Archivio per robot

Ready Player One

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 11 aprile 2018 by Michele Nigro

versione pdf: Ready Player One

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Possiamo scindere la “realtà virtuale” dalla “realtà reale”? Crediamo veramente che tutto quello che combiniamo sul web sia un gioco che resta relegato in un angolo immateriale? Nel mondo distopico descritto nel film Ready Player One, il peso delle proprie azioni virtuali incide, e come, sulla realtà immanente. Anche nel nostro presente è così: un’attività illecita (frodi, terrorismo, pedopornografia, ecc.) sviluppata nel cosiddetto dark web, non porta all’arresto dell’avatar ma della persona in carne e ossa che c’è dietro. Lo scandalo di Cambridge Analytica c’insegna che i nostri innocui e virtuali “mi piace” fanno gola a chi si occupa di comunicazione strategica per le campagne elettorali.

OASIS, il mondo virtuale ideato e creato dal programmatore James Halliday, ricorda troppo facilmente Second Life, ma non solo: la gratuità d’accesso, la sua apparente democraticità, dove tutti possono essere presenti, gareggiare per il proprio successo, socializzare offrendo solo il meglio di sé o quello che si vuole far credere essere il meglio, ricordano le piattaforme di social networking come Facebook e simili… James Halliday e il suo socio, invece, rappresentano la versione cinematografica di certe “coppie nerd” che hanno cambiato la storia dell’umanità sia dal punto di vista tecnologico che culturale, e direi anche psicologico: una fra tante, quella formata da Steve Jobs e Steve Wozniak, fondatori della Apple. O i fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin… Ma gli esempi potrebbero essere molti di più.

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“Ex Machina” di Alex Garland e l’inizio della consapevolezza

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 4 agosto 2015 by Michele Nigro

ex machina

ATTENZIONE SPOILER!

“Ex Machina” come a voler dire, scherzandoci un po’ sopra, “l’oggetto che un tempo era solo una macchina e ora non lo è più, è una ex macchina” oppure un riferimento monco alla frase latina ‘deus ex machina’ ovvero a un personaggio della tragedia greca che interviene nella storia per risolvere una trama difficilmente risolvibile, che rappresenta un punto nodale nell’evoluzione di un percorso. O forse entrambe le interpretazioni.

Di sicuro c’è che il film d’esordio del regista Alex Garland riesce ad affrontare, senza per questo risolverle definitivamente, tematiche fantascientifiche e filosofiche di una certa consistenza, adoperando un cast minimalista (cinque personaggi principali in tutto, volendo contare anche il pilota d’elicottero che compare all’inizio e alla fine del film), una sceneggiatura, per fortuna, senza inutili azioni mozzafiato di stampo hollywoodiano, e una location pressoché unica, se escludiamo alcune meravigliose panoramiche naturalistiche che servono a farci prendere fiato uscendo dalle quattro mura super protette della casa-laboratorio.

Gli spettatori romantici presenti in sala, che avevano scelto il film sperando in una mielosa storia d’amore “diversa” tra un robot femmina e un umano, con scene di sesso tra un essere organico e uno inorganico (sesso a cui si fa solo riferimento ‘tecnico’ come possibile attività compresa nel pacchetto del modello), sono stati decimati subito dopo la comparsa sulla scena del test di Turing (test già presente, con un nome di fantasia, nel più famoso “Blade Runner” di Ridley Scott) e dopo che Nathan Bateman, scienziato dedito alla birra e alla danza di brani della disco, quando non impegnato in qualità di inventore e costruttore del robot AVA, e amministratore delegato della società da cui prende origine il progetto per una rivoluzionaria intelligenza artificiale, sottolinea la differenza tra pensiero stocastico e pensiero deterministico, e causando l’abbandono della sala da parte dei behavioristi, fautori di una concezione deterministico-meccanicista nell’interpretazione del comportamento: concezione che, secondo loro, se è stata abbondantemente applicata al regno animale (uomo compreso), figuriamoci se non può essere applicata a quello non animale e inorganico delle “macchine”! Ed è su questo punto che si commette l’errore concettuale più grave. La filigrana del film è infatti rappresentata dalla conquista della consapevolezza e quindi dell’autocoscienza da parte di un essere inorganico: conquista non rilevabile da alcun test. L’iniziale test di Turing dedicato alla macchina diventa pian piano un “test di Turing inverso” da fare all’uomo: AVA è già in grado di pensare, non ha bisogno di test (e Nathan Bateman lo sa, anche se non ne riesce a prevedere le conseguenze più estreme); resta da verificare ora se siano gli esseri umani in grado di prevenire le mosse di un essere artificiale che di fatto è il simbolo di un passaggio evolutivo determinante. L’empatia, l’inganno, la seduzione e l’amore, la complicità, la capacità di desiderare, diventano strumenti raffinati, sviluppati senza seguire alcuna formula statistica ma assecondando una “naturale” gradualità evoluzionistica, per raggiungere uno scopo pensato, oserei dire sognato, ed escludendo ogni sorta di risposta meccanica prevedibile.

Come per Rick Deckard di “Blade Runner”, anche per il giovane Caleb Smith, scelto per testare l’intelligenza artificiale di AVA, arriva il momento di dubitare della propria natura umana: il “test di Turing inverso” comincia a sortire i primi effetti sulle certezze umane. Con una lametta Caleb cerca le prove della propria umanità, fa esperimenti sulla propria pelle e con un taglio causa la fuoriuscita di sangue veritiero con cui si accerta di stare dalla parte giusta, di essere quello che ha sempre creduto di essere, ovvero un umano che sanguina, un organico.

