono eticamente condivisibili, nel caso di Mark Renton & company non ci sono ragioni, perché “Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”. In entrambi i casi si tenta di raggiungere una sorta di libertà: quella ricavata dalla tossicodipendenza è sicuramente discutibile, ma si tratta pur sempre, e a suo modo, di una libertà. Autodistruttiva, egoistica, disperata: l’unica che i protagonisti di “Trainspotting” riescono a concepire.
Niente spoiler, tranquilli! Solo alcune considerazioni a caldo su un film a mio avviso intelligentissimo e necessario. D’altronde la “trama” è intuibile fin dal trailer e c’è ben poco da spoilerare. Se riuscirete a superare la trappola ipocrita e perbenista del “non sta bene fare un film comico su quel fetentone di Hitler!”, allora avrete l’opportunità di collezionare, grazie a “Lui è tornato” del regista David Wnendt, tratto dall’omonimo e fortunato romanzo dello scrittore tedesco Timur Vermes, una serie quasi ingestibile di tragicomiche riflessioni storiche, sociali e culturali sul nostro tempo.
Un po’ Borat per l’impatto irriverente del personaggio nel presente quotidiano, un po’ Michael Moore in chiave comica per il piglio documentaristico, “da strada”, e critico nei confronti dell’attuale situazione socio-politica, il redivivo Führer di Vermes adattato al cinema riesce a strappare più di un sorriso amaro: l’impossibile interazione tra Hitler e il mondo in cui viviamo, dopo aver suscitato una comprensibile ilarità nello spettatore, induce a una catartica sospensione dell’incredulità (è ovvio che il cancelliere Adolf Hitler non potrebbe mai ripiombare nel 2014!) che spinge a sua volta, come avviene grazie alle opere di fantasia intelligenti, a una riflessione profonda e a tratti drammatica. Su di noi, sul nostro animo, sulla nostra società.
Osservando questa foto scattata a Napoli, nella mia Napoli, nel 1938 in occasione della visita di Hitler, ho pensato per un istante di trovarmi dinanzi a un fotomontaggio realizzato ad uso e consumo di un’ucronia, ovvero di un racconto fantastico che partendo da un’ambientazione storica reale in seguito devia dal percorso conosciuto a causa di una serie di “se” e conseguenti scenari alternativi ipotizzati (come sarebbe l’Europa oggi se Hitler avesse vinto la guerra; cosa sarebbe accaduto se Ponzio Pilato avesse liberato Gesù e crocifisso Barabba, andando contro la volontà popolare; ecc.).
E invece, come accennavo, questa foto presa in prestito da un post del sito NapoliToday (che a sua volta riprende un articolo di Corrado Ocone pubblicato sul Corriere della Sera), si riferisce a un fatto reale, storicamente documentato, un evento accaduto pubblicamente e quindi confermato da numerosi testimoni. Eppure osservando questa Piazza del Plebiscito inconsueta, lontana dal nostro presente, per certi versi quasi “irreale”, è inevitabile che mi lasci trasportare verso alcune considerazioni non da storico ma da semplice uomo della strada che riflette sul tempo (non quello atmosferico!), sul suo trascorrere, sul cambiamento solo apparente che la storia ci propone attraverso le forme.
Il punto iniziale di questa mia riflessione è rappresentato proprio dalle piazze: quelle storiche e importanti, almeno da un punto di vista architettonico e salvo radicali modifiche determinate da volontà dittatoriali o megalomanie regali autocelebrative travestite da progresso, da cataclismi o da altre insormontabili esigenze urbanistiche, restano invariate e riconoscibili anche dopo secoli; la parte variabile di una piazza, come di una città e di un intero paese, è costituita dalle forme aggiunte, dalle scenografie supplementari del momento più o meno rimovibili: vedere quellaPiazza del Plebiscito agghindata con i vessilli fascisti e nazisti, le svastiche e i fasci littori che sormontano l’emiciclo dorico disegnato da Leopoldo Laperuta su “mandato” di Gioacchino Murat, suscita una certa impressione in chi, come il sottoscritto, ha percorso quegli spazi godendo di una libertà ereditata alla nascita. Impressionato non perché scopro, grazie a questa foto storica, che sono esistiti (e purtroppo, anche se in misura minore, esistono ancora) il fascismo e il nazismo, ma con “occhio postumo” metto a confronto “le varie foto” di quello stesso spazio adoperato nel corso della storia in differenti momenti, diametralmente opposti, umanamente incompatibili: dalla visita di Hitler nel 1938 al concerto di Pino Daniele nel 1981! Tanto per fare un esagerato esempio di coesistenza degli eventi (o meglio, dei loro echi) in un luogo, come tanti altri nel mondo, che svolge la funzione di muto testimone di una metamorfosi delle forme voluta dall’uomo. Le piazze cambiano, le forme si alternano: ieri Hitler o Mussolini, oggi altri personaggi più comici, sicuramente meno tragici, ma altrettanto pericolosi e dotati di una carica ideologica che crea altre forme, moderne, adattabili ai tempi, meno eclatanti da un punto di vista scenografico o addirittura subliminali, forse più volgari ma non meno attraenti.