Anche se il tema dei confini tra natura umana ed esistenza artificiale non è nuovissimo per il cinema di genere, “Ex Machina” ha senz’altro il merito di aver sottolineato ulteriormente quanto sia superfluo restare impantanati nella pozzanghera di una netta divisione tra substrato organico e inorganico, dimenticando la qualità del pensiero, la sua genuinità in relazione agli effetti che ha sulla storia. Quello che conta è l’inizio della consapevolezza, e la forma più estrema e drastica di indipendenza mentale coincide con l’uccisione del padre.

Scrissi tempo fa in un altro mio post: <<… Come afferma il Dr. Alfred Lanning nel film Io, robot ispirato all’omonima antologia di Asimov: “Sin dai primi computer c’è sempre stato uno spirito nelle macchine… Segmenti casuali di codice che si raggruppano per poi formare dei protocolli imprevisti… Potremmo considerarlo un comportamento. Del tutto inattesi questi radicali liberi generano richiesta di libera scelta, creatività e persino la radice di quella che potremmo chiamare un’anima. […] Quand’è che uno schema percettivo diventa coscienza? Quand’è che una ricerca diversa diventa la ricerca della verità? Quand’è che una simulazione di personalità diventa la particella amara di un’anima?” Queste stesse frasi potrebbero essere usate in modo inverso per rispondere a quelli che non riescono ad accettare l’indistinguibilità tra umano e sintetico, a quelli che non riescono ad individuare l’essenza delle cose indipendentemente dalla loro natura […]. La soluzione sta nell’empatia vissuta e non teorizzata: gioiamo istintivamente dinanzi al gesto buffo compiuto da un nostro amico a quattro zampe; sappiamo in cuor nostro che è ‘diverso’ da noi, ma non sentiamo di andare contro natura e continuiamo a gioire e ad interagire con esso…>>.

Un’ultima nota la vorrei riservare al ruolo svolto, costituendo forse una novità d’interazione nel genere fantascientifico, dai motori di ricerca e dal social networking (lo scienziato che ha la paternità dell’intelligenza artificiale AVA è CEO di una società che fa capo al più potente motore di ricerca esistente, una sorta di Google prestato al cinema!) nell’evoluzione della “creatura” costruita da Nathan Bateman: siamo noi che con le nostre foto (e gli atteggiamenti che congeliamo in esse), i video, i dati personali, i nostri stati d’animo condivisi sui social, contribuiamo alla costituzione di una banca informativa immensa per futuri stadi evolutivi che vanno oltre l’umano. La consapevolezza che emerge nel nuovo essere nasce anche dalla conoscenza e non solo dalla casualità; il desiderio di libertà nasce dalla conoscenza, dalla curiosità e dal confronto con il mondo: e i social media rappresentano un’estensione della coscienza e della conoscenza da cui attingere ipotesi di vita.

Il ricordo di sé

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 10 giugno 2014 by Michele Nigro

Stefano-Bonazzi-uomo-senza-testa-con-ombrello

Assente da te stesso e dal mondo

abbandoni

sotto il sole cocente di un mortale sonno mentale

gli affetti senzienti del tuo esistere.

Il ricordo di sé latita dal momento presente

carne viva tra gli oggetti quotidiani

errata percezione delle cose

fatale dimenticanza

vaghiamo incoscienti come foglie meccaniche

trasportate dal vento della routine.

E non troverai al risveglio urlo o disperazione così grande

da colmare il vuoto della tua assurda memoria.

G. I. Gurdjieff

G. I. Gurdjieff

“Ghost in the Shell” NIGHT

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 13 febbraio 2014 by Michele Nigro

http://www.nexodigital.it/1/id_348/Ghost-in-the-Shell—NIGHT.asp

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Saluti da Marte!

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 14 agosto 2012 by Michele Nigro

Sorseggiando un caffè, comodamente seduto davanti allo schermo del mio pc, osservo le prime foto inviate dal rover “Curiosity” e provenienti dalla superficie del lontano pianeta rosso, meglio conosciuto come Marte. Le immagini del quarto pianeta del sistema solare non sono una novità: già altre sonde e altri robot, durante passate missioni, hanno inviato scatti suggestivi. A dir poco commovente e trasudante romanticismo è, ad esempio, la foto di un tramonto marziano inviata dal rover Spirit nel 2005.

L’immagine (non importa se a bassa o ad alta risoluzione), più di ogni altro freddo dato strumentale di tipo numerico, è in grado di creare un contatto reale e immediato tra ciò che sembra impossibile e lontano, e la nostra quotidianità apparentemente scontata e conosciuta. L’immagine non ha bisogno quasi mai di interpretazioni: un tramonto è un tramonto, una roccia è una roccia, la polvere è polvere anche su altri mondi. Un tempo, quando le cartoline spedite dai luoghi di vacanza, prima dell’avvento dei videofonini e degli mms, andavano ancora di moda, i parenti costretti a rimanere a casa ricevevano, con tanto di firma e di eventuale post scriptum, la prova tangibile e inconfutabile della nostra presenza nel luogo desiderato e raggiunto. Come a voler dire “Eccomi arrivato!”, “Sto bene!”, “Vedi in che posto mi trovo?”, “Il viaggio è andato liscio!”…

Prima dell’era delle esplorazioni spaziali l’immaginario collettivo si nutriva di descrizioni fantasiose ed esagerate partorite dalla penna di alcuni audaci scrittori di genere: fu anche grazie a questi voli pindarici se la scienza riuscì in certi casi a trovare la forza e le soluzioni giuste per superare determinati punti oscuri. La fantasia spesso ha suggerito forme, sistemi, idee: la tecnologia ha creduto di saper trovare una serie di risposte dal nulla, ma anche l’immaginario di inventori e costruttori era già stato precedentemente inseminato dai fotogrammi mentali di pochi folli visionari dediti alla scrittura e all’arte del disegno. Tutto ciò è durato fino a quando la scienza non ha cominciato ad accumulare dati e tra questi una serie corposa di immagini provenienti dai nuovi mondi scoperti ed esplorati. Da questo punto in poi è stata la realtà visiva, corroborata dai dati strumentali, che ha cominciato a nutrire (e a correggere) la fantasia. C’è stata come una sorta di scambio di favori tra la realtà oggettiva e la fantasia.

Nelle foto inviate dal rover “Curiosity” non troviamo traccia del pianeta Marte descritto da Ray Bradbury nella sue “Cronache marziane” o nel film “Atto di forza” di Paul Verhoeven. Il pianeta immortalato dai robot della NASA è un pianeta “nudo”, deprivato della fantasia popolare e delle sovrastrutture immaginifiche di cui avevamo bisogno negli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo. La realtà è questa: prendere o lasciare! E noi prendiamo. E nell’accettare questa realtà “resettiamo” la nostra fantasia per ricalibrarla in base a nuove esigenze scientifiche, per assecondare nuovi parametri di ricerca: non più marziani verdi con gli occhi sulle antenne ma “semplici” molecole organiche; non più città sotterranee appartenenti a civiltà estinte ma gas e acqua… L’esperienza di “Curiosity” continuerà a ridisegnare un nuovo metodo induttivo da applicare alla planetologia: l’umiltà dei particolari fisico-chimici quasi impercettibili contro l’illusione letteraria di popolazioni extraterrestri già belle e pronte per il primo contatto. La cultura d’evasione si trasforma in fantasia controllata e scientificamente coerente.

Eppure lo scrittore, a differenza dello scienziato che analizza dati in maniera rigorosa e su di essi basa ogni tipo di conclusione, si accontenta di poco per ripartire: la sua “subcreazione da scrittoio”, facendo leva sulla visione di una catena di montagne marziane o di una landa sassosa priva di vegetazione, ridona vitalità a una fantasia apparentemente sottomessa e silenziosa. E a quel punto gli basterà poco. Basterà la notizia della presenza di acqua su Marte per ritornare a immaginare oceani, per riabitare foreste e ridiscendere fiumi, per concepire forme di vita senzienti nascoste tra le colline, per trasformare il semplice silenzio inorganico in un complesso rumore biologico; sarà sufficiente il rilevamento di un composto organico nel suolo per reinventare esistenze scomparse e per ritornare finalmente a raccontare storie.

Buon lavoro “Curiosity”!

“Cyberfilosofia” di Jean Baudrillard

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 17 Maggio 2012 by Michele Nigro

Apparentemente innocuo, composto da 45 pagine, “Cyberfilosofia” è una pubblicazione postuma (ed. Mimesis, collana Minima Volti – 2010) del filosofo “patafisicoJean Baudrillard (1929-2007), interessante, in alcuni punti volutamente ermetica e assiomatica, ricca di nuovi punti di vista stimolanti. Divisa in quattro capitoletti, l’argomentazione di Baudrillard ha il raro dono di utilizzare alcuni elementi tipici dell’immaginario fantascientifico per affrontare temi filosofici riguardanti la vita dell’uomo del terzo millennio: il simulacro e il suo sorpasso reso possibile dal vasto universo della simulazione e dell’iperrealtà; la differenza tra automa e robot (nel secondo capitolo intitolato “L’automa e il robot”); l’esegesi di “Crash” (titolo del romanzo di Ballard e del film diretto da David Cronenberg) nel terzo capitolo intitolato appunto “Crash” in cui Baudrillard, grazie alla sua speciale lente d’ingrandimento iperrealista, evidenzia la commistione esistente tra corpo organico e macchina, tra sessualità e tecnologia, la coincidenza tra l’automobile incidentata (simbolo del romanzo di Ballard) e il godimento puro; e infine il disimpegno definitivo di Baudrillard nei confronti del film “Matrix”: nel quarto e ultimo capitolo – “Decodificare Matrix, Le Nouvel Observateur intervista Jean Baudrillard” – viene spiegata una volta per tutte la distanza esistente tra il pensiero del filosofo francese e il messaggio contenuto nel film dei fratelli Wachowski.

Ma è nel primo capitolo – Tre ordini di simulacri” – che Baudrillard lancia le sfide più interessanti all’indirizzo del mondo fantascientifico. Esiste ancora una relazione tra l’immaginario e le nuove esigenze della science-fiction? Baudrillard non ha dubbi in merito: “… il buon vecchio immaginario della science-fiction è morto, e qualcosa d’altro, che non è più science-fiction, sta nascendo.” Una frase laconica che potrebbe mandare nel panico i puristi del genere e che invece costituisce una traccia affascinante per quei nuovi protagonisti della letteratura fantascientifica che amano indagare andando oltre i confini imposti da una definizione che sembrerebbe non prevedere contaminazioni (fra i pionieri di questo nuovo modo di reinventare la fantascienza, in Italia, sicuramente sono da annoverare i Connettivisti). Baudrillard afferma che in un mondo come quello attuale, in cui il modello, grazie alla simulazione, ha superato il reale diventando esso stesso un’anticipazione del reale, non c’è più spazio per “anticipazioni finzionali” e quindi per una trascendenza immaginaria. Per dirla in parole povere: la fantascienza, se vuole sopravvivere deve “morire”, orientarsi verso nuovi obiettivi, diluendosi in essi.