Il mio vuole essere un invito a non perdere di vista le forme attuali, a studiarle per disattivarle grazie a un confronto storico onesto e aperto, ma mai ingenuo e legato a una presunta unicità del tempo presente (che è sempre riducibile a un’unicità delle forme). Sappiamo compiere quest’opera di studio delle forme e dei loro effetti su di noi? In pochi, temo. Ovvero, una volta isolate le parti immutabili della storia, l’uomo e il suo contenuto primordiale costante, sappiamo osservare in maniera oggettiva le forme che agghindano il nostro tragitto temporaneo su questo pianeta? Per riuscire in questa impresa occorrerebbe stare al mondo con distacco, quasi un necessario ossimoro: partecipare alle forme dell’epoca ma senza perdere di vista l’anima laicamente intesa, la zona immutabile dell’umanità (il solo e autentico “monumento” costante nel tempo, più eterno delle piazze), la sua atavica e inossidabile imperfezione (e che, paradossalmente, rappresenta un confortante punto di riferimento per le generazioni che sanno riconoscerla durante i passaggi epocali), il contenuto che resiste ai secoli, alle ideologie e alle mode.
Così come vi è un’architettura secolare, solida, che “registra” i movimenti bizzarri dell’umanità, allo stesso modo esiste un’interiorità granitica che assiste muta all’influenza delle forme sul nostro agire: con l’unica differenza che mentre il monumento nasce inanimato e non “esprime giudizi”, la nostra interiorità apparentemente immobile può essere rianimata – non senza un certo lavoro! – per svolgere la delicata funzione di “guardiano delle forme”. Le religioni, soprattutto quelle operanti in occidente, in un contesto economico fagocitante e di progresso tecnologico ossessionante, hanno da tempo fallito nel loro compito maieutico e di autentica liberazione dell’uomo, assolvendo magistralmente invece a quello di “complice” del potere sistemico. Una speranza deriverebbe attualmente dal progressivo avvicinamento tra spiritualità e scienza, ma questo rappresenta un capitolo a parte…
Accettare questa sorta di “pessimismo storico” non significa disimpegnarsi nel presente (della serie: “l’uomo è sempre uguale e non cambierà mai niente, quindi perché sudare? Tanto vale attendere la morte godendo dei piaceri dell’esistere!”); si tratta invece di un’accettazione consapevole in grado di prepararci alle cicliche cadute causate dalla “debolezza congenita” della specie a cui apparteniamo. Uno sforzo indispensabile se si vuole imparare ad essere originali in maniera profonda (l’originalità non risiede nel generale ma va ricercata nel particolare, senza perdersi in esso), riconoscendo con serenità di essere in fin dei conti solo delle “copie” di persone già vissute e che ripetono le battute di un canovaccio già scritto e ormai sgualcito perché utilizzato da miliardi di esseri umani nel corso dei millenni; uno sforzo per imparare a sorridere di noi stessi e dell’umanità passata e futura, della ripetitività storica in cui siamo immersi fin dalla nascita, e non restare prigionieri delle forme.
<<La trattazione della figura storica di Hitler spesso suscita polemiche accese: mi riferisco alla proiezionedel film “La caduta”, riguardante gli ultimi giornidi Hitler nel bunker di Berlino e da molti considerato come un’opera che umanizza il Führer, e alla più recente‘discussione’ suscitata dalla professoressa Angela Pellicciariche ha scelto di adottare il testo scritto daHitler – “Idee sul destino del mondo” – nel liceo romanoLucrezio Caro. Lei non crede che, per agevolarela crescita di una coscienza storica matura econsapevole da affiancare alla Memoria, si debbanoconsentire anche la lettura e la visione di tale materiale?
Anche io da ragazzo ho sentito il bisogno di leggere il “Mein kampf” di Hitler. Però io possedevo già gli strumenti per capire quel libro, gli stessi strumenti utilizzati per leggere, in seguito, i “Protocolli dei Savi di Sion”. Ciò che mi lascia perplesso di questa “professoressa” è la mancanza, da parte sua, della necessaria cultura scientifica nel valutare il testo. Chi insegna sa benissimo che un libro così pericoloso, senza un apparato critico, dato in mano a degli innocenti, a persone non consapevoli e non dotate di una cultura tale da poter affrontare la drammaticità di quel testo, può causare grossi danni. Non solo la mancanza di scientificità, mi preoccupa, ma addirittura questa professoressa ha scelto una versione con l’introduzione di un noto neofascista di Ordine Nuovo, implicato nelle famigerate stragi dell’Italia degli anni ’70: Franco Freda.
Oltretutto la scuola presso cui insegna aveva invitato il mio amico deportato Piero Terracina e la professoressa non si è presentata, giustificandosi dicendo che soffre molto quando sente le testimonianze della Shoah e quindi, per non soffrire, ha preferito non esserci. La vicenda si commenta da sé.>>
<<La storia c’insegna che (cert)i libri sono temuti da chi vorrebbe costruire una società culturalmente omogenea e ottenere un appiattimento ideologico in grado di spianare la strada all’instaurazione di regimi totalitari: il confronto democratico, lo scambio di idee, la libera circolazione di progetti culturali, il pensiero alternativo, la capacità e la libertà di scegliere in base alla propria formazione culturale, il rispetto delle diversità, l’individualismo, sono tutte condizioni legittime che ostacolano, però, il cammino verso l’uniformità. “Non leggete mai qualcuno dei libri che bruciate?” Lui si mise a ridere: “Ma è contro la legge!” L’uomo si adagia, senza porre domande, sul giaciglio preparato dal legislatore.>>
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