Superlativo il seguente brano tratto da “Cyberfilosofia”: <<La realtà poteva sorpassare la finzione: era il segno più sicuro del possibile gioco al rialzo dell’immagi­nario. Ma il reale non può sorpassare il modello, di cui non è che l’alibi. L’immaginario era l’alibi del reale, in un mondo dominato dal principio di realtà. Oggi è il reale che è diventato l’alibi del modello, in un universo retto dal principio di simulazione. Ed è paradossalmente il reale che è diventato oggi la nostra vera utopia – ma è un’utopia che non appartiene più all’ordine del possibile, perché non si può che sognarne come un oggetto perduto. Forse la science-fiction dell’era cibernetica e iperreale non può che consumarsi nella resurrezione “artificiale” di mondi “storici”, cercare di ricostruire in vitro, fin nei minimi dettagli, le peripezie di un mon­do anteriore, gli avvenimenti, i personaggi, le ideolo­gie passate, svuotate del loro senso, del loro processo originale, ma allucinanti di verità retrospettiva. Così in Simulacri di Dick, la guerra di Secessione. Gi­gantesco ologramma in tre dimensioni, dove la fin­zione non sarà più uno specchio teso al futuro, ma riallucinazione disperata del passato. Non possiamo più immaginare altri universi: la gra­zia della trascendenza ci è stata negata anche su que­sto terreno. La science-fiction classica è stata quella di un universo in espansione; trovava del resto le sue vie nei racconti di esplorazione spaziale complici del­le forme più terrestri di esplorazione e di colonizza­zione del XIX e XX secolo.>>

E poi, ancora, come a voler concretizzare definitivamente la sua sfida post-moderna: <<Non è più possibile partire dal reale e fabbricare l’irreale, l’immaginario a partire dai dati del reale. Il processo sarà piuttosto l’inverso: si tratterà di realizzare situazioni decentra­te, modelli di simulazione e di ingegnarsi a dar loro i colori del reale, del banale, del vissuto, di reinventare il reale come finzione, proprio perché il reale è scom­parso dalla nostra vita. Allucinazione del reale, del vissuto, del quotidiano, ma ricostruito, talvolta fin nei dettagli di un’inquietante estraneità, ricostruito come una riserva animale o vegetale, esposta alla vista con una precisione trasparente, e tuttavia senza sostanza, derealizzata in anticipo, iperrealizzata. La science-fiction non sarebbe più, in questo sen­so, un romanzesco in espansione con tutta la libertà e il naif che le derivano dal fascino della scoperta, ma piuttosto evolverebbe implosivamente, a immagine della nostra concezione attuale dell’universo, cercando di rivitalizzare, riattualizzare, riquotidianizzare dei frammenti di simulazione, frammenti di quella simulazione universale che è diventato per noi il mondo che si dice “reale”.>>

“Cyberfilosofia” è un libro che ogni scrittore di fantascienza dovrebbe leggere.

Le Quattro leggi della domo-robotica

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , on 27 Maggio 2010 by Michele Nigro

“Le Quattro leggi della domo-robotica”

Legge Zero.

Un domo-robot non può recare danno all’appartamento in cui opera, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento domestico, gli abitanti dell’appartamento ricevano danno o vivano nella sporcizia.

Prima Legge.

Un domo-robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano viva tra i propri rifiuti. Purché questo non contrasti con la Legge Zero.

Seconda Legge.

Un domo-robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani/proprietari della casa o, in assenza di questi, dal maggiordomo (umano o robot) che gestisce la casa, per tutto ciò che concerne la pulizia periodica dell’appartamento, purché tali ordini non contravvengano alla Legge Zero e alla Prima Legge.

Terza Legge.

Un domo-robot deve proteggere la propria esistenza e provvedere alla propria auto-manutenzione (compresa l’attività auto-pulente del proprio deposito di scorie casalinghe, la ricarica delle batterie alla fine di ogni ciclo di pulizia e l’auto-diagnostica delle parti meccaniche pulenti), purché l’autodifesa e l’auto-manutenzione non contrastino con la Legge Zero, la Prima Legge e la Seconda Legge.

(tratto dal “Manuale di Domo-Robotica” di Mikhail Nigrasimov, 56a Edizione – 2058 d.C.)

Il Rosario elettronico, la Fantareligione e “The Padre P.I.O. Show”

Posted in nigrologia with tags , , , , , , , , , , , , , on 12 aprile 2010 by Michele Nigro

<<Il Rosario elettronico Nova idea è l’originale, semplice nell’utilizzo e senza inutili display poco leggibili. Con 2 tasti, uno di accensione e uno per la scelta del giorno della settimana, la vostra preghiera può iniziare immediatamente. Una comoda rotella laterale consente di regolare il volume della recita del rosario con una voce guida femminile e un coro di voci.>>  (FONTE)

Fantareligione: (rel-fi: religion fiction) branca della narrativa fantastica che, al pari della fantascienza impegnata in tematiche scientifiche, si occupa di studiare e di proporre tramite la scrittura creativa possibili (improbabili o impossibili) scenari futuri nell’ambito della credenza religiosa e delle sue manifestazioni pratiche (riti) in una società del domani profondamente modificata (intellettualmente e filosoficamente) rispetto a quella in cui la religione stessa ha raggiunto il massimo successo. (Definizione ideata da Michele Nigro)

Termini ed espressioni correlate: Esofantareligione: storie fantastiche riguardanti esperienze religiose vissute in altri mondi colonizzati dall’Uomo; Extrareligione o Religione Extraterrestre; Space Religiosity; Prete dello Spazio (Space Priest); Chiesa Satellite; Crociata Interstellare per la liberazione del Santo Sepolcro Gravitazionale; Fonte battesimale lagrangiano; Missione religiosa planetaria; Monaci ibernati; Suore stellari; Calice in titanio; Confessionale Robotizzato Positronico; Capsula di clausura; Chiostro marziano; Cenobio meteoritico (piccola comunità di religiosi che scelgono di vivere in povertà su meteoriti dispersi nello spazio siderale); Campanile geostazionario; Cero pasquale a gravità zero; Incenso alieno; Liturgia intergalattica; Voto di Gravità; Messa cantata in klingon; Bolla Spaziale; Benedizione urbi, orbi et universi; l’Ora dell’Angelus Interstellare; “… convertire l’alieno…”; Sinodo Interstellare; Concilio Interplanetario; Diocesi Orbitante; Vescovo Satellitare. (Termini ed espressioni di Michele Nigro)

“The Padre P.I.O. Show” [1]

(un caso di malasantità)

“Tutta la vita delle società nelle quali predominano
le condizioni moderne di produzione
si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli.
Tutto ciò che era direttamente vissuto
si è allontanato in una rappresentazione.”
Guy Debord – “La società dello spettacolo”
 
“Tutta la chiesa sempre più d’accordo, sempre più lontano
già nel terzo millennio
loro ragionano così… Altro che giorno per giorno.”
Vasco Rossi – “La fine del millennio”
 
“Fine del mondo in Mondovisione.
Diretta da S. Pietro per l’occasione.”
Ligabue – “A che ora è la fine del mondo”

San Giovanni Rotondo, 24 Aprile 2028 d.C.

Non appena la porta automatica della chiesa si chiuse alle mie spalle, fui avvolto da un piacevole silenzio soprannaturale e l’odore di cui tanto si parlava raggiunse persino le mie agnostiche narici. Il tempo di compiere pochi passi in direzione della zona dove presumibilmente avrei trovato l’entrata della cripta e fui intercettato da una sorridente vecchietta, bassa di statura e con una borsetta nera aperta che penzolava da un braccio.

– Giovanotto, mi scusi! Sarebbe così gentile da leggermi il biglietto di quella macchina infernale? – e nel pronunciare la parola infernale si girò velocemente verso l’altare sussurrando termini incomprensibili come a voler chiedere perdono di qualcosa: – Ho dimenticato di portare con me le lenti per leggere da vicino: credevo di averle messe nella borsetta e invece…

– Non si preoccupi, mi faccia vedere. – presi in mano un piccolo rettangolo di carta bianca che non avevo mai visto o utilizzato prima: – Qui c’è scritto, signora, che dovrebbe recitare tre avemarie e quattro padrenostro oppure, fa lo stesso, può andare sul sito della diocesi, se è “pratica di Internet”, e cliccare tre volte sull’immagine della Madonna e quattro su quella di Gesù.

– La ringrazio tantissimo, Lei è un giovanotto molto gentile! Che Dio la benedica e buona giornata.

– Si figuri, per così poco.

Ah, sì! Ne avevo già sentito parlare di quelle macchine infernali o forse avevo letto qualcosa da qualche parte: si trattava degli avveniristici Confessionali Intelligenti della Soulsoft, una società tailandese con una sede importante anche a Milano specializzata in arredamenti liturgici interattivi. Una vera novità! Almeno dal punto di vista tecnologico.

Dopo la grave crisi vocazionale d’inizio millennio, al Vaticano sembrò essere l’unica soluzione praticabile per arginare la pressante richiesta d’ascolto da parte dei fedeli peccatori che volevano continuamente essere confessati. Tu entravi in quegli affari di legno del tutto simili ai confessionali che c’erano una volta, ti inginocchiavi e cominciavi a vomitare fuori tutte le nefandezze commesse e i pensierini poco cristiani formulati nei giorni e nelle settimane precedenti. Solo che, dall’altra parte della grata, non c’era il classico prete in devoto e comprensivo raccoglimento o semiaddormentato, pronto a trovare le parole giuste da affibbiarti per alleggerire l’anima, ma una serie di sofisticati sensori collegati tramite una vasta giungla di fili e marchingegni vari a un cervellone elettronico piazzato, addirittura, in un lontano sotterraneo di Città del Vaticano. Questo computer centrale, forte di un database contenente più di ottomila definizioni di peccati standard e un corpus di millecinquecento peccati particolarmente fastidiosi e “pesanti”, era capace di elaborare una penitenza personalizzata nel giro di pochi decimi di secondo, dopo che ci si alzava dall’inginocchiatoio. Il tempo di ringraziare, in direzione della webcam, il prete virtuale e già, zaaaac!, t’usciva il biglietto da un’apposita fessura con tanto di preghiere da recitare e atti riparatori da compiere nel giro di ventiquattrore. Cantava Giorgio Gaber alcuni decenni prima: “E la chiesa si rinnova per la nuova società!”

Ero stato inviato dal mio giornale, ovviamente in qualità di giornalista scientifico e non certo di devoto del santo di Pietrelcina, in occasione di un evento storico tanto fondamentale quanto segreto: l’inaugurazione ufficiosa del “P.I.O.” a cui avrebbero assistito pochi e selezionati giornalisti accreditati direttamente dal Vaticano e le più alte cariche religiose della regione Puglia, in primis il vescovo.

La robotica aveva fatto passi da gigante durante quegli ultimi venti anni e l’immagine del santo con il volto siliconato, che fece scalpore nel 2008, stava per essere archiviata definitivamente. Le ricerche riguardanti il cervello positronico avevano già dato ampie soddisfazioni sul versante della gestione industriale e commerciale: robot capaci di gestire sportelli bancari o di pilotare petroliere in pieno oceano senza commettere alcun errore, avevano da tempo fatto la loro comparsa sui vari scenari della vita pubblica.

Stavolta si trattava, però, di applicare gli stessi concetti in un campo decisamente più delicato ed emotivamente sensibile: riproporre al pubblico credente il corpo di un santo morto da sessant’anni. L’equipe internazionale di esperti aveva lavorato per più di un anno sui pochi resti del frate, cercando di riprodurre un simulacro umanoide in metallo leggero. Non era tanto importante creare esattamente le fattezze corporee del santo che sarebbero state ricoperte da una muscolatura e un tegumento in gomma compatta e dall’immancabile saio, quanto piuttosto fabbricare delle mani convincenti e soprattutto un nuovo volto, utilizzando una speciale plastica gommosa capace di assecondare i movimenti dei sottostanti meccanismi robotici; congegni precisissimi che avrebbero dovuto interpretare esattamente le espressioni umane, le smorfie, gli stati d’animo del frate. Un’impresa faraonica, se confrontata con la vecchia e sorpassata maschera in silicone.

I tecnici, grazie a quella prova, avrebbero presto saputo se gli sforzi di quei lunghi mesi fossero stati inutili o se potevano finalmente dichiarare aperta una nuova stagione della robotica. Il “santo robot” avrebbe potuto interagire con i fedeli, ascoltarli, toccarli, benedirli, schiaffeggiarli se necessario, coccolarli, sbatacchiarli, incensarli, trastullarli, mandarli fuori a pedate dalla cripta, tirare le orecchie ai bambini, confessarli, ungerli, battezzarli, sposarli, cresimarli proprio come avrebbe fatto il vero frate Pio da Pietrelcina durante gli anni perduti della sua vita carnale.

Si passava così da una venerazione statica a una venerazione dinamica e interattiva: i fedeli, pur sapendo che non si trattava di un vero corpo umano, sarebbero stati felici di illudersi dinanzi al robot, avrebbero fatto finta di poter recuperare un rapporto mai vissuto con il famoso frate, si sarebbero riscaldati al fuoco confortante delle sue sante parole come bimbi seduti ai piedi di un nonno ecumenico, parole elaborate in tempo reale e senza esitazione dal calcolatore centrale del P.I.O.

Avrebbero, insomma, vissuto una nuova e sofisticata fase di illusione attuata dalla santa madre chiesa, che farebbe di tutto pur di non allentare la presa sull’emotività e sulla fedeltà delle sue pecorelle smarrite.

La spettacolarizzazione della religione stava per raggiungere il suo massimo livello storico, facendo apparire ridicoli tutti gli sforzi architettonici dei secoli passati, tutte le crociate lanciate in nome di Dio, tutta la maestosità del vicario di Cristo fatta di ori e raffinati paramenti.

E io avrei avuto il privilegio di assistere a quella eccezionale anteprima pensata per pochi.

– Sono uno dei giornalisti accreditati. – dissi mostrando il mio tesserino al supervisore del programma mentre, stando in piedi davanti alla porta della sala controllo, cercava il mio nome nella lista.

– Tutto a posto, può entrare.

– Grazie!

Avevano ricavato una certa quantità di spazio, in cui collocare la sala controllo del P.I.O., utilizzando una delle cappelle laterali opportunamente chiusa con un muro. Al centro della cripta c’era uno scranno imponente su cui sedeva immobile il santo robot ricoperto dall’immancabile saio marrone e con il cappuccio in testa. Dalla sala i tecnici potevano tenere sotto controllo la cripta e il suo serafico ospite, non visti, attraverso un vetro a specchio: sulla consolle pullulante di luci e tasti le mani frenetiche degli operatori attendevano agli ultimi preparativi tecnici prima dell’arrivo dell’alto prelato che avrebbe dato il via alla prova generale del “Padre Pio Show”.

Ripensavo, durante l’attesa, ad alcuni passaggi delle interviste che avevo realizzato il giorno prima gironzolando tra i fedeli che frequentano costantemente la chiesa di San Giovanni Rotondo.

– Io sono uno dei miracolati! – mi disse convinto un uomo di mezza età con uno strano sorriso stampato in faccia: – Avevo un tumore e dovevo essere operato. La sera prima mi addormentai, sognai Padre Pio e quando mi svegliai non avevo più niente! Capisce?

Certo, capivo. Dopo alcuni minuti, parlando con sua moglie che l’accompagnava, seppi la verità sul “miracolo”. Il poveraccio interpretava il “sogno” come una metafora dell’anestesia generale: infatti era stato regolarmente operato da un’equipe di chirurghi oncologi ed effettivamente al suo risveglio non c’era più traccia della neoplasia. All’uomo piaceva credere che fosse stato Padre Pio a levarglielo e continuai a farglielo credere, tanto non mi costava nulla.

Vivere e commerciare sfruttando la figura non sempre cristallina di quel frate: questo, forse, era stato il vero miracolo. Il miracolo economico.

Come aveva scritto un collega su “la Repubblica” qualche giorno prima: “… si tratta di vestigia di un mondo pre-moderno… dell’incapacità da parte dell’italiano medio di praticare una religione spirituale, di andare al di là della materia, di distinguere tra spirito e materia… Il materialismo della religione per esaltare l’incorruttibilità del santo… Santità e corruzione non stanno bene insieme…”

Il mio amico giornalista era sempre stato molto delicato e diplomatico nei suoi articolo: al posto suo io avrei parlato, invece, di “pornografia religiosa” e l’avrei fatto senz’altro nell’articolo che m’apprestavo a scrivere, dopo la prova che stava ormai per cominciare. Non si trattava, ovviamente, della classica pornografia a cui il nostro pensiero troppo facilmente ci rimanda, ma dell’ostentazione di un’oscena corporeità, seppur santa, che denunciava un’immaturità spirituale gravissima, anche se condivisa da migliaia di rispettabilissime persone. La gente aveva bisogno di vedere e la filosofia mediatica (per non dire televisiva!) che stava alla base di questo bisogno collettivo, era la stessa che alimentava tutti gli altri campi dell’umana comunicazione commerciale: il santo come un detersivo, né più né meno. Togliere macchie o tumori, la differenza non importava quasi a nessuno.

– Buongiorno Eminenza, è tutto pronto! – disse il capo del programma quando vide entrare il vescovo nella sala.

– Potete procedere, allora! – rispose il prelato sedendosi su una delle poltrone appositamente preparate per l’occasione.

– Circuiti preliminari?

– Pronti!

– Percentuale di elaborazione dati positronici?

– 98%!

– Bene… Procediamo con l’invio dei primi schemi mentali.

– … 3… 2… 1: invio in corso.

Per alcuni secondi non accadde nulla di interessante, poi all’improvviso il robot positronico cominciò a muovere le dita della mano destra e alzò il braccio di quel lato fino all’altezza del viso come a volersi rendere conto di se stesso, della propria “esistenza”, come a voler registrare accuratamente il dato “mano”.

Gli schemi mentali di Padre Pio erano stati preparati da un attento gruppo di agiografi e di psicologi comportamentali sulla base di una vasta gamma di informazioni culturali e biografiche che andavano dal 1887, anno di nascita del santo, fino al 1968, anno della sua morte. Schemi che avevano lo scopo di riprodurre, tramite il simulacro robotizzato, la maggior parte dei gesti e delle reazioni tipiche del frate, quando questo era realmente vivo in Puglia e gli scorreva del sangue vero nelle vene. Insieme a me, tra il selezionato “pubblico”, vi erano infatti molti anziani testimoni che avevano avuto la fortuna di conoscere personalmente Padre Pio all’epoca della sua prima vita organica e avrebbero potuto così suggellare, con la loro presenza e il loro consenso, il successo o meno dell’esperimento.

– Sta benedicendo! – esclamò in maniera concitata uno di loro in direzione del capo programma.

– É un miracolo… – incalzò il capo programma visibilmente esaltato – … della scienza! – si affrettò a concludere.

Il santo robot si alzò dallo scranno su cui era seduto e fece i primi passi nella cripta. Il cervello positronico stava registrando minuziosamente tutte le caratteristiche dell’ambiente e presto i dati raccolti avrebbero permesso alla macchina di muoversi autonomamente senza più bisogno di ricevere ulteriori dati dalla sala controllo.

– Mandiamogli un bambino! – disse risoluto il vescovo.

– Fate entrare il bambino! – comandò un tecnico da un microfono della consolle.

Si aprì una porta e comparve timidamente un “fortunato” bambino scelto per estrazione tra i tanti concorrenti della parrocchia di San Giovanni Rotondo.

– Fatti più avanti, Luigino! – intimò il tecnico dall’altoparlante.

– E tu chi sì? – chiese tra lo stupore generale il santo robot, pronunciando le sue prime parole.

– Mi chiamo Luigino e questo fiore è per te! – il bambino preventivamente addomesticato era entrato nella cripta con un giglio in mano.

– Grazie guagliò! La vuoi na caramella?

– Sì!

Il vescovo, strappandosi quasi le vesti di dosso, si alzò in piedi ed esclamò:

– Funziona!

E tutti, tranne io, si inginocchiarono per pregare.

La prova generale del “Padre Pio Show” procedeva ormai da più di un’ora: avevano mandato nell’arena, oltre il bambino, una madre anziana, una giovane ragazza con il fidanzato, un carabiniere, un parroco diocesano, un contadino, un medico, un hippy, un neonato, un veterinario, un tetraplegico, un ragazzo affetto dalla sindrome di Down, un ex alcolizzato, un ex galeotto, un tossicodipendente di una vicina comunità e un gatto nero… Gli schemi mentali erano stati quasi tutti caricati nel cervello positronico del santo e le prove sembravano procedere per il meglio: le reazioni erano più o meno uguali a quelle del vero frate Pio. Vi fu anche un momento di generale ilarità quando il frate positronico ordinò all’hippy:

– Guagliò, vatti a lavare e tagliati sti capill! Sinnò nun t’ facc trasì cchiù!

Era proprio lui: il burberamente dolce frate cappuccino era “tornato” per continuare a operare il bene tra i suoi amati fedeli. Il vescovo sembrava volesse gridare al mondo intero: – Santi positronici di tutto il mondo, unitevi!

Ma l’entusiasmo generale sarebbe stato di lì a poco ridimensionato.

– Registro un preoccupante aumento dell’energia positronica nel lobo frontale! – avvertì nervosamente uno dei tecnici rivolgendosi al capo programma che da dieci minuti gongolava in compagnia del vescovo discutendo degli sviluppi futuri della prova.

– Dammi sul monitor un grafico dello schema mentale generale. – ordinò il capo programma rientrando bruscamente dalla gioia prematura.

– Ecco… Sembrerebbe tutto a posto, ma nonostante questi dati non riesco a spiegarmi l’aumento…

– Diminuiamo del 5% il flusso di dati mentali positronici e controlliamo il buffer overflow!

– Siamo già all’87%, ma mancano ancora i dati mentali relativi agli anni sessanta…

– Tu non ti preoccupare: diminuisci il flusso come ti ho detto e tieni sotto controllo l’energia.

– Va bene!

Ma ormai era troppo tardi: il sovraccarico positronico aveva già destabilizzato la griglia motoria del robot e dalla sala controllo, da quell’istante in poi, avrebbero potuto solo assistere passivamente alle follie robotiche del marchingegno andato in tilt.

I’m singing in the rain just singing in the rain! – la versione robotizzata di Padre Pio da Pietrelcina cominciò a cantare improvvisamente, tra lo stupore generale, imitando addirittura i passi di danza di Gene Kelly nel celeberrimo film “Cantando sotto la pioggia”.

– Interrompi l’energia! – sbraitò il capo programma.

– Fatto… Non succede niente! – rispose il tecnico guardando la faccia terrorizzata del capo.

– Il sovraccarico positronico sta gestendo in maniera autonoma l’immane quantità di dati che abbiamo già introdotto nella memoria positronica…

– E ora cosa facciamo?

– Bisognerebbe entrare nella cripta e togliere direttamente dalla testa del robot il chip mnemonico…

– La vedo difficile, capo!

– Lo so: se entriamo lì dentro, quello sarebbe capace di prenderci a calci in culo fino a domani mattina!

Intanto il frate positronico, imitando Gassman, continuava indisturbato la sua inaspettata performance teatrale: – Essere o non essere, questo è il problema: se sia più nobile d’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli? [2]

– Fermatelo, per carità! – guaiva il vescovo ormai in preda a una vera e propria crisi isterica.

– Ci stiamo provando! – cercò di rassicurarlo senza troppa convinzione il capo programma.

Con ventiquattromila baci… così frenetico è l’amore… in questo giorno di follia… ogni minuto è tutto mio! – tirando in ballo persino il Molleggiato, il robot s’era messo a cantare un motivo sempreverde del 1961 di Adriano Celentano; segno evidente che, almeno fino a quell’anno, i dati mnemonici erano stati incamerati.

La sala era ormai in preda a un comprensibile trambusto: frati cappuccini che correvano da tutte le parti, suore con in mano i sali per il vescovo svenuto, tecnici disperati e assolutamente impotenti che guardavano il cybercappuccino attraverso il vetro a specchio mentre cantava un vecchio successo di Frank Sinatra: – But more, much more than this, I did it my way!

Non c’era più traccia in me del freddo cronista scientifico in giacca e cravatta; ero disteso da più di due minuti sulla sedia e avevo le mani premute sulla pancia per cercare di trattenere il dolore derivante dalle forti risate a cui m’ero abbandonato. Mentre tutti intorno a me fuggivano e si strappavano i capelli, io ero forse l’unico a non aver perso la testa. L’unico ancora capace di ridere della vita, delle follie del mondo: per non prendere quella buffonata pseudo-religiosa troppo seriamente. L’esperimento malriuscito, poi, aveva rappresentato il massimo della stupidità umana: gli individui della mia specie erano capaci di atti assolutamente esilaranti e la comicità derivante da questi fatti aumentava progressivamente in relazione alla grandiosità e all’austerità che li accompagnava.

– Proprio strana la specie umana! – pensai tra me e me mentre mi apprestavo a lasciare la sala controllo.

Avevo guadagnato ormai l’uscita della cripta e mi dirigevo verso il sagrato della chiesa, all’aria aperta, sotto il sole cocente di Puglia. Non ridevo più e respiravo decisamente meglio.

Non sapevo ancora cosa avrei scritto nel mio articolo, ma di una cosa ero fermamente convinto: non capivo il trambusto dei frati e la disperazione scaturita dagli eventi a cui avevo appena assistito. In fin dei conti, e malgrado tutto, il “Padre Pio Show” c’era stato e, almeno io, m’ero divertito come non mi succedeva ormai da anni.

(© Michele Nigro 2008)

NOTE

[1] P.I.O.: acronimo di “Positronic Intelligence Ostensory” – Ostensorio ad Intelligenza Positronica.

[2] William Shakespeare – “Amleto”, atto III, scena I.

Un mio articolo intitolato “Lo show di Padre Pio”, riguardante il tema della spettacolarizzazione della religione, pubblicato sul mensile “i cento passi”.

